Operazione Belgio 2: differenze tra le versioni

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Secondo gli inquirenti presso questi recapiti tra Marzo e Maggio [[1992]] sarebbe stata depositata tra il quintale e la tonnellata e mezzo di hashish, con arrivi di 1000 kg ogni 15 giorni, prima di essere venduta e smistata sul territorio milanese e nelle principali piazze italiane. Peculiare è il caso riguardante l’appartamento di via Belgioso 2, la casa di Antonio Di Giovine. Dalle indagini è emerso che il fratello di Emilio riceveva in camera da letto i clienti e consegnava in loco la quantità di sostanze stupefacenti prestabilita. I collaboratori di giustizia hanno rivelato che in alcune occasioni si arrivava ad avere una ventina di persone in attesa di concludere affari con Antonio nel salotto dell’appartamento. <ref>Santo Belfiore, Sentenza Terza corte d’assise d’appello - Procedimento Penale n. 5/2000, Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, p.141</ref>
Secondo gli inquirenti presso questi recapiti tra Marzo e Maggio [[1992]] sarebbe stata depositata tra il quintale e la tonnellata e mezzo di hashish, con arrivi di 1000 kg ogni 15 giorni, prima di essere venduta e smistata sul territorio milanese e nelle principali piazze italiane. Peculiare è il caso riguardante l’appartamento di via Belgioso 2, la casa di Antonio Di Giovine. Dalle indagini è emerso che il fratello di Emilio riceveva in camera da letto i clienti e consegnava in loco la quantità di sostanze stupefacenti prestabilita. I collaboratori di giustizia hanno rivelato che in alcune occasioni si arrivava ad avere una ventina di persone in attesa di concludere affari con Antonio nel salotto dell’appartamento. <ref>Santo Belfiore, Sentenza Terza corte d’assise d’appello - Procedimento Penale n. 5/2000, Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, p.141</ref>


Secondo le indagini l’approvvigionamento di hashish proveniva dal Marocco. La procedura era semplice: il carico di droga veniva raccolto e smistato in Spagna e Portogallo per mezzo di natanti e successivamente importato in Italia via terra tramite camion frigorifero, pullman turistici, T.I.R., autovetture e furgoni. <ref>Santo Belfiore, Relazione Introduttiva Sentenza Terza corte d’assise d’appello - Procedimento Penale n. 5/2000, Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, p.183</ref> Secondo le indagini, dal [[1989]] le forniture di hashish sarebbero state si sarebbero attestate tra il quintale e le decine di tonnellate per volta fino a 25000 kg. Emilio Di Giovine dichiarò quale fosse il suo modo di operare nel traffico dell’hashish. Inizialmente quando acquistava lo stupefacente proveniente dal Marocco, ne pagava metà subito e metà dopo la vendita; quando i fornitori iniziarono a conoscerlo e a fidarsi, acquistava l’intero quantitativo a credito, pagandolo dopo lo smercio. Di Giovine faceva caricare lo stupefacente su autovetture, le quali avevano una capienza fino a 350 kg e trasportavano l’hashish fino a un altro luogo, ancora in Spagna, dove vi era in attesa un pullman sul quale l’hashish veniva caricato e trasportato a Milano. All'arrivo c’era un uomo di fiducia di Di Giovine deputato a distribuire la merce ai vari clienti e a ricevere i pagamenti. Secondo le indagini e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, per la prima volta tra dicembre [[1990]] e gennaio [[1991]] per evitare i costi dei trasporti in Spagna e Portogallo l’organizzazione decise di utilizzare un trasporto diretto via nave dal Marocco a Lampedusa con il supporto di Jaime Gonzales Garcia e Tonino Sanguedolce. Questo tipo di trasporto venne poi ripetuto nel tempo traendo vantaggio della complicità di altre organizzazioni criminali. <ref>Santo Belfiore, Sentenza Terza corte d’assise d’appello - Procedimento Penale n. 5/2000, Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, p.393 e ss.</ref>
Secondo le indagini l’approvvigionamento di hashish proveniva dal Marocco. La procedura era semplice: il carico di droga veniva raccolto e smistato in Spagna e Portogallo per mezzo di natanti e successivamente importato in Italia via terra tramite camion frigorifero, pullman turistici, T.I.R., autovetture e furgoni. <ref>Santo Belfiore, Relazione Introduttiva Sentenza Terza corte d’assise d’appello - Procedimento Penale n. 5/2000, Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, p.183</ref> Secondo le indagini, dal [[1989]] le forniture di hashish si sarebbero attestate tra il quintale e le decine di tonnellate per volta fino a 25000 kg. Emilio Di Giovine dichiarò quale fosse il suo modo di operare nel traffico dell’hashish. Inizialmente quando acquistava lo stupefacente proveniente dal Marocco, ne pagava metà subito e metà dopo la vendita; quando i fornitori iniziarono a conoscerlo e a entrare in buoni rapporti, acquistava l’intero quantitativo a credito, pagandolo dopo lo smercio. Di Giovine faceva caricare lo stupefacente su autovetture, le quali avevano una capienza fino a 350 kg e trasportavano l’hashish fino a un altro luogo, ancora in Spagna, dove vi era in attesa un pullman sul quale l’hashish veniva caricato e trasportato a Milano. All'arrivo c’era un uomo di fiducia di Di Giovine deputato a distribuire la merce ai vari clienti e a ricevere i pagamenti. Secondo le indagini e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, per la prima volta tra dicembre [[1990]] e gennaio [[1991]] per evitare i costi dei trasporti in Spagna e Portogallo l’organizzazione decise di utilizzare un trasporto diretto via nave dal Marocco a Lampedusa con il supporto di Jaime Gonzales Garcia e Tonino Sanguedolce. Questo tipo di trasporto venne poi ripetuto nel tempo traendo vantaggio della complicità di altre organizzazioni criminali. <ref>Santo Belfiore, Sentenza Terza corte d’assise d’appello - Procedimento Penale n. 5/2000, Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, p.393 e ss.</ref>


Per quanto riguarda il mercato dell’eroina fu gestito inizialmente da Maria Serraino e successivamente dai figli Emilio e Antonio Di Giovine. La merce proveniva da fornitori Turchi e Siriani e il gruppo criminale divenne leader di questo settore dalla fine degli anni ‘70 al [[1993]], periodo in cui terminano le indagini. Le forniture di eroina provenienti dal medio oriente variavano dai 10 kg al quintale l’una. Durante il periodo di latitanza di Emilio Di Giovine negli Stati Uniti il gruppo criminale aprì un canale Milano – New York per il traffico di questa sostanza stupefacente. <ref>Ivi, p.361</ref>
Per quanto riguarda il mercato dell’eroina fu gestito inizialmente da Maria Serraino e successivamente dai figli Emilio e Antonio Di Giovine. La merce proveniva da fornitori Turchi e Siriani e il gruppo criminale divenne leader di questo settore dalla fine degli anni ‘70 al [[1993]], periodo in cui terminano le indagini. Le forniture di eroina provenienti dal medio oriente variavano dai 10 kg al quintale l’una. Durante il periodo di latitanza di Emilio Di Giovine negli Stati Uniti il gruppo criminale aprì anche un canale Milano – New York per il traffico di questa sostanza stupefacente. <ref>Ivi, p.361</ref>


=== Traffico e detenzione di armi da fuoco e da guerra ===
=== Traffico e detenzione di armi da fuoco e da guerra ===


Il gruppo criminale di Di Giovine come precedentemente menzionato acquistava, contraffaceva e utilizzava un ingente quantitativo di armi da fuoco e da guerra. Vi entrò in possesso pagandole con denaro o scambiandole per importanti quantitativi di Hashish sin dal 1988. Il principale fornitore di armi fu Maurizio Bosetto (anche lui poi divenuto collaboratore di giustizia). <ref>Ivi, p.283</ref>
Il gruppo criminale di Di Giovine come precedentemente menzionato acquistava, contraffaceva e utilizzava un ingente quantitativo di armi. Vi entrò in possesso pagandole con denaro o scambiandole per importanti quantitativi di Hashish sin dal [[1988]]. Il principale fornitore di armi fu Maurizio Bosetto (anche lui poi divenuto collaboratore di giustizia). <ref>Ivi, p.283</ref>
Il gruppo agì in questo settore non solo per supportare le proprie azioni ma anche per essere da sostegno alle famiglie Serraino, Simerti, Condello e i loro alleati. La famiglia Di Giovine fu preziosa nel reperire con armi e denaro diventando un fattore durante la guerra di mafia in atto in Calabria dal 1985 contro le famiglie De Stefano, Libri e Tegano. <ref>Ivi p.323</ref>
Il gruppo agì in questo settore non solo per supportare le proprie azioni ma anche per essere da sostegno alle famiglie Serraino, Simerti, Condello e i loro alleati. La famiglia Di Giovine fu preziosa nel reperire armi e denaro, diventando un fattore centrale nella guerra di mafia in atto in Calabria dal [[1985]] contro le famiglie De Stefano, Libri e Tegano. <ref>Ivi p.323</ref>


Fondamentale dopo l’acquisto era la contraffazione. Tutti i numeri di matricola venivano resi illeggibili tramite abrasione, fresatura e talvolta anche trapanatura affinché diventasse impossibile anche tramite l’uso di acidi risalire al numero originario identificativo. Di Giovine richiedeva pistole Sig Sauet, Smith & Wesson, Ruger, Glock; come armi automatiche le più piccole erano le micro-uzi e la più grosse un treppiedi tedesco MG 43, con nastro di grosso calibro, quasi antiaereo, poi Kalashnikov calibro 5.56 o 5.52. Secondo le dichiarazioni di Bosetto, Emilio Di Giovine richiese anche una fornitura di Bazooka che però lui non possedeva. Bosetto aveva appreso dallo stesso boss che la maggior parte delle armi erano destinate alla Calabria per essere utilizzate nella guerra di mafia in corso all'epoca. Tuttavia secondo le indagini Bosetto non era l’unico fornitore. Egli stesso infatti scoprì che Di Giovine riuscì ad acquisire la fornitura di bazooka che richiedeva, tramite Theodor Cranendonk fornitore olandese che viveva in Svizzera. Anche Attilio Milan fornì in più di una situazione kalashnikov e fucili a pompa trattando principalmente con Margherita Di Giovine. <ref>Ivi p.284 e ss.</ref>
Fondamentale dopo l’acquisto era la contraffazione. Tutti i numeri di matricola venivano resi illeggibili tramite abrasione, fresatura e talvolta anche trapanatura affinché diventasse impossibile anche tramite l’uso di acidi risalire al numero originario identificativo. Di Giovine richiedeva pistole Sig Sauet, Smith & Wesson, Ruger, Glock; come armi automatiche le più piccole erano le micro-uzi e le più grosse erano dei treppiedi tedesco MG 43 e Kalashnikov calibro 5.56 o 5.52. Secondo le dichiarazioni di Bosetto, Emilio Di Giovine richiese anche una fornitura di Bazooka che però lui non fu in grado di reperire. Bosetto aveva appreso dallo stesso boss che la maggior parte delle armi erano destinate alla Calabria per essere utilizzate nella guerra di mafia in corso all'epoca. Tuttavia secondo le indagini Bosetto non era l’unico fornitore. Egli stesso infatti scoprì che Di Giovine riuscì ad acquisire la fornitura di bazooka che richiedeva, tramite Theodor Cranendonk fornitore olandese che viveva in Svizzera. Anche Attilio Milan fornì in più di una situazione kalashnikov e fucili a pompa trattando principalmente con Margherita Di Giovine. <ref>Ivi p.284 e ss.</ref>


=== Evasione Emilio Di Giovine ===  
=== Evasione Emilio Di Giovine ===  


Il [[21 giugno]] [[1991]] Emilio Di Giovine grazie ad un’azione posta in essere da complici armati evase il mattino stesso del suo arrivo all'Ospedale Fate Bene Fratelli di Milano. La visita specialistica era stata prescritta con la complicità̀ del Dott. Piccolo, un medico del servizio sanitario della casa circondariale di S. Vittore in Milano, pagato profumatamente affinché predisponesse il trasferimento. Al momento dell’arrivo, l’ambulanza si recò nei sotterranei dell'ospedale, ed appena l’imputato venne fatto scendere, entrò in azione un gruppo di uomini vestiti con camici da infermieri, armati di pistole e bombolette a gas irritante, che, dopo avere immobilizzato i Carabinieri di scorta ed un infermiere del pronto soccorso, si fecero consegnare le chiavi delle manette del detenuto, rapinarono le pistole d'ordinanza in dotazione ai militari e quindi si dileguarono. Lungo il tragitto i fuggiaschi incrociarono un medico, il dott. Iacini, il quale venne colpito violentemente al capo con una delle pistole. Il gruppo quindi scavalcò il cancello che sbocca su via Castelfidardo e rapinò due autovetture (una FIAT 164 ed una FIAT Uno), a bordo delle quali si diede alla fuga. <ref>Ivi p.299 e ss.</ref>
Il [[21 giugno]] [[1991]] Emilio Di Giovine grazie ad un’azione attutata da complici armati evase il mattino stesso del suo arrivo all'Ospedale Fate Bene Fratelli di Milano. La visita specialistica era stata prescritta con la complicità̀ del Dott. Piccolo, un medico del servizio sanitario della casa circondariale di S. Vittore in Milano, pagato profumatamente affinché predisponesse il trasferimento. Al momento dell’arrivo, l’ambulanza si recò nei sotterranei dell'ospedale, ed appena l’imputato venne fatto scendere, entrò in azione un gruppo di uomini vestiti con camici da infermieri, armati di pistole e bombolette a gas irritante, che, dopo avere immobilizzato i Carabinieri di scorta ed un infermiere del pronto soccorso, si fecero consegnare le chiavi delle manette del detenuto, rapinarono le pistole d'ordinanza in dotazione ai militari e quindi si dileguarono. Lungo il tragitto i fuggiaschi incrociarono un medico, il Dott. Iacini, il quale venne colpito violentemente al capo con una delle pistole. Il gruppo quindi scavalcò il cancello che sbocca su via Castelfidardo e rapinò due autovetture (una FIAT 164 ed una FIAT Uno), a bordo delle quali si diede alla fuga. <ref>Ivi p.299 e ss.</ref>


Le successive dichiarazioni di Margherita Di Giovine, sorella dell’evaso, fecero luce sull’identità dei complici (Raimondo Di Napoli, Felice De Martino, Massimo De Nuzzo, Ezio Dorigatti, Maurizio Margiotta, Carmelo Casile e Fabio Nistri), nonché sull’identità del pianificatore: lo stesso Emilio Di Giovine. Secondo Rita, Emilio avrebbe pianificato dal carcere tutta l’operazione facendo arrivare biglietti necessari per la preparazione al piano di fuga tramite Raimondo Di Napoli, agente di polizia penitenziaria in servizio presso il centro clinico di San Vittore e cognato di Ezio Dorigatti corrotto con 30 milioni di lire. Al fine di ricompensare i complici per l’operazione, Emilio Di Giovine stanziò complessivamente secondo la collaboratrice 500 milioni di lire. Le dichiarazioni vennero poi confermate da Fabio Nistri, uno dei partecipanti alla fuga che aggiunse che Di Napoli fornì in carecere a Di Giovine un cellulare, medicinali e cocaina per tenersi in contatto coi complici e simulare l’aggravamento delle sue condizioni di salute. Ibidem
Le successive dichiarazioni di Margherita Di Giovine, sorella dell’evaso, fecero luce sull’identità dei complici (Raimondo Di Napoli, Felice De Martino, Massimo De Nuzzo, Ezio Dorigatti, Maurizio Margiotta, Carmelo Casile e Fabio Nistri), nonché sull’identità del pianificatore: lo stesso Emilio Di Giovine. Secondo Rita, Emilio avrebbe pianificato dal carcere tutta l’operazione facendo arrivare ai suoi complici biglietti utili alla preparazione del piano di fuga tramite Raimondo Di Napoli, agente di polizia penitenziaria in servizio presso il centro clinico di San Vittore corrotto con 30 milioni di lire. Al fine di ricompensare i complici per l’operazione, Emilio Di Giovine stanziò complessivamente secondo la collaboratrice 500 milioni di lire. Le dichiarazioni vennero poi confermate da Fabio Nistri, uno dei partecipanti alla fuga che aggiunse che Di Napoli fornì in carcere a Di Giovine un cellulare, medicinali e cocaina per tenersi in contatto coi complici e simulare l’aggravamento delle sue condizioni di salute. <ref>Ibidem</ref>
Sebbene il piano non andò esattamente come previsto Emilio Di Giovine fu caricato nel nel doppiofondo di un pullman, che lo attendeva nei pressi di via Imbonati e che riuscì a portarlo in Spagna. <ref>Ibidem</ref>
Sebbene il piano non andò esattamente come previsto Emilio Di Giovine riuscì ad evadere e venne caricato nel doppiofondo di un pullman che lo attendeva nei pressi di via Imbonati e che riuscì a portarlo in Spagna. <ref>Ibidem</ref>


=== Omicidio Giuseppe Amante ===  
=== Omicidio Giuseppe Amante ===  


Giuseppe Amante venne assassinato il [[7 marzo]] [[1991]] in piazza Prealpi, di fronte al civico 4, dove abitava. Secondo le ricostruzioni nelle immediate vicinanze del cadavere vennero trovati otto bossoli, un'ogiva proiettile e, una volta spostato il corpo, altre due ogive; sui bossoli era riportata la scritta "calibro 9 Luger". Giuseppe Amante era un pregiudicato, aveva subito numerosi arresti per violazione della Legge Stupefacenti, per tentato omicidio e per detenzione armi, tra cui nel 1972, un arresto insieme a Coco Trovato. Dal [[1988]] al [[26 dicembre]] [[1990]] era stato detenuto per detenzione di armi e stupefacenti, venne scarcerato a seguito dell’applicazione del condono. <ref>Ivi p.312</ref>
Giuseppe Amante venne assassinato il [[7 marzo]] [[1991]] in piazza Prealpi, di fronte al civico 4, dove abitava. Secondo le ricostruzioni nelle immediate vicinanze del cadavere vennero trovati otto bossoli, un'ogiva proiettile e, una volta spostato il corpo, altre due ogive; sui bossoli era riportata la scritta "calibro 9 Luger". Giuseppe Amante era un pregiudicato, aveva subito numerosi arresti per traffico di stupefacenti, per tentato omicidio e per detenzione armi, tra cui nel [[1972]], un arresto insieme a [[Franco Coco Trovato]]. Dal [[1988]] al [[26 dicembre]] [[1990]] fu detenuto per detenzione di armi e stupefacenti, venne scarcerato a seguito dell’applicazione del condono. <ref>Ivi p.312</ref>


Piazza Prealpi dagli anni ’70 fu sempre sotto il controllo della famiglia Serraino/Di Giovine. Come ha dichiarato Margherita Di Giovine: ''“perdere la piazza significava perdere la faccia”'' <ref>Ivi p.327</ref> Per questo negli anni il traffico nella piazza venne gestito prima da Maria Serraino, poi da sua figlia Margherita Di Giovine, quindi da Massimiliano Nostro figlio di Margherita e infine da Zolla, il marito di Natalina Di Giovine. I gruppi criminali che operarono nelle zone limitrofe rispettarono sempre questa esclusiva fatta eccezione del gruppo criminale di cui era parte Giuseppe Amante e che secondo le indagini, dopo la scarcerazione, comprava droga dalla [[Mancuso ('ndrina)|‘ndrina Mancuso]].
Piazza Prealpi dagli anni ’70 fu sempre sotto il controllo della famiglia Serraino/Di Giovine. Come ha dichiarato Margherita Di Giovine: ''“perdere la piazza significava perdere la faccia”'' <ref>Ivi p.327</ref> Per questo negli anni il traffico nella piazza venne gestito prima da Maria Serraino, poi da sua figlia Margherita Di Giovine, quindi da Massimiliano Nostro figlio di Margherita e infine da Zolla, il marito di Natalina Di Giovine. I gruppi criminali che operarono nelle zone limitrofe rispettarono sempre questa esclusiva fatta eccezione del gruppo criminale di cui era parte Giuseppe Amante e che secondo le indagini, dopo la scarcerazione, comprava droga dalla [[Mancuso ('ndrina)|‘ndrina Mancuso]].
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