Mafie in Piemonte

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La città metropolitana di Torino e il suo hinterland ospitano un panorama criminale estremamente complesso caratterizzato dalla presenza di gruppi criminali autoctoni e allogeni che coesistono[1]. La regione si caratterizza per essere una delle mete di principale interesse da parte della criminalità organizzata, nonostante la sua economia e il suo Pil non crescano tanto quanto quella di altre regioni del Nord Italia come Lombardia e Trentino-Alto Adige.

Le diverse forme di criminalità organizzata presenti sul territorio sono dedite a diverse attività, tra le quali spiccano il traffico di stupefacenti, racket, usura, nonché riciclaggio di denaro sporco e infiltrazione negli appalti pubblici. L'organizzazione mafiosa maggiormente presente è la 'ndrangheta, con le 'ndrine degli Agresta e dei Marando, tra le più influenti dell'Aspromonte, presenti anche in Lombardia.

Inoltre, non sembrano esserci frizioni rilevanti tra le diverse matrici etniche del crimine organizzato e ciò è probabilmente dovuto a una pacifica spartizione degli affari tra le diverse forme di criminalità[2] .

Le tappe dell’espansione mafiosa in Piemonte

Le prime presenze mafiose accertate in Piemonte risalgono intorno agli anni Sessanta del Novecento. Nel decennio successivo vennero compiuti numerosi sequestri di persona: tra il 1973 e il 1984 si registrarono nella regione 37 sequestri di persona. La loro realizzazione fu dovuta a soggetti residenti nel Nord che, avvalendosi del supporto e delle risorse fornite da 'ndranghetisti presenti nel territorio piemontese, agirono in collaborazione con le formazioni criminali radicate nella provincia di Reggio Calabria: gli ostaggi sequestrati in Piemonte vennero trasportati e custoditi in covi sulle alture dell’Aspromonte, in Calabria. Nei successivi anni Ottanta, invece, gli affiliati alla 'ndrangheta iniziarono a dedicarsi, come nel resto d'Italia, al traffico di stupefacenti, cui si affiancarono le attività estorsive e la gestione del gioco d’azzardo, principalmente a Torino[3].

Gli anni ‘60

Torino esercitò negli anni Sessanta una certa forza attrattiva poiché si rivelò essere una piazza importante per le strategie predatorie dei gruppi criminali. La grande città operaia del Nord contribuì, infatti, a costruire una rete di rapporti di connivenza e permise di fare affari senza rendersi troppo visibili riparandosi dai meccanismi di controllo sociale che caratterizzavano i centri di dimensioni minori. Le indagini di quel periodo rivelarono l’esistenza, a Torino, di due gruppi criminali: il “clan dei Calabresi” e il “clan dei Catanesi[4].

Per quanto riguarda il primo raggruppamento criminale, si trattava di uomini legati alla 'ndrangheta, ma all'epoca ancora la parola non era contemplata dalle istituzioni, soprattutto del Nord Italia. Proprio questa espressione linguistica permette una riflessione sulla sottovalutazione del fenomeno che ha avuto luogo negli anni '60, da parte sia dei magistrati sia delle forze dell’ordine. Pur individuando un modus operandi comune, all'epoca era diffusa la convinzione che soggetti, pur riconducibili a raggruppamenti criminali calabresi, fossero incapaci di strutturare un'organizzazione simile a quella dei territori di origine[5].

Tra i Catanesi un ruolo di primo piano fu ricoperto invece dai fratelli Miano, originari della Sicilia orientale. Si trattò di un gruppo autonomo da Cosa Nostra e riconducibile ai Cursoti, un’organizzazione criminale originaria di Catania[6].

Gli anni ‘70

Il nucleo da cui negli anni successivi si sviluppò il clan dei Catanesi era costituito da un gruppo di pregiudicati di origine catanese presente a Torino da metà degli anni Settanta. Fino a quel momento questi individui si erano resi protagonisti solo reati minori, soprattutto furti, ma riuscirono in seguito a compiere il salto di qualità. Per circa dieci anni, il clan dei Catanesi si occupò di traffici illeciti tra Catania, Torino e Milano. Di solito le strategie perseguite nelle grandi città del Nord furono il riflesso delle decisioni prese nelle riunioni che avvenivano a Catania, il centro strategico dei Cursoti[7].

Gli anni ‘80

A metà degli anni Ottanta si assistette a una prima importante azione di contrasto da parte della magistratura torinese, che colpì il clan dei Catanesi. Nel 1988 si concluse a Torino un maxi-processo nel quale vennero emesse 130 condanne tra cui 25 ergastoli, ai danni di appartenenti al clan. In conseguenza di questa prima importante campagna investigativa ai danni di un’associazione mafiosa presente sul territorio piemontese, i Catanesi scomparvero dalla scena criminale della regione. Il loro declino fu segnato anche da lotte interne e dai regolamenti di conti che si verificarono all'interno dell'organizzazione, soprattutto come conseguenza del fatto che alcuni membri del clan decisero di collaborare con la giustizia.

Tuttavia, come effetto collaterale di questa repressione, venne lasciato campo libero alla 'ndrangheta, le cui famiglie più importanti erano quelle degli Ursino e dei Belfiore, originarie di Gioiosa Jonica, in provincia di Reggio Calabria. I calabresi, dunque, riuscirono così a passare da una situazione caratterizzata da una difficile convivenza con i Catanesi a una posizione di predominio nel contesto della criminalità torinese. Furono diverse, infatti, le attività intraprese e controllate dagli 'ndranghetisti, soprattutto nel campo delle espropriazioni, dell’usura, del gioco d’azzardo e del traffico di stupefacenti. Il clan agiva nella maniera tipica di un’organizzazione criminale e contava numerosi affiliati che venivano gestiti attraverso una struttura di coordinamento.

In quegli anni il reticolo criminale risultava già esteso, essendo composto da diverse 'ndrine che concordavano regole e strategie comuni, pur mantenendo autonomia di azione. I Calabresi, inoltre, estesero la loro influenza collaborando con altri gruppi, da cui ottennero riconoscimento e cooperazione. Nonostante questa pervasività, negli anni Ottanta continuò comunque ad esistere una sola ed unica Locale di ‘ndrangheta con base a Torino[8].

Inoltre, il 16 giugno 1983, venne ucciso il procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia, per il quale venne condannato all'ergastolo come mandante dell'omicidio, Domenico Belfiore, capo dell'omonima 'ndrina operante a Torino.

Gli anni ‘90

Fu negli anni '90 che iniziarono ad essere aperte altre Locali nella regione. Inoltre, in quegli anni, gli inquirenti svelarono con l'Operazione Cartagine un cartello di 'ndrine operanti nel traffico di stupefacenti tra il Piemonte e la Lombardia le quali, a loro volta consorziate con le note famiglie mafiose dei Cuntrera e dei Caruana e i cartelli colombiani. Attraverso una società fittizia creata in Svizzera, tra il 1991 e il 1994 riuscirono a far arrivare in Italia, durante varie operazioni di importazione dal Brasile, dalla Colombia e da Panama, oltre 11mila chili di cocaina, poi distribuiti dalle 'ndrine calabresi.[9].

Gli anni Duemila

Fino a metà degli anni Duemila le indagini continuarono a essere condotte ma l’attenzione dei media per il tema era declinante, come del resto anche in Lombardia. Questo abbassamento dell’attenzione era dovuto principalmente all’assenza di storie eclatanti da raccontare all’opinione pubblica. Di conseguenza, per più di un decennio, non si ebbero notizie di attività delle organizzazioni mafiose nella regione, le quali scelsero in tutto il Nord Italia il basso profilo per riorganizzarsi. Nei primi anni Duemila, secondo il Ros dei Carabinieri di Torino, nel capoluogo piemontese e nel suo hinterland sarebbero stati attivi 33 gruppi mafiosi, 25 dei quali sarebbero stati collegati alla ‘ndrangheta, 5 a famiglie di Cosa Nostra siciliana e 3 a clan della camorra; tuttavia, continuò comunque a prevalere una lettura minimalista del problema[10].

Nel 2008 la relazione della Direzione Nazionale Antimafia evidenziò che «la regione è caratterizzata dall’assenza di fenomeni di particolare gravità», tuttavia la nomina a Procuratore Capo della Repubblica di Gian Carlo Caselli cambiò decisamente l'indirizzo della magistratura inquirente, dando impulso a indagini che sfociarono nelle operazioni Minotauro, del 6 giugno 2011, e Albachiara, del 15 giugno successivo.

Queste due operazioni confermarono la prevalenza della ‘ndrangheta nella regione, disegnando tuttavia una mappa degli insediamenti dell'organizzazione diversa dal passato, con una serie di Locali strutturate sul territorio come era emerso un anno prima nell'Operazione Infinito in Lombardia.

Questa forte strutturazione della ‘ndrangheta piemontese le permise di condizionare agilmente tanto le dinamiche economiche quanto quelle politiche nella regione. Le indagini più recenti hanno infatti evidenziato una preoccupante tendenza a condizionare le competizioni elettorali amministrative, nella consapevolezza che i soggetti “sponsorizzati”, una volta eletti, sarebbero stati disponibili a realizzare le aspettative degli appartenenti al sodalizio. Ovviamente, in aggiunta all’interesse per l’economia legale e per la politica, il crimine organizzato si occupò nel territorio piemontese anche di tutte quelle attività più tradizionali di cui è solita occuparsi la mafia: estorsioni, usura, sfruttamento della prostituzione[11].

L’espansione mafiosa, dai grandi centri alle piccole città

Le ragioni dell’espansione e del radicamento delle mafie in Piemonte

Come è riuscito ad attecchire in maniera così profonda il fenomeno mafioso in una regione come il Piemonte? Inizialmente, come già detto, i mafiosi operavano soprattutto nella città di Torino e nel suo hinterland metropolitano. L'espansione in tutta la regione del fenomeno può essere ricondotta a tre fattori, che bene o male ricalcano quelli di altre regioni del Nord Italia:

  1. Provvedimenti di soggiorno obbligato: tra i primi anni Sessanta e i primi anni Settanta del Novecento la legge sul c.d. soggiorno obbligato portò nella sola Torino 54 indiziati di appartenere a un'organizzazione mafiosa, per un totale di 288 nell'intera regione (l'11% del totale nazionale), registrando una percentuale inferiore solo a quella della Lombardia (che ne ospitò il 15%)[12];
  2. Alta migrazione dalle regioni ad originaria presenza mafiosa: negli anni '80, il Piemonte risultava avere la percentuale più alta tra le regioni del Centro-Nord di nuovi residenti provenienti dalle tre regioni culla del potere mafioso[13];
  3. Ruolo del sindacato e del movimento operaio: laddove il sindacato e il movimento operaio era forte, vi è stato anche un più facile inserimento dei lavoratori provenienti dal Sud Italia, plasmando una nuova identità politica in antitesi a quella mafiosa (come per altro emerse nello stesso periodo in Lombardia[14]). La circostanza è confermata dal fatto che nelle aree segnate da un forte sviluppo edilizio (come la Val di Susa e il Canavese) dove erano pochi i controlli e deboli i sindacati vi sia stata una presenza più incisiva delle organizzazioni mafiose[15].

Secondo Nando dalla Chiesa, ai fattori casuali e di costrizione è possibile delineare una strategia intenzionale di espansione delle organizzazioni mafiose. Secondo il sociologo:

«Una strategia di espansione mafiosa al Nord esiste. Si tratta di una strategia adattiva, che si misura con le sollecitazioni e i condizionamenti ambientali. Che afferra le opportunità offerte dal caso. Ma ha una sua fortissima intenzionalità, in particolare nella 'ndrangheta. Non ci si trova più di fronte a un “trapianto” spinto dalla necessità o dalla logica dei movimenti demografici. Né ci si trova davanti a una variabile dipendente in balia di una complessità di fattori. L’organizzazione 'ndranghetista punta piuttosto a comportarsi da variabile indipendente, proattiva, che interagisce con le altre variabili di contesto cercando di conformarle ai propri obiettivi. Essa non ha la forza d’urto immediata che può essere dispiegata da un colosso economico legale impegnato in nuove strategie produttive o di mercato, ma esprime la capillarità, la pazienza, la assiduità e il basso profilo richiesti dalla natura illegale dell’organizzazione»[16].

Si tratta di una strategia:

  • di conquista, sia del territorio sia delle differenti branche della pubblica amministrazione;
  • fondata su una straordinaria capacità di accumulare capitale sociale, attraverso l’incremento indefinito del proprio patrimonio di relazioni legali utili;
  • fondata su una raffinata e insuperabile capacità di trasferire e fare trasferire personale “leale” dai paesi della madrepatria;
  • fondata sull’uso pervasivo delle proprie imprese;
  • fondata sulla massima valorizzazione sistemica del principio del basso profilo, dalla tipologia dei reati commessi a quella delle imprese e degli appalti, dalla tipologia dei favori richiesti a quella dei livelli gerarchici da cui parte la conquista delle amministrazioni.

La presenza mafiosa nelle province piemontesi

Le indagini degli anni '10 del Duemila hanno restituito uno scenario in cui non vi è provincia del Piemonte scevra dalla presenza mafiosa. L'organizzazione egemone, come in Lombardia e in Liguria, è la 'ndrangheta, che risulta essere tuttavia non l'unica forma di criminalità organizzata presente nelle varie province.

Note

  1. DIA (2022). Relazione I semestre 2021, p. XV
  2. DIA, Relazione I semestre 2019, p. 930 DNAA, (2016). Relazione annuale sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel periodo compreso tra 1° luglio 2014 e 30 giugno 2015, pp. 306-325.
  3. Sciarrone Rocco, Ciccarello Elena, Donatiello Davide (2019). Le Mafie in Piemonte. Impariamo a conoscerle, Università degli Studi di Torino, Larco, pp. 22-23
  4. Ibidem
  5. Ibidem
  6. Ibidem
  7. Ibidem
  8. Ibidem
  9. Archivio la Repubblica, Coca, Colombiani e 'ndrangheta, 23 marzo 1995[1].
  10. Sciarrone, Ciccarello, Donatiello, op.cit., pp. 22-23
  11. DNAA (2020). Relazione sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel periodo compreso tra 1° luglio 2018 e 31 dicembre 2019, p. 30
  12. Sciarrone et al., op.cit., p. 20
  13. Ibidem
  14. Si veda al riguardo Farina, Pierpaolo (2021). Le affinità elettive. Il rapporto tra mafia e capitalismo in Lombardia, Tesi di dottorato, XXXIII Ciclo, 13 luglio.
  15. Sciarrone et al., op.cit. pp. 20-21
  16. Dalla Chiesa, Nando (2016). Passaggio a Nord. La colonizzazione mafiosa, Torino, Edizioni Gruppo Abele, pp. 134-135

Bibliografia

  • CROSS - Osservatorio sulla criminalità organizzata (2017). Quarto rapporto sulle aree settentrionali per la presidenza della commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso, Università degli Studi di Milano.
  • Dalla Chiesa, Nando (2016). Passaggio a Nord. La colonizzazione mafiosa, Torino, Edizioni Gruppo Abele.
  • DIA (2020). Relazione I semestre 2019, Roma.
  • DIA (2022). Relazione I semestre 2021, Roma.
  • DNAA (2016), Relazione annuale sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel periodo compreso tra 1° luglio 2014 e 30 giugno 2015, Roma.
  • DNAA (2020). Relazione sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafiosa nel periodo compreso tra 1° luglio 2018 e 31 dicembre 2019, Roma.
  • Sciarrone Rocco, Ciccarello Elena, Donatiello Davide (2019). Le Mafie in Piemonte. Impariamo a conoscerle, Università degli Studi di Torino, Larco, Fondazione Agnelli.