Bernardo Provenzano

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Bernardo Provenzano (Corleone, 31 gennaio 1933 – Milano, 13 luglio 2016), è stato un mafioso italiano affiliato al Clan dei Corleonesi, braccio destro di Totò Riina, al quale succedette nella guida a Cosa Nostra dopo l'arresto del Capo dei Capi, il 15 gennaio 1993 a Palermo. Conosciuto anche come u' Tratturi (il trattore, soprannome ottenuto grazie all'efferatezza durante la Strage di viale Lazio), Zu Binnu e il ragioniere, rimase alla guida dell'organizzazione fino al suo arresto, avvenuto in una masseria di Corleone l'11 aprile 2006, dopo 43 anni di latitanza.

Bernardo "Binnu" Provenzano

Biografia

Le origini

Nato a Corleone in una famiglia di contadini, viveva col padre Angelo e la madre Giovanna Rigoglioso e altri sei fratelli; la sua carriera scolastica si fermò alla seconda elementare, quando fu mandato a lavorare nei campi come bracciante; qui conobbe Totò Riina e Calogero Bagarella, con cui strinse un legame di amicizia fortissimo che sarebbe durato tutta la vita. I tre si diedero fin da subito a furtarelli e razzie di bestiame e presto entrarono nel giro di Luciano Leggio, allora braccio destro del boss del paese Michele Navarra. Leggio prese i tre "viddani" sotto la sua ala protettiva e li portò nella cosca del medico-boss. Nel 1954 fu chiamato per il servizio di leva militare obbligatorio, ma fu dichiarato non idoneo e successivamente riformato[1].

La nuova vita: mafioso nella famiglia di Corleone

All'inizio degli anni '50 Provenzano, con Bagarella, Riina e gli altri viddani, sotto la guida di Lucianeddu, divennero ben presto l'elite criminale del capomafia corleonese, dedita a furti di bestiame, viti tagliate, macellazione clandestina, nonché all'incendio di masserie.

La guerra di Corleone e la presa del potere

Tuttavia, i rapporti tra Navarra e i suoi scagnozzi peggiorarono dopo qualche anno: alle elezioni politiche del 1958, i Corleonesi di Leggio puntarono tutto sul candidato numero 1 del PLI, il principe di Giardinelli, già presidente del Consorzio di bonifica del medio e alto Belice che prometteva la costruzione di un'immensa diga con i 37 miliardi e 854 milioni di finanziamenti già assicurati dalla Società Generale Elettrica. Leggio e i suoi avevano fiutato l'affare e non volevano farselo sfuggire. Ma Navarra era contrario alla costruzione della diga e usò tutto il suo peso politico per far eleggere tre candidati democristiani: Bernardo Mattarella, Franco Restivo e Calogero Volpe. La DC a quella tornata raddoppiò i suoi voti e i primi due candidati di Navarra diventarono ministri, mentre il terzo sottosegretario.

Ad avvelenare ulteriormente il clima furono anche i ripetuti furti e danneggiamenti di Leggio e i suoi ad un possidente terriero protetto di Navarra, Angelo Vintaloro, le cui terre confinavano con quelle di Leggio e di Giacomo Riina, zio di Totò. Navarra decise così di far eliminare Leggio proprio durante una delle sue scorribande nelle terre del Vintaloro, ma l'attentato fallì. Nessuno seppe della sparatoria nel feudo di Piano della Scala, se non molto tempo dopo, in piena guerra tra la cosca di Navarra (soprannominata la vecchia mafia) e quella di Leggio (detta la mafia delle nuove leve). Approssimativamente, lo scontro a fuoco fu tra il 20 e il 30 giugno 1958.

L'uccisione di Navarra

La risposta di Leggio e degli altri non si fece attendere: il 2 agosto 1958, verso le tre del pomeriggio, nella contrada Portella Imbriaca, agro di Palazzo Adriano, al quindicesimo chilometro della Provinciale Prizzi-Corleone sette killer armati di un fucile mitragliatore americano Thompson, un mitra italiano Breda calibro 6.35 e tre pistole automatiche crivellarono con 124 colpi la Fiat 1100 sulla quale viaggiava Navarra con il medico Giovanni Russo. Novantadue dei colpi sparati furono ritrovati nel corpo del Navarra: Giovanni Russo, colpevole solo di aver offerto un passaggio al potente capomafia, fu ucciso perché aveva visto in faccia gli assassini. Ai funerali, svoltisi due giorni dopo nella parrocchia di San Martino, partecipò tutta Corleone.

La Strage del bastione San Rocco

Fingendo di voler siglare un armistizio con gli uomini di Navarra, rimasti senza capo, Riina diede appuntamento a Pietro Maiuri e ai fratelli Giovanni e Marco Marino, con l'unico obiettivo di eliminarli. Al tramonto del 6 settembre 1958, presso il bastione San Rocco di Corleone, mentre Totò intratteneva i navarriani, Provenzano e Calogero Bagarella erano appostati in attesa di tendergli un agguato. Fu l'inizio dell'epurazione da Corleone di tutti quelli che erano stati fedeli a Michele Navarra, nonché dei cosiddetti neutrali, che non avevano intenzione di prendere parte alla disputa (fu il caso di Carmelo Lo Bue, anziano mafioso i cui figli erano emigrati negli USA, che proprio poco prima della partenza fu ucciso per non aver voluto fare da mediatore tra Leggio e i resti della cosca navarriana). Quelli che venivano considerati spie, infami o traditori furono vittime della lupara bianca.

L'arrivo a Palermo e la prima guerra di mafia

Riina, Leggio, Provenzano e Bagarella, ricercati dai Carabinieri per i fatti di Corleone, si diedero alla latitanza e sbarcarono a Palermo, per presentarsi ai capimafia della città. Il primo ad accogliere i viddani (così erano chiamati i mafiosi di provincia) fu Salvatore La Barbera, rappresentante della famiglia Palermo-centro. La Barbera e il fratello Angelo erano mafiosi imprenditori, dediti all'edilizia: sfruttando i legami con Salvo Lima, sindaco di Palermo dal 1958 e figlio di Don Vincenzo, uomo d'onore della cosca Palermo-centro, e Vito Ciancimino, figlio del barbiere di Corleone e assessore ai lavori pubblici, i fratelli La Barbera prosperavano grazie al cemento. Mentre Leggio girava il mondo e si buttava nel traffico di droga con il siculo-americano Frank "Tre Dita", i viddani di Corleone Riina, Provenzano e Bagarella eseguivano per conto dei La Barbera piccole cose, in cambio della copertura per la latitanza.

Proprio in quel periodo scoppiò la la prima guerra di mafia, dalla quale Riina e Provenzarono si tennero prudentemente a distanza. Ciononostante, il 9 maggio 1963 Provenzano prese parte all'attentato contro il mafioso Francesco Paolo Streva, che però si salvo rispondendo al fuoco; quando venne ucciso il 10 settembre successivo e i familiari della vittima indicarono in lui e Bagarella gli esecutori del delitto, il giudice Cesare Terranova lo rinviò a giudizio, anche per i reati di associazione per delinquere e porto abusivo d'armi. Fu allora che Provenzano si rese irreperibile, dando inizio alla sua latitanza ufficiale.

Poco tempo dopo i carabinieri scoprirono che si nascondeva a Castronovo di Sicilia insieme a Bagarella e Giuseppe Ruffino, ma il blitz organizzato per catturarli fallì. Nello stesso periodo alcune segnalazioni anonime alla polizia indicarono la sua presenza a San Giuseppe Jato, ospite dei capimafia Antonino e Nicolò Salamone[2], circostanza confermata anni dopo da Giovanni Brusca: il padre Bernardo spesso gli dava del cibo da portare a lui e Bagarella.

La strage di viale Lazio

Dopo l'assoluzione al processo di Bari il 10 giugno 1969, Riina, Provenzano e Bagarella furono incaricati dal boss di Cinisi Gaetano Badalamenti dell'eliminazione di Michele Cavataio, vero artefice della prima guerra di mafia che aveva innescato la reazione dura dello Stato contro Cosa Nostra sei anni prima, all'indomani della Strage di Ciaculli.

Il 10 dicembre 1969 un commando di sei killer, tra cui vi erano Riina, Provenzano e Bagarella, entrò negli uffici dell'impresa edile Moncada di viale Lazio. Uno di loro, Damiano Caruso, sparò senza aspettare l'ordine di Riina, uccidendo due uomini seduti dietro una scrivania. A quel punto si scatenò l'inferno. Cavataio, soprannominato "la belva" per la sua ferocia (titolo che poi avrebbe finito per ereditare proprio Riina), afferrò una lupara e la scaricò nel petto di Calogero Bagarella. Alla fine dello scontro a fuoco, a terra erano rimasti sei cadaveri. Secondo il racconto di Calderone al giudice Falcone: «Provenzano si fermò un attimo, poi tirò Cavataio per i piedi da sotto il tavolo, avvertì una strana resistenza e si accorse che era vivo. Cavataio, pronto, gli sparò un colpo in faccia, o meglio, tentò di sparargli, dal momento che aveva finito le pallottole. Provenzano premette il grilletto della sua mitraglietta, che si inceppò, e non fu in grado di rimetterla a posto perché era stato ferito alle dita. Lo colpì allora in testa con il calcio dell’arma e con i piedi per cercare di stordirlo e finalmente riuscì ad estrarre la pistola e ucciderlo»[3].

Fu così che Provenzano si guadagnò il soprannome di Binnu u’ tratturi: «È stato chiamato in questo modo da mio fratello – aggiunse Calderone – da dove passava lui non cresceva più l'erba»[4].

Ascesa del “ragioniere” di Cosa Nostra

Dopo la strage di viale Lazio Provenzano ritenne saggio allontanarsi da Palermo per un po'. Binnu seguì così il Luciano Leggio a Catania, dove i due si presentavano come commercianti di carne. «A loro fornivamo tutto, pure i soldi gli mettevamo in tasca, perché nonostante i grandi nomi, non avevano una lira»[5]. Nel 1970, a 37 anni, Binnu faceva da spola fra Palermo e Catania in treno, in quanto, pur avendo una patente falsa non sapeva guidare. Provenzano diventò un provetto imprenditore.

Nel ’73 le sue tracce portarono a Cinisi, all'aeroporto di Punta Raisi. In quel periodo conobbe la sua futura sposa: Saveria Benedetta Palazzolo. In un rapporto della magistratura si legge che «Il 16/7/1973 i carabinieri di Terrasini, nel corso di un servizio perlustrativo in quella contrada Capraria, notavano un fabbricato in costruzione e dagli operai apprendevano che era di pertinenza di certo “don Paolo” da Cinisi. Il giorno successivo si presentava all'Arma di Terrasini il don Paolo, identificato per Palazzolo Paolo, il quale dichiarava che la costruzione veniva realizzata per conto della di lui sorella Palazzolo Saveria Benedetta ed esibiva l'atto di acquisto del terreno, redatto il 5/12/1972 dal notaio Michele Margiotta da Palermo. Dopo quattro mesi da tale episodio la Palazzolo si affrettava a vendere tutte le sue proprietà alla società Simaiz spa, società costituita ad hoc e amministrata da Giuseppe Mandalari. Tale vendita è da mettere senza dubbio in relazione alla scoperta della costruzione che doveva servire da sicura abitazione (lontano da occhi indiscreti) per Provenzano Bernardo»[6].

Secondo quanto riferito da Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, dopo l'arresto di Leggio nel 1974 Riina e Provenzano divennero i reggenti della Famiglia di Corleone, ricevendo anche l'incarico di reggere il relativo "mandamento". Riflettendo sull'accaduto, Buscetta sostenne che a suo avviso la "primula rossa" di Corleone fu venduta da Riina, costituendo l'unico ostacolo reale alla sua scalata al potere all'interno di Cosa Nostra.

L'anno successivo, nel 1975, nacque il primo figlio di Provenzano, Angelo. La prima casa della famiglia fu probabilmente a Bagheria, un territorio alle spalle di Palermo che gli era stato affidato da Leggio. Giuseppe Di Cristina, boss della famiglia di Riesi, rivelò al capitano dei carabinieri Alfio Pettinato che «è stato notato a Bagheria la mattina di domenica 9 aprile 1978. Era accompagnato da Giovanni Brusca»; anche don Tano Badalamenti, boss di Cinisi, mise sulle tracce di Provenzano e Riina i carabinieri, in modo da fermarne l'ascesa. I Corleonesi, infatti, avevano cominciato a colpire gli alleati di Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e dello stesso Badalamenti, in quello che rappresenta il prequel della Seconda Guerra di Mafia.

Successivamente il pentito Ciro Vara avrebbe rivelato che in quei mesi, dopo l'omicidio del capomafia di Catania Pippo Calderone, Provenzano e i capimafia siciliani si trovavano ospiti nella villa di Masino Spadaro a Casteldaccia, non lontano da Bagheria.

All'inizio degli anni ’80 Provenzano era ormai diventato abile a gestire gli affari, tanto che iniziarono a chiamarlo “il ragioniere”. Provenzano era divenuto proprietario di una ditta di chiodi e reti di Bagheria, l'I.C.Re., che aveva rapporti anche col nascente capomafia di Agrigento Carmelo Colletti, le cui telefonate al ragioniere erano tenute sotto controllo dai carabinieri, che però non immaginavano che l’I.C.re. fosse l’ufficio di Provenzano e che lo utilizzasse per le sue riunioni segrete. Nessuno aveva neanche mai pensato, per molti anni, che il “ragioniere” potesse essere Provenzano. Quando questo fu intuito e si cercarono negli archivi le intercettazioni, queste erano sparite.

Il pentito Luigi Ilardo disse al colonnello Riccio in una delle sue rivelazioni: «So che a Bagheria Provenzano ha una grossa proprietà, con una grande villa, bellissima, in stile antico. E lì incontrava i suoi, viveva tranquillamente con la famiglia. So che qualche volta si spostava in ambulanza».

Le società del Ragioniere

Contro ogni aspettativa, però, Provenzano fin dall'inizio degli anni ’80 utilizzò sempre i soliti indirizzi per spostarsi o fissare il domicilio di una società. I condomini prediletti erano Via Umberto Giordano 55; via Alcide De Gasperi 53 e via Casella 7; in via Giordano avevano sede la Scientisud, la Residence Capo San Vito e la Im.a., Immobiliare Aurora spa, società di punta dei nuovi business. Nello stesso condominio si trovavano gli appartamenti della moglie di Provenzano e di Giuseppe Lipari, considerato il suo “ministro dei lavori”. Dopo che i carabinieri sequestrarono le società, il "ragioniere" di Cosa Nostra fece trasferire le altre in via De Gasperi, nello stesso condominio in cui vivevano suo fratello Salvatore e il suo nipote prediletto, Carmelo Gariffo. In via Casella 7 poi trovarono sede la Medisud e la Scientisud.

Intorno alla fine degli anni ‘90, il Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri scoprì che nello stesso condominio abitava anche il funzionario dell’assessorato regionale Agricoltura e foreste Giovanni Napoli che faceva da "segretario" a Provenzano: se qualcuno tra i capi di Cosa Nostra avesse voluto mettersi in contatto con lui, avrebbe dovuto chiamare il numero dell'ufficio di Napoli (091/ 6966242). [7].

Gli affari del clan

Mentre Totò Riina era impegnato a sterminare le altre famiglie palermitane e a consolidare il potere del clan all'interno di Cosa Nostra, Provenzano si occupava della gestione degli affari dandosi alle forniture alla sanità pubblica, campo molto fruttuoso in Sicilia. Gli amministratori amici delle unità sanitarie locali spendevano più di quanto era previsto in bilancio per foraggiare le casse del Clan, coperti dagli appoggi politici regionali di cui godeva. A gestire i suoi impegni quotidiani pensavano i suoi manager, mentre alle riunioni strategiche desiderava andare di persona. Proprio per via del suo ruolo "economico", nessuno lo cercò mai veramente prima delle stragi del 1992.

Intorno alla fine degli anni ’80 gli affari di Provenzano erano floridi e stava pensando a una riorganizzazione di Cosa Nostra, fondata più sugli affari che sugli omicidi. Circostanza confermata poi anche dal pentito Nino Giuffrè, che raccontò ai magistrati di Palermo che «nel corso di una riunione al deposito del ferro, a Bagheria Leonardo Greco ci comunicò che Cosa Nostra stava cambiando strategia e che il futuro era Bernardo Provenzano. Invitò i presenti a seguirlo in questa direzione».

Gli anni '90

Agli inizi degli anni '90 Riina e Provenzano si incontrarono spesso, fino a pochi giorni prima dell'arresto di Riina, dandosi sempre appuntamento a Città Mercato, uno dei più importanti centri commerciali di Palermo: il ragioniere arrivava su una Golf grigia guidata da Francesco Pastoia, mentre Riina era accompagnato da Salvatore Biondino, il suo autista di fiducia, preceduto dall'auto di Salvatore Biondo, che faceva da battistrada.

Il pentito Giovanbattista Ferrante, che spesso metteva a disposizione la sua casa per quegli incontri, raccontò che «Provenzano si fermava al cancello di Città Mercato, io andavo a prelevarlo in auto e lo portavo a casa mia dove, nel frattempo, era arrivato Riina. I due si incontravano sempre a quattr’occhi. Solo ogni tanto, Riina chiamava Biondino per farsi consegnare dei soldi. Gli incontri avvenivano altre volte anche a casa di Biondino e di Biondo che abitavano a poche decine di metri». Qualora invece Riina avesse bisogno di parlare in privato con Provenzano contattava il fidato Gioacchino La Barbera, che diventò successivamente collaboratore di giustizia. Quest’ultimo contattava quindi Provenzano e riferiva a Riina la risposta del “ragioniere”.

Nel 1991 Bernardo Provenzano era, assieme a tutti i capi di Cosa Nostra tra cui anche Riina, Bagarella e Brusca, a Mazara del Vallo, dove vivevano talmente tranquilli da normali cittadini che decisero addirittura di festeggiare il Natale di quell'anno lì. L'unico che si sottrasse al banchetto fu Provenzano, forse per non infrangere la regola che voleva che mai nessuno dei due tra lui e Riina si trovassero contemporaneamente nello stesso posto, per evitare retate.

Nel ’92, all'indomani della sentenza definitiva sul Maxiprocesso di Palermo, partecipò alla riunione in provincia di Enna dove si decise la morte di Falcone. Il 5 aprile di quell'anno fece anche tornare la famiglia a Corleone, in modo tale da far credere a tutti di essere morto. Questo gli permise anche di non figurare tra i mafiosi accusati dai magistrati del delitto Salvo Lima. Provenzano nel frattempo tesseva rapporti con misteriosi uomini politici.

L'arresto di Riina e l'inizio dell'era Provenzano

Dopo l'arresto di Riina, il 15 gennaio 1993, di cui è tuttora sospettato essere l'artefice, Provenzano divenne il reggente di Cosa Nostra. Le maggiori attenzioni del boss riguardavano gli appalti, il cui quartier generale era ancora l’I.C.Re, benché fosse formalmente confiscata dallo Stato.

Nella sua nuova veste, il "ragioniere" divenne anche mediatore dei contrasti interni. Raccontano a tal proposito un episodio significativo i pentiti Barbagallo e Salvatore Lanzalaco, circa l'aggiudicazione di un appalto per la realizzazione della strada Valledolmo-Caltavuturo: da una parte Calogero Calà e Giacinto Scianna, di Bagheria, rivendicavano di aver comprato il decreto di finanziamento tramite i soliti agganci politici, dall'altra Antonino Priolo e Giuseppe Panzeca affermavano la propria competenza per il territorio, dovendo l'opera sorgere su una zona sotto il loro controllo. Dopo averli ricevuti nell'impresa di Scianna Provenzano, che non voleva fare un torto a nessuna delle due famiglie deliberò che si sarebbe fatta un’associazione temporanea di imprese in cui tutti avrebbero preso parte e in cui i guadagni sarebbero stati equamente divisi.

L'inizio della caccia:

Nel 1994, grazie alle rivelazioni del pentito boss mafioso Luigi Ilardo e al politico democristiano Gioacchino Pennino, iniziò la vera e propria “caccia” al nuovo capo dei capi. Pennino, che lo aveva incontrato di persona per discutere della sua uscita dal gruppo Ciancimino in Consiglio Comunale, dichiarò che “il livello culturale dei miei co-associati era scadente, fatta eccezione per Bernardo Provenzano che mostrava di avere buone conoscenze e di seguire molto attentamente le vicende politiche, in ordine alle quali interloquiva con competenza e buon grado di profondità, tanto da darmi l’impressione di gestire la vita politica della provincia palermitana[8].

Ilardo invece iniziò a collaborare con la giustizia nel settembre 1993, confidandosi con il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, al quale consegnò l'insieme della sua corrispondenza con il boss, 14 lettere, e indicò in Bagheria la località dove si nascondeva Provenzano. Fu così che i Ros del Capitano Ultimo rimasero lì per tre anni conducendo l’operazione “Grande Oriente”, che portò all'arresto di coloro che avevano favorito la latitanza del ragioniere di Corleone.

La mancata cattura e la morte di Ilardo

Il 30 ottobre 1995 Ilardo confermò al colonnello Riccio che avrebbe dovuto incontrare Provenzano in un casolare a Mezzojuso. Il giorno dopo il colonnello, con due carabinieri armati di macchina fotografica e pochi altri militari, si appostarono non lontano dal casolare su tre auto. Secondo il colonnello Riccio «Lo scopo del servizio era quello di verificare se effettivamente si realizzasse quanto segnalato il giorno prima dalla fonte»[9]. Il 10 maggio 1996 Ilardo fu ucciso da Maurizio Zuccaro e Orazio Benedetto Cocimano davanti al portone di casa sua, su ordine di Giuseppe “Piddu” Madonia[10].

Circa la mancata cattura del boss in quell'occasione, un esposto in pretura del colonnello Riccio affermò che “da Roma arrivò una sola autorizzazione “pedinate, controllate a distanza, ma non prendete altre iniziative”. La motivazione: si volevano utilizzare i propri strumenti, che in quel momento mancavano. Ma io, con il mio gruppo, che fino ad allora si era preparato, eravamo pronti: avevamo tutti gli strumenti necessari.” Il generale Mario Mori smentì la relazione, affermando che «fu Riccio a dire che non c’erano le condizioni per operare, anche al fine di tutelare la fonte confidenziale». La Procura di Palermo decise comunque di aggiungere al registro degli indagati Mori e il colonnello Mauro Obinu[11].

L'arresto di Brusca

La sera del 20 maggio 1996 fu arrestato Giovanni Brusca, il quale decise subito di collaborare con la giustizia e diede ai carabinieri due nomi che avrebbero potuto portare al boss: Francesco Barbaccia, geometra presso l’ufficio tecnico provinciale di Palermo, e Francesco Raineri, imprenditore titolare della ditta “Impianti Calcestruzzi”, entrambi residenti a Marineo. Raineri, oltre ad aver messo a disposizione gli uffici della sua ditta per alcune riunioni, aveva incontrato Provenzano per discutere della frattura fra i fedelissimi di Riina e i “provenzaniani”; Barbaccia invece accompagnava il ragioniere alle riunioni per discutere di appalti.

Alcune intercezzazioni registrarono i dialoghi fra Barbaccia e Raineri nella masseria di contrada Lupotto, a Monreale. Il 1° luglio i sospetti trovarono conferma nel fatto che i due si misero a parlare sottovoce di un certo “Binnu”. I due furono seguiti per un po’, ma la pista non si rivelò fertile. I due furono quindi arrestati e condannati per mafia.

Nel maggio del ’96 Brusca affermò che «Pino Lipari è il perno del sistema Provenzano»[12]. Lipari era una vecchia conoscenza della polizia di Palermo: ex geometra dell’Anas, già dagli anni '80 era ritenuto il manager dell'inedita holding Provenzano. Nel ’97 Lipari fu tenuto sotto stretta osservazione e si scoprì che era sempre rimasto il “ministro dei lavori” oltre che il “perno del sistema di Provenzano”, proprio come avevano detto i pentiti. Si scoprì poi che per comunicare col super latitante Lipari si serviva di alcuni bigliettini, facilmente nascondibili in tasca, chiamati “pizzini”, che venivano consegnati grazie alla collaborazione di numerosi “postini”, fra cui Cinzia e Arturo, i figli dell’ex geometra, il genero, Giuseppe Lampiasi, il fratello della compagna di Provenzano, Paolo Palazzolo e un nipote di Provenzano, Vito Alfano.

Grazie a questo metodo Provenzano poteva comunicare con tutto il mondo mafioso e familiare senza lasciare traccia apparente. Le consegne avvenivano in luoghi apparentemente sicuri e privi di sorveglianza, come l’ascensore dell’ospedale Villa Sofia di Palermo, dove la presenza di Lampiasi non era sospetta, in quanto lui era un rappresentante di forniture ospedaliere, mentre Alfano era un infermiere.

I carabinieri, però, piazzarono all'interno dell'ascensore una telecamera, che riuscì a riprendere l’esatto momento della consegna dei pizzini. Il giorno dopo, Alfano consegnò il pizzino a Paolo Palazzolo. Tuttavia, i pedinamenti e le intercettazioni della polizia si arenarono nuovamente.

Gli investigatori del Ros il 17 giugno 1998, intercettarono il futuro pentito Tullio Cannella. Questo disse di voler andare, quello stesso pomeriggio, da Amato, dell’Autoscuola Primavera, «per il discorso di Binnu». Lo seguirono, e arrivarono in via Daita vicino al Teatro Politeama. I carabinieri tennero sotto controllo l’autoscuola fino al 2001, ma, nonostante il grande andirivieni di mafiosi, del Binnu nessuna traccia... solo nel 2002 si scoprì dal pentito Nino Giufrè che il boss non era più andato all'autoscuola a seguito di una soffiata che lo aveva avvertito che questa era sorvegliata. Alla vigilia di ferragosto del ’98, poi, un’intercettazione disse che “Iddu è ricoverato”, portando alla vigilanza delle principali cliniche di Palermo.

Per il Natale del 1999 la compagna di Provenzano e i due figli decisero di andare a trovare il fratello di Bernardo, Simone, che abitava in Vestfalia. I poliziotti italiani e i colleghi del Bka tentarono il blitz, ma Provenzano non era presente. Nello stesso anno furono catturati moltissimi favoreggiatori di Provenzano fra la provincia nissena e quella di Palermo, in particolar modo Cinisi. Una microspia nascosta registra una conversazione fra i due indagati Giuseppe Leone e Antonio Palazzolo. I due affermarono che «Allo Stato non interessa lo sanno che c’è la rivoluzione industriale appena lo prendono». Palazzolo, indicato dal pentito Giovan Battista Ferrante come un indiscutibile favoreggiatore, era tenuto sotto stretta sorveglianza in quanto proprietario di una tenuta in contrada Trabona di Caltanissetta ritenuta essere uno dei nascondigli del Binnu.

Gli anni Duemila

Il 27 marzo 2000 il capitano Ultimo, divenuto famoso per la cattura di Totò Riina e sulle tracce di Bernardo Provenzano, chiese il trasferimento “ad altro reparto dell’Arma” dal momento che riteneva che i mezzi e gli uomini a sua disposizione per catturare Provenzano fossero insufficienti.

Il 3 ottobre dello stesso anno i carabinieri pedinarono Vallone, ex consigliere di Forza Italia che, come scrivono nella relazione di servizio, «era emerso in alcune occasioni frequentare Tommaso Cannella, mafioso di Prizzi»[13]. Lo scopo del Ros era quello di trovare indizi che portassero a Provenzano e di cui Cannella fu da sempre uno dei principali collaboratori. Vallone si diresse verso il bar Aluia di via Libertà, dove fu raggiunto da Gianfranco Miccichè, Vincenzo D’Amico, Francesco Buscemi, Vullo, e «altri soggetti sconosciuti», tutti coinvolti nell'indagine sul boss di Corleone. La chiacchierata al bar terminò intorno alle 10[14]. I carabinieri nel loro rapporto annotarono che «Francesco Buscemi costituisce uno di quegli anelli di congiunzione fra Cosa nostra ed il mondo politico-amministrativo siciliano. In buona sostanza, ben rappresenta uno di quei “colletti bianchi” che per una vita intera hanno ricoperto ruoli pubblici e nello stesso tempo hanno messo al servizio dell’associazione mafiosa le potenzialità derivanti proprio da quello status sociale»[15].

Il 30 gennaio 2001 la polizia di Stato arrestò il mafioso Benedetto Spera e Nicola La Barbera, su cui era in corso un’indagine dei carabinieri del Ros. Il generale del Ros Sabato Palazzo, irritato, scrisse ai procuratori Grasso e Tinebra mettendo in luce che gli arresti erano avvenuti “a breve distanza dall'area sottoposta ad osservazione tecnica ed ascolto da parte del Ros, impegnato nella ricerca di Provenzano e, soprattutto, ha interessato il menzionato La Barbera, soggetto centrale ed unificante dell'indagine collegata tra codeste procure della Repubblica»[16].

Già nel ’95, proprio in quella zona di Mezzojuso, provincia di Palermo, i carabinieri avevano seguito il mafioso Ferro che stava organizzando un incontro con Bernardo Provenzano e in quei stessi luoghi il confidente Luigi Ilardo aveva indicato lo svolgimento di un summit col super latitante. I Ros stavano infatti seguendo una pista investigativa incentrata su La Barbera, che gestiva il rustico che ospitava le riunioni dei mafiosi, a cui era probabile che potesse partecipare anche Provenzano. L’arresto di La Barbera aveva quindi finito per far saltare la promettente pista.

L’episodio finì sulla Repubblica il 20 febbraio 2001 scatenando una grande polemica. Il ministro dell'Interno Enzo Bianco affermò che non c'era stato alcun difetto di coordinamento tra le forze di polizia e lo stesso fecero trapelare i procuratori di Palermo e Caltanissetta, come anche il comandante generale dell’Arma Sergio Siracusa. Il generale Palazzo, però, ribadì che «con l’arresto di La Barbera si è bruciato un segmento investigativo. Io ho fatto solo presente ai magistrati la necessità di ricominciare, rivedendo l’impianto delle indagini su Provenzano. Noi eravamo su La Barbera che è stato arrestato dalla Polizia. È così venuto meno quell’elemento importante che ci poteva portare a Provenzano. Non credo che Provenzano sia definitivamente perso. Forse con La Barbera saremmo potuti arrivare un po’ prima, comunque non disperiamo»[17]. Il blitz del 30 gennaio, pur essendo riuscito pienamente, aveva lasciato l’amaro in bocca alla polizia, convinta che nel casolare fosse presente, oltre che Spera e l’ex primario Vincenzo Di Noto, anche Provenzano. La polizia sospettò anche che Binnu fosse rimasto in zona e avesse assistito al blitz, scampandogli per pura fortuna.

Arrestando La Barbera la polizia entrò anche in possesso di un involucro, che questi aveva nascosto sotto il giubbotto, contenente le lettere che la moglie e i figli scrissero, in un italiano sgrammaticato, al superlatitante. Nel 2002 il pentito Nino Giuffrè raccontò che il boss andò al cinema per vedere l’ultimo episodio della saga “il Padrino” di Aldo Coppola assieme al suo fedele amico Lipari, descrivendolo come “un distinto signore di 69 anni che è stato operato di prostata, ma si è subito rimesso e ha proseguito a dirigere gli affari dai suoi covi, uno in particolare, una casa a Belmonte: in gioco, quella volta, c’erano i lavori alla Cala e alla diga di Rosamarina, due lucrosi appalti a Palermo”.

A proposito del suo fedelissimo, Tommaso Cannella, boss di Prizzi, Giuffrè disse che “ha pagato prezzi anche molto alti, ma gli è rimasto vicino lui è un tutt’uno con Provenzano, gli spianò la strada quando la moglie tornò a Corleone, nel ‘92. È con lui che abbiamo discusso di come fare operare Provenzano alla prostata». Giuffrè raccontò poi che: «Lipari, invece, è sempre stata la persona che ha mantenuto i contatti con le imprese ma anche con i politici per conto del capo. Proprio Cannella e Lipari hanno contribuito a rifare la verginità a Provenzano perché si era usciti fuori dal discorso delle stragi con le ossa rotte e giustamente si doveva rifare un’immagine a Cosa nostra. Sono passati come coloro che erano contro le stragi e non è vero. Provenzano è quasi analfabeta Lipari e gli altri lo hanno guidato, dandogli utili consigli»[18].

La strategia della sommersione

Stando sempre alle rivelazioni di Giuffrè, la linea politica della Cosa Nostra a guida Provenzano era «Non bisogna fare scruscio, non bisogna far rumore». Questa linea politica venne battezzata “strategia della sommersione”, in aperta antitesi con quella pratica da Riina e dai suoi fedelissimi, prima dei loro arresti. Giuffrè consegnò anche alla polizia l’intera sua corrispondenza col boss, che ha permesso di svelare cos'è diventata Cosa Nostra sotto il comando di Provenzano. Parlando poi del suo stato di salute e della sua latitanza il pentito affermò che «Sta benissimo, è firrignu (come un ferro, ndr), era ammalato di prostata ma adesso è completamente guarito e riesce anche a dormire all’aperto, dentro un sacco a pelo, per notti e notti. Non si fida di nessuno e a nessuno svela il suo nascondiglio. Neanch’io, che gli stavo così vicino, sapevo dove trascorreva la sua latitanza» [19].

Giuffrè si focalizzò poi sul suo modo di comunicare. Ribadì che «Lui non usa telefoni perché sa che ogni segnale potrebbe svelare il suo nascondiglio». Si serviva solamente dei pizzini, e in uno di questi, ritrovato indosso a Giuffrè al momento dell’arresto, Provenzano si diceva «preoccupato» delle cimici di polizia e carabinieri e gli raccomandò di stare attento «a microtelecamere e microspie» piazzate dagli investigatori. Provenzano suggerì poi a Giuffrè di non parlare «dentro o vicino ad automobili ed in luoghi chiusi», per evitare eventuali intercettazioni. Nel marsupio di Giuffrè c’era anche il biglietto da visita di un'azienda che aveva collaborato con diverse procure italiane, tra cui quella di Palermo a piazzare diverse microspie per la cattura di svariati latitanti e persino per la ricerca di Provenzano.

Il cerchio si stringe

Un altro prestanome di Provenzano, Michele Aiello, fu arrestato nel novembre 2003. Secondo il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, Provenzano aveva investito denaro sporco nella clinica Villa Santa Teresa, centro oncologico all'avanguardia di proprietà di Aiello situata nella Bagheria. Per questo Michele Aiello verrà condannato in via definitiva a quindici anni e mezzo di carcere per associazione di tipo mafioso, corruzione e accesso abusivo alla rete informatica della Procura.

Nel gennaio 2005 la DDA di Palermo diede il via all’indagine “Grande Mandamento”, gestita dal Servizio Centrale Operativo del ROS che portò all'arresto di 46 persone, accusate anch'esse di aver favorito la latitanza del boss di Corleone oltre ad aver gestito la consegna dei pizzini destinati al latitante.

L'indagine svelò anche che alcuni mafiosi di Villabate avevano aiutato Provenzano nel 2003 a farsi ricoverare in una clinica di Marsiglia per un’operazione chirurgica alla prostata. I mafiosi avevano fornito al super latitante documenti falsi per il viaggio e per il ricovero. Tra gli arrestati vi era l’ex imprenditore di Villabate Mario Cusimano, che cominciò a collaborare con la giustizia svelando che la carta d’identità utilizzata da Binnu era stata timbrata dall’ex presidente del consiglio comunale di Villabate Francesco Campanella, il quale nel 2005 cominciò anch’egli a collaborare con la giustizia e confermò le dichiarazioni di Cusimano. Nel 2006 il legale di Bernardo Provenzano tentò di depistare le indagini della DIA dichiarando che il suo assistito era morto, ma la DIA di Palermo, non cadendo nel tranello dell’avvocato, smentì prontamente la dichiarazione del legale.

Le indagini che portarono all’arresto del boss si concentrarono sull’intercettazione dei pizzini. Attraverso questi bigliettini il nuovo capo dei capi comunicava con la famiglia e con i picciotti. I poliziotti della squadra mobile di Palermo del Servizio Centrale Operativo, guidati dal pm della Procura di Palermo Michele Prestipino e da Renato Cortese, intercettarono alcuni di questi pizzini e alcuni pacchi contenenti biancheria e beni di prima necessità e seguendo le “tracce” che Binnu lasciava individuarono la masseria in cui si rifugiava il boss. Il casolare fu tenuto sotto osservazione dal 5 aprile attraverso microspie e intercettazioni, in modo tale da avere la certezza della presenza di Provenzano al suo interno.

L'arresto

Finalmente l'11 aprile 2006 fu dato agli uomini della squadra speciale l’ordine di procedere al blitz e all'arresto, dopo aver avuto la conferma che questa era abitata: qualcuno, infatti, mise fuori dalla porta un sacchetto bianco. Gli uomini fecero irruzione nel casolare e arrestarono Bernardo Provenzano, latitante da quarantasei anni, che prima di desistere, sorpreso, tentò di chiudere la porta a vetri, che fu sfondata da Cortese e dagli uomini della squadra speciale. La prima cosa che disse il padrino fu “non sapete l’errore che state commettendo”, dopodiché non oppose più resistenza e, dopo aver confermato la sua identità, si complimentò con gli uomini della scorta e strinse loro la mano, chiedendo che gli venisse fornito l'occorrente per le iniezioni che doveva effettuare in seguito all'operazione alla prostata. Venne poi scortato alla questura di Palermo.

Il questore di Palermo Giuseppe Caruso affermò che Provenzano era stato catturato “grazie a indagini condotte in vecchio stile, attraverso pedinamenti e intercettazioni” e aggiunse che “Provenzano non è stato tradito da nessuno, non ci siamo avvalsi di pentiti né di confidenti[20]. Fu arrestato poi anche il proprietario del casolare. Il rifugio di Provenzano presentava un arredamento a dir poco spartano, con un letto, un cucinino, una stufa, un bagno, un frigo e la macchina da scrivere con cui il boss scriveva i suoi pizzini[21].

La vita in carcere

Dopo l'arresto Provenzano venne trasferito nel supercarcere di Terni, sottoposto a regime carcerario duro, come previsto dall'art. 41-bis. Dopo un anno venne trasferito nel carcere di Novara, dopo alcune proteste da parte degli agenti della penitenziaria che si occupavano della sua detenzione[22].

Lì il boss tentò diverse volte di comunicare con l'esterno[23], circostanza che portò il ministero della giustizia ad aggravare il carcere duro, applicando quanto previsto dall'art. 14-bis, cioè l'isolamento in una cella con divieto di televisione e radio.

Il 19 marzo 2011 venne confermata la notizia di un cancro alla vescica e fu annunciato il trasferimento dal carcere di Novara a quello di Parma, dove il 9 maggio 2012 il boss tentò il suicidio infilando la testa in una busta di plastica con l'obiettivo di soffocarsi; fu salvato da un agente della penitenziaria.

Il 23 maggio dell'anno successivo la trasmissione televisiva Servizio pubblico mandò in onda un video che ritraeva Provenzano nel carcere di Parma durante un incontro con la moglie e il figlio, datato 15 dicembre 2012: l'ex boss appariva fisicamente irriconoscibile, affaticato e mentalmente confuso, tanto da non riuscire a prendere in mano la cornetta del citofono per parlare con il figlio e senza riuscire nemmeno a spiegare con con chiarezza l'origine di un'evidente ferita alla testa (prima dichiarò di essere stato vittima di percosse, poi di essere caduto accidentalmente). Il 26 luglio la procura di Palermo diede il via libera alla revoca del regime di carcere duro per motivi di salute.

Il 9 aprile 2014 per l'aggravarsi delle sue condizioni venne ricoverato all'ospedale San Paolo di Milano e il 24 settembre dell'anno successivo la Cassazione lo rimandò al 41-bis per meglio tutelare la sua salute, dato che in altro reparto sarebbe stato a rischio sopravvivenza[24].

La morte

Provenzano morì all’ospedale San Paolo di Milano il 13 luglio 2016 all’età di 86 anni. I funerali furono vietati per motivi di ordine pubblico dal questore di Palermo. Alla notizia della morte, Nando dalla Chiesa, figlio di Carlo Alberto, scrisse: "Bernardo Provenzano è morto. Non riesco a provare nulla."[25]"

Condanne

Note

  1. citato in Provenzano, ecco chi era “Binnu u tratturi”, il Secolo XIX, 13 luglio 2016
  2. Salvatore Palazzolo e Ernesto Oliva, Bernardo Provenzano, Quarant’anni da latitante
  3. Interrogatorio di garanzia di Antonino Calderone
  4. Ibidem
  5. Ibidem
  6. Cfr Ordinanza contro Michele Greco + 18 per gli Omicidi Reina-Mattarella-La Torre
  7. Palazzolo, Oliva, p.77
  8. Ibidem
  9. Citato in Palazzolo e Oliva
  10. Ibidem
  11. Ibidem
  12. Ibidem
  13. Ibidem
  14. Ibidem
  15. Ibidem
  16. Ibidem
  17. Ibidem
  18. Ibidem
  19. Ibidem
  20. Arrestato Provenzano, era ricercato dal 1963, Corriere della Sera, 12 aprile 2006
  21. Citato in "Arrestato Bernardo Provenzano", la Repubblica, 11 aprile 2006
  22. Cfr Giovanni Bianconi, Provenzano cambia carcere - «Una torta e troppe attenzioni», Corriere della Sera, 15 aprile 2007
  23. Alessandra Ziniti, Provenzano, pizzini dal carcere, la Repubblica, 12 gennaio 2008
  24. Mafia, Provenzano resta al 41 bis. Cassazione: "Tutela sua salute", il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2015
  25. Pubblicato sul suo blog col titolo "Provenzano"

Bibliografia

  • Abbate Lirio, Gomez Peter, I complici. Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlamento, Fazi Editore, 2007.
  • Oliva Ernesto, Palazzolo Salvo, Bernardo Provenzano. Il ragioniere di Cosa Nostra, Rubbettino Editore, 2006.
  • Palazzolo Salvo, Prestipino Michele, Il codice Provenzano, Editori Laterza, 2008.