Donne e Mafia

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Il ruolo della donna nelle associazioni criminali di stampo mafioso è sempre stato caratterizzato da una certa ambiguità. La presenza femminile nell'organizzazione si basa sia su un’esclusione formale che in una partecipazione sostanziale alla vita dell'organizzazione.

Donne e Cosa Nostra

Monosessualità formale e bisessualità di fatto

Anche sotto il profilo di genere, il fenomeno mafioso dimostra una grande capacità di adattamento: benché abbia sempre assunto la forma di organizzazione maschile, il suo maschilismo deriva da quello presente nel contesto sociale di riferimento. Del resto, come scrisse Giovanni Falcone, non è altro che «l’esasperazione dei valori siciliani»[1].

Non desta sorpresa quindi l'accresciuto ruolo della donna nelle organizzazioni criminali di stampo mafioso.

Donne mafiose

Già ai tempi del processo alla mafia delle Madonie (1927-1928), tra i 153 imputati vi erano 7 donne, con imputazioni quali l'assistenza ai latitanti, la riscossione del pizzo e la custodia del denaro; tra queste, Giuseppa Salvo, definita dai giornali «la regina di Gangi» per il suo ruolo di spicco, che nel corso del processo mantenne un perfetto atteggiamento omertoso[2].

Nello stesso periodo cominciò la sua carriera di ricercata dalla giustizia Maria Grazia Genova, detta «Maragè», nata a Delia, in provincia di Caltanissetta nel 1909 e morta in ospedale, in miseria, il 15 dicembre 1990, dopo aver collezionato una cinquantina di denunce e ventidue arresti. Sorella di Diego, «uomo di rispetto» del paese, già nel 1927 venne arrestata per furto. Nel 1949 riuscì ad evadere dal carcere dove doveva scontare una pena in seguito alle indagini sulla faida in cui era coinvolta la sua famiglia e che finì quando non ci fu più nessuno da ammazzare[3]. Pare che quando qualcuno della sua famiglia si trovasse nei guai con la giustizia e fosse necessario pagare gli avvocati, questa si presentasse da professionisti e commercianti della città, chiedendo un contributo[4]. Mandata al confino agli inizi degli anni sessanta, nel ’79, quasi ottantenne, venne proposta di nuovo per il soggiorno obbligato.

Più recente l’attività di Angela Russo, arrestata il 13 febbraio 1982 assieme ad altre 27 persone, tra cui i figli e le nuore, all'età di 74 anni perché sospettata di essere stata corriera di droga tra Palermo, le Puglie e il Nord Italia. Si scoprì in seguito che la Russo, soprannominata «nonna eroina», era più che corriera: era stata l’organizzatrice del traffico di droga fatto dalla sua famiglia e all'atto dell’arresto, e poi durante il processo e nei confronti del figlio pentito, si comportò da perfetta mafiosa[5]. Ad esempio, chiamò il figlio «vigliacco e infame» e in un'intervista disse:

«Salvatore io l’ho perdonato, ma non so se Dio potrà mai perdonarlo. … Dicono che fra un anno esce. Lui lo sa che è condannato, lo sa che esce e lo ammazzano. Quelli non perdonano. … Lui prima spera di avere il tempo di vendicare suo fratello Mario, morto ammazzato per causa sua. Ma che pensa di poter fare? Prima ci doveva pensare a Mario. Ora non gli daranno il tempo. Ora, Salvino, quando esce muore»[6].


E ancora, non riconoscendosi nel ruolo subalterno che le veniva attribuito: «Quindi secondo loro io me ne andavo su e giù per l’Italia a portare pacchi e pacchetti per conto d’altri. … Dunque io che in vita mia ho sempre comandato gli altri, avrei fatto questo servizio di trasporto per comando e conto d’altri? Cose che solo questi giudici che non capiscono niente di legge e di vita possono sostenere».

Contestualmente espose una sua precisa idea di mafia, fatta di «veri uomini», come suo padre, di leggi severe che colpivano inesorabilmente chi «sbagliava» e risparmiavano i «figli di mamma», mentre ora:

«E vanno a dire mafioso a questo, mafioso a quello. Ma che scherzano? Siamo arrivati a un punto che un pinco pallino qualsiasi che ruba subito è «mafioso». Io in quel processo di mafiosi proprio non ne ho visti. Ma che scherzano, è modo di parlare di cose serie? Ma dove è più questa mafia, chi parla di mafia, cosa sanno loro di mafia? Certo, sissignora, io ne so parlare perché c’era nei tempi antichi a Palermo e c’era la legge. E questa legge non faceva ammazzare i figli di mamma innocenti. La mafia non ammazzava uno se prima non era sicurissima del fatto, sicurissima che così si doveva fare, sicurissima della giusta legge. Certo, chi peccava «avia a chianciri», chi sbaglia la paga, ma prima c’era la regola dell’avvertimento… Allora in Palermo c’era questa legge e questa mafia. C’erano veri uomini. Mio padre, don Peppino, era un vero uomo e davanti a lui tremava di rispetto tutta Torrelunga e Brancaccio e fino a Bagheria...»[7].

Un esempio degli ultimi anni è quello invece di Maria Filippa Messina, giovane moglie di Nino Cinturino, boss di Calatabiano, paese in provincia di Catania, in carcere dal 1992. Il suo è un esempio di donna «supplente», in assenza del marito capomafia, ma una supplente che dimostra di potere assumere essa stessa il ruolo di capomafia. Arrestata il 4 febbraio 1995 nella sua abitazione a Calatabiano, appunto perché sospettata di essere alla guida della famiglia del paese dopo l’arresto del marito, venne accusata di avere assoldato killer per vendicare l’omicidio di un mafioso della cosca, ucciso assieme alla madre. In alcune conversazioni, intercettate dalla polizia, la Messina disse che era venuto il momento «di pulire il paese», per ottenere il controllo del territorio occupato dalla cosca rivale dei «Laudani».

Con lei furono arrestati altri sette mafiosi, tra cui autori di alcuni delitti commissionati dalla donna[8]. In carcere le venne notificato un altro ordine di custodia cautelare, assieme al marito e ad altri presunti mafiosi, per i delitti avvenuti durante una guerra di mafia tra la cosca catanese di Turi Cappello e il suo alleato Nino Cinturino e quella dei Laudani avvenuta tra il 1990 e il 1995. Tra gli arrestati altre due donne, Vincenza Barbagallo e Domenica Blancato, e tra le persone a cui il provvedimento fu notificato in carcere vi era un'altra donna, Sebastiana Trovato.

Con una lettera al quotidiano «La Sicilia», pubblicata il 19 dicembre 1996, la Messina si lamentò di essere stata sottoposta al carcere duro, cioè all'isolamento secondo l’articolo 41 bis, prima donna nella storia[9].

Tipologia delle donne di mafia

Tra le donne di famiglie mafiose sono stati riscontrati una varietà di comportamenti derivanti dalla personalità delle donne, che non si discosta molto dalla tipologia riscontrabile in altre famiglie, anche se la specificità della provenienza mafiosa non può non esercitare un forte condizionamento, ma non fino al punto da tradursi in standard uniformi.

Le fedeli compagne religiose

Così vi sono donne nate in famiglie mafiose e sposate a mafiosi che obbediscono allo stereotipo delle «fedeli compagne», discrete e premurose, come Rosaria Castellana, moglie di Michele Greco soprannominato «il papa”. Quando il marito, latitante, venne accusato della strage in cui perse la vita Rocco Chinnici, dichiarò che si trattava di una «assurda macchinazione»: «Il papa? Ho letto questo appellativo sui giornali… Lui è un uomo così tranquillo, sapeste! Adora me e suo figlio. Il tempo lo trascorreva tutto in campagna a curare i suoi agrumeti. E poi è così religioso»[10].

La famiglia Castellana era una famiglia di grossi proprietari terrieri della zona di Ciaculli. L'educazione della signora Rosaria era stata quella che si dava alle ragazze destinate a fare un «buon matrimonio»: studiò musica e le lingue straniere, scriveva poesie, si interessava d'arte. «La mia vita trascorre tra casa e chiesa», disse. Una donna religiosa, insomma, come il marito.

E religiose dichiarano di essere numerose altre donne di famiglie mafiose che coniugano cristianesimo e convivenza con l’assassinio. Per fare qualche esempio recente, Antonietta Brusca, che dopo l’arresto dei figli dichiarò di averli educati nel timore di Dio, rimarcando come la moglie di Greco la sua vita tutta casa e chiesa[11]. Cosa che non le impedì di essere l’intestataria dei conti bancari dove i suoi figli, educati cristianamente, depositavano il denaro acquisito con il traffico di droga ed altri traffici illeciti.

Religiosissima è Filippa Inzerillo, autrice di un appello rivolto alle donne di mafia pubblicato dal «Giornale di Sicilia« il 2 novembre 1996. Vedova di Salvatore, il capo di una delle più importanti famiglie mafiose ucciso nel maggio 1981, due settimane dopo l’omicidio di Stefano Bontate, all’inizio della seconda guerra di mafia che portò al dominio assoluto dei Corleonesi in Cosa Nostra. Della famiglia Inzerillo furono uccisi anche due fratelli di Salvatore, due zii, un cugino e il figlio di sedici anni, Giuseppe, che aveva dichiarato di volere vendicare la morte dei congiunti. La signora Inzerillo, che ora fa parte di un cenacolo di carismatici scrisse: "Donne di mafia, ribellatevi. Rompete le catene, tornate alla vita. Sangue chiama sangue, vendetta chiama vendetta. Basta con questa spirale senza fine. Lasciate che Palermo rifiorisca sotto una nuova luce, nel segno dell’amore di Dio. Lasciate che i vostri figli crescano secondo principi sani, capaci di esaltare quanto di bello c’è nel mondo".

La villa dove abitava la Inzerillo, nella borgata Passo di Rigano, divenne un luogo di preghiera. Ma malgrado la sua religiosità, la mentalità mafiosa fece capolino nella risposta alla domanda se avesse perdonato anche Totò Riina: «È solo un figlio (di Dio) che ha sbagliato. Ha lo spirito malato e dovrebbe pentirsi, non dico davanti ai magistrati, ma davanti al Signore, prima che sia troppo tardi». Come dire: l'unica giustizia è quella divina, quella umana non conta nulla. Uno dei principi fondamentali del codice mafioso.

Le «madrine» e le «supplenti»

Altre donne invece ricoprono un ruolo attivo negli affari della propria famiglia, svolgendo compiti criminali in prima persona (ad esempio, il traffico e lo spaccio di droga) e che si possono definire «madrine» a pieno titolo, anche in presenza di uomini, o «supplenti» in seguito all'arresto o alla latitanza degli uomini.

Numerose sono le donne che si limitano a favorire le attività delittuose dei congiunti, risultando prestanome, proprietarie di quote o addirittura intestatarie di società e imprese per lo più usate per il riciclaggio del denaro sporco, proprietarie di immobili acquistati con denaro illecito, proprietarie di esercizi commerciali al posto dei mafiosi che non possono comparire.

Ci sono poi le donne appartenenti a famiglie storiche di Cosa Nostra, cioè nate e cresciute in quell'ambiente e, come le ragazze dell'aristocrazia e dell'alta borghesia i cui matrimoni avvenivano e continuano ad avvenire prevalentemente nel loro ambiente, sposate con mafiosi di rango, per le quali è ragionevole pensare che siano coscientemente partecipi delle attività dei congiunti; e ci sono poi le mogli di piccoli mafiosi, provenienti da ambienti non mafiosi e trovatisi a fare da prestanome probabilmente senza avere piena coscienza dell’origine del denaro impiegato.

Un esempio interessante è quello di Francesca Citarda, non tanto per il caso in sé, quanto per l’atteggiamento del collegio che doveva giudicarla, frutto di una mentalità retriva – questa sì, rigidamente maschilista – e di giudizi stereotipi sulle donne meridionali ancora non del tutto scomparsi negli ambienti giudiziari. La Citarda, moglie di Giovanni Bontate e figlia di Matteo Citarda, entrambi appartenenti a famiglie mafiose storiche, venne proposta per il soggiorno obbligato nel marzo 1983, in applicazione della disposizione della legge La Torre che estendeva ai familiari e ai prestanome dei mafiosi le indagini patrimoniali, finalizzate alla confisca dei beni di cui non venga provata la legittima provenienza. Con lo stesso provvedimento venne richiesto il soggiorno obbligato per altre donne di famiglie mafiose: Rosa Bontate, sorella di Giovanni e Stefano e moglie di Giacomo Vitale, coinvolto nel falso sequestro Sindona; Epifania Letizia Lo Presti e Francesca Battaglia, rispettivamente sorella e moglie di Francesco Lo Presti, mafioso di Bagheria; Anna Maria Di Bartolo, moglie del mafioso Domenico Federico; Anna Vitale, cognata di Gerlando Alberti, proprietaria di una villa a Trabia trasformata in una raffineria di eroina e latitante da quando il laboratorio era stato scoperto.

Queste donne sarebbero, secondo gli inquirenti, «organicamente collegate alla mafia ed inserite in quella fitta rete di legamenti col tessuto sociale e con l’apparato della cosa pubblica” rivelata dalle indagini patrimoniali[12].

Il matrimonio tra Francesca Citarda e Giovanni Bontate venne richiamato nel rapporto della questura come un evidente patto tra famiglie mafiose. Per il pubblico ministero che fa la richiesta di soggiorno obbligato per Giovanni Bontate e per la moglie, il patrimonio dei due sarebbe in larga parte di origine illecita, costituito con il denaro del traffico di droga e il successivo riciclaggio[13]. Il Tribunale di Palermo, presieduto dal giudice Michele Mezzatesta, accolse però la richiesta soltanto per Giovanni Bontate, sostenendo che troppo lontane per ideologia, mentalità e costumanza sono le cosiddette «donne di mafia” dalle «terroriste” che purtroppo hanno avuto un ruolo di attiva partecipazione alle bande armate che tuttora attentano alla sicurezza dello Stato e all'ordine democratico.

Donne e pentitismo

Donne collaboratrici di giustizia

Donne e 'ndrangheta =

Per quanto concerne l’organizzazione «flessibilità e fragilità interna hanno avuto un peso nella partecipazione delle donne alle attività delle ‘ndrine»[14] L’esclusione formale delle donne si sostanzia nella proibizione di partecipare all'organizzazione mafiosa mediante rito di iniziazione. Questa norma ha trovato però delle eccezioni nella storia di questa organizzazione criminale. Sono emersi degli atti di alcuni processi risalenti ai primi del Novecento in cui compaiono casi di donne affiliate all'organizzazione. Emerge così una strutturazione formale del coinvolgimento femminile.

Le donne venivano ammesse all'organizzazione indossando i panni di un uomo. Si riscontra un’apposita carica formale per le donne, la cosiddetta “sorella d’omertà”. Questo titolo viene riconosciuto a donne legate in qualche modo a uomini d’onore, ma ciò avviene molto raramente, nonostante il loro ruolo criminale sia risultato negli anni maggiormente definito e incisivo a livello giudiziario.

Le donne non fanno giuramento di fedeltà all'organizzazione perché il loro primo dovere è quello di essere fedeli ai propri uomini. Nei casi in cui alle donne venga riconosciuto tale titolo, queste hanno il compito di dare assistenza ai latitanti, di far circolare le ‘mbasciate e di mantenere i contatti, attraverso i colloqui, tra i detenuti e l’organizzazione esterna.

Un’ulteriore ruolo che una donna poteva ricoprire era la “santista”, la carica più elevata che una donna può avere all'interno della ‘ndrangheta. Le regole della ‘ndrangheta calabrese non contemplano la possibilità di affiliare delle donne ma se una di loro viene riconosciuta particolarmente meritevole può essere associata con il titolo di sorella d’omertà. La partecipazione femminile emerge maggiormente nei periodi di conflitto. Vuoti di potere portano allo scoperto le donne nell'organizzazione. Durante i periodi di conflitto si scatenano vendette e le donne ricoprono il ruolo da protagoniste in questo ambito. Quando gli uomini sono assenti per i più disparati motivi, sia che siano latitanti o in prigione, le donne sono indispensabili per dare continuità alle attività criminali.

Un altro ruolo importantissimo che può ricoprire una donna è quello di farsi messaggera tra il carcere e l’esterno. Il ruolo delle donne all'interno dell’organizzazione è ambivalente. Da un lato cercano di proteggere in tutti i modi i loro figli e mariti temendo per la loro incolumità, dall'altro sono loro stesse ad incitarli a combattere e a compiere vendette.

I ruoli tipicamente riconducibili alle donne sono quelli di custodia e occultamento delle armi, di vigilanza esterna, di acquisizione di informazioni e di trasmissione di messaggi. Possono sembrare attività apparentemente semplici, ma sono in realtà di grandissimo rilievo ai fini dell’organizzazione.

Si può dire in altre termini che le donne all’interno dell’organizzazione «vivono tra assenza formale, da una parte, e inserimento di fatto, dall’altro: il loro potere si gioca attorno ad una soglia»[15]

Sono cruciali nel sistema della vendetta e risultano indispensabili in uno dei momenti simbolici più importanti per l’organizzazione, i matrimoni. La donna non risulta inserita nella dimensione inter-organizzativa, ma svolge funzioni essenziali nella dimensione famigliare dell’unità di base. Le donne risultano in grado di svolgere i ruoli criminali richiesti ai membri dell’organizzazione proprio perché sono appartenenti alla famiglia biologica. Per questo le donne non necessitano di ulteriori riti simbolici: sono considerate già per nascita fedeli e leali all'organizzazione.

Per secoli pregiudizi culturali e biologi hanno tenuto le donne lontane dalla sfera pubblica, rilegandole nella sfera privata e domestica. Il divieto per le donne di prendere parte al rito di iniziazione risiede nel pregiudizio maschile che le donne debbano limitarsi a fare figli e a prendersi cura della casa. Per anni si è così erroneamente pensato che le donne fossero all'oscuro di ciò che le circondava nell'organizzazione mafiosa.

Il ruolo tradizionale della donna

Le donne all'interno delle organizzazioni mafiose hanno da sempre esercitato compiti tradizionali nella sfera del privato. Questi compiti riguardano l'educazione dei figli e delle figlie, l'incitamento alla vendetta, la garanzia della reputazione maschile e i matrimoni combinati. Oltre a questi compiti tradizionali le donne svolgono anche dei ruoli importanti nell'ambito criminale, che si concretizzano sempre prevalentemente in funzioni di supporto e di sostituzione agli uomini.

Funzioni Attive

Tra le funzioni attive esercitate dalle donne all'interno dell'organizzazione mafiosa vi sono la trasmissione del codice culturale mafioso e l'incitamento alla vendetta.

La trasmissione del codice culturale mafioso risulta essere di vitale importanza e un onere imprescindibile che spetta all'universo femminile. Nella ‘Ndrangheta come in Cosa Nostra si ricorre all'allegoria della famiglia per definire ruoli esterni al proprio nucleo biologico. Alle donne non sposate che aiutano l’organizzazione mafiosa viene dato il titolo di “sorelle d’omertà”. La trasmissione del codice culturale mafioso è delegata soprattutto alla madre. La figura materna ha una funzione centrale nel processo educativo dei figli. A lei spetta il compito di inculcare nei figli determinati disvalori indicati da lei come “giusti” , in contrasto con i principi diffusi nella società civile. I principali disvalori riguardano l’omertà, la vendetta, il disprezzo dell’autorità pubblica e la differenza di genere. L’oneroso compito di formare nuove personalità mafiose spetta proprio alla donna. Alla prole si insegna l’agire criminale sotto forma di apprendimento durante la fase della socializzazione primaria. Il bambino acquisisce il modello culturale mafioso attraverso l’osservazione e la partecipazione per poi arrivare ad interiorizzarlo. Le donne rispettate in quanto madri e generatrici di figli sono educatrici loro stesse della mentalità maschile. Le madri devono insegnare alle figlie femmine un modello di subordinazione della donna all’autorità maschile. La distinzione di genere all’interno dell’organizzazione mafiosa ricopre un ruolo centrale. Proprio ponendo enfasi sul ruolo materno viene dato alle donne la possibilità di essere riconosciute in un contesto dominato dalla presenza e dall'autorità maschile. La centralità della famiglia, luogo di incontro degli affetti ma anche degli affari mafiosi, amplifica l’importanza delle figure femminili. «Un ruolo che risulta comunque sempre caratterizzato da ambiguità e confusione, avvolto quasi in una ragnatela inestricabile di sentimenti ed emozioni»[16] Si tratta di una partecipazione ambigua poiché la violenza esterna non lascia spazio all’espressione della soggettività femminile.

La seconda funzione attiva che spetta alle donne all’interno delle organizzazioni mafiose è l’incitamento alla vendetta. All’interno della ‘ndrangheta si può parlare di una “pedagogia della vendetta”, termine utilizzato dalla sociologa Renate Siebert per indicare il continuo incitamento nei confronti dei figli a vendicare l’onore del padre ucciso. La vendetta è un principio chiaro insegnato all’interno dell’organizzazione. Le donne sono le custodi dell’onore offeso dei propri uomini. Al concetto di vendetta sono legati quello di onore e di vergogna. La vendetta viene intesa come elemento cardine di un ordinamento giuridico alternativo allo Stato. Ci sono elementi simbolici che caratterizzano la vendetta. La calendarizzazione della vendetta è uno di questi. Un’altra pratica diffusa è quella di indirizzare la ritorsione contro i parenti della persona da colpire, la cosiddetta vendetta trasversale. La donna gioca un ruolo di primo piano nella “memoria della vendetta”, ossia nel ricordare costantemente ai propri figli o mariti il compito di non lasciare impuniti gli assassini del proprio caro. La strategia delle donne è quella di far leva sul sentimento della vergogna che una mancata vendetta susciterebbe nei propri compagni e nelle rispettive famiglie di appartenenza. La volontà della donna di compiere vendetta viene perciò ascoltata anche se quest’ultima non fa parte dell’organizzazione.

Funzioni Passive

Tra le funzioni passive esercitate dalle donne nell'organizzazione mafiosa vi è quella di garante della reputazione maschile e quello di essere una merce di scambio nelle politiche matrimoniali.

La donna deve salvaguardare la reputazione maschile (che garantisce agli uomini di essere formalmente affiliati alla mafia) attraverso la sua rispettabilità e onorabilità. Alle donne era perciò richiesto un comportamento sessuale "corretto", ossia la verginità prima delle nozze e successivamente la castità. Per evitare la perdita dell'onore gli uomini dovevano così esercitare uno stretto controllo sulle proprie donne, un controllo che permaneva attraverso gli occhi del clan qualora l'uomo fosse stato incarcerato. Se l'uomo si dimostra capace di mantenere un controllo totale sulla propria donna, agli occhi degli altri sarà capace di mantenere un controllo anche sul proprio territorio. Il pudore femminile rappresentava la via per mantenere intatto l'onore maschile. L'uomo in sostanza deve mantenere una buona reputazione. La rettitudine femminile garantisce la reputazione maschile. Il comportamento sessuale di una donna condiziona sia l'entrata di un uomo all'interno dell'organizzazione che la propria carriera. Per la donna vige il divieto assoluto di commettere adulterio. Divieto che per l'uomo non sussiste dato che privatamente può mantenere una doppia vita. Anche le vedove sono obbligate a rimanere fedeli ai mariti o fidanzati defunti, per evitare un eventuale disonore familiare.

Un'altra grande funzione passiva legata al ruolo tradizionale della figura femminile è quella di essere merce di scambio nelle politiche matrimoniali. La donna risulta ancora essere succube del volere familiare. I matrimoni combinati con obiettivi strategici servono ad allargare le alleanza o per riappacificarsi dopo anni di faide. Combinare i matrimoni contribuisce così a ridurre la possibilità di faide tra i clan. Agli uomini è tacitamente concesso di mantenere due vite parallele, una con la propria famiglia e l'altra con la propria amante. L'importante è mantenere la facciata di rispetto della propria famiglia soprattutto pubblicamente. Alla donna è invece severamente vietato avere una doppia vita. Nei matrimoni combinati le donne hanno il compito di riappacificare due famiglie rivali. Difatti: «il sangue della sposa durante la prima notte di nozze, rappresentando la giusta restituzione del sangue versato nel corso della guerra, sancisce la fine della faida[17]

Il ruolo criminale della donna

Il ruolo criminale delle donne emerge nel corso degli anni Settanta e Ottanta a seguito di due importanti processi di trasformazione: uno endogeno alle associazioni mafiose, legato tanto alla tipologia di affari illeciti quanto alla struttura interna; l'altro esogeno, legato alle trasformazioni avvenute nella società in riferimento alle condizioni della donna rispetto all'educazione, al mondo del lavoro e ai costumi sociali. «La parziale uscita dalla zona d'ombra dentro cui erano state relegate è la conferma delle capacità adattive del fenomeno criminale rispetto alle sfide economiche, giudiziarie e sociali messe a punto negli ultimi anni»[18] Un grande fattore di cambiamento è stato l'entrata delle organizzazioni criminali nel narcotraffico. Siamo di fronte ad una nuova generazione di donne più giovani e più istruite che si sono adeguate alla domanda mafiosa in nome dell'offerta. Vi sono tre settori chiave in cui le donne si inseriscono all'interno della criminalità: il traffico di droga, il settore economico finanziario e le attività di collegamento e di gestione del potere.

Nel settore del narcotraffico le donne venivano arruolate come corrieri e spacciatrici. Trasportare la droga è un mestiere particolarmente adatto ad una donna perché si possono facilmente nascondere quantitativi di droga simulando gravidanze o arrotondando fianchi e seni. Le donne sono anche considerate più fidate e meno controllate dalla polizia. Alcune delle attività legate allo spaccio della droga venivano svolte in casa e perciò considerate adatte alle mansioni femminili. Il fattore dell’insospettabilità è preminente nell'assoldare figure di sesso femminile. Le donne coinvolte nel narcotraffico sono donne che provengono da contesti di marginalizzazione sociale, che hanno un elevato numero di figli da mantenere e che faticano ad arrivare a fine mese. Queste donne accettano di entrare in traffici illeciti sia per provvedere alla propria famiglia che per soddisfare il desiderio di raggiungere mete consumistiche proposte dalla società. Un esempio di questo tipo di donne sono quelle che negli anni Ottanta collaboravano con i Serraino-Di Giovine, attivi a Milano nel settore del narcotraffico internazionale, al fine di comprare il motorino ai figli adolescenti. Le donne vengono anche coinvolte nell’organizzazione di traffici di droga: è questo il caso di Angela Russo, detta “nonna eroina”, arrestata nel 1982 con l’accusa di essere l’organizzatrice dell’ingente narcotraffico. Un’altra figura di spicco è quella di Maria Serraino, che attraverso il consorzio ‘ndranghetista esercitava un controllo capillare e militare nell'area circostante Piazza Prealpi ( nella zona nordovest di Milano ). Entrambe le donne Angela a Maria hanno un cognome “rispettabile” e condividono il proprio potere affiancate da una figura maschile, il figlio.

Il settore in cui si riscontra il maggior numero di donne è il settore economico finanziario. Quest’ambito risulta particolarmente adatto alle donne perché non richiede l’utilizzo della violenza fisica. Le donne vengono utilizzate come la faccia pulita dell'organizzazione, servono come presta nome ma amministrano anche società ed investono denaro. Le donne iniziano ad entrare nel vivo dei traffici dell'organizzazione anche grazie alla loro preparazione e ai loro studi. Molto spesso risultano più affidabili e competenti della controparte maschile. «Nell’analisi della presenza femminile nel settore economico finanziario della criminalità organizzata va sottolineato che essa è stata esclusivamente strumentale alle associazioni mafiose»[19] Le donne non hanno ricavato particolari vantaggi dalle proprie prestazioni nel settore economico finanziario ne tanto meno hanno guadagnato un’indipendenza economica dagli uomini della propria famiglia.

Infine, le donne possono venire coinvolte anche più direttamente nella gestione del potere mafioso. Questo si verifica soprattutto quando la figura maschile è assente perché è in carcere o perché risulta essere latitante. Nelle vesti di messaggera le donne trasportano, per conto dei membri del clan, le cosiddette ambasciate ( messaggi scritti o orali ) dal carcere all'esterno, oppure da un luogo di latitanza all'altro. Le donne acquistano posizioni di comando nella struttura militare quando il proprio uomo è assente ( agli arresti oppure latitante ). Alle donne si da così una delegazione del potere temporaneo e vengono usate in posizioni di comando solo perché servono agli uomini.

La pseudo-emancipazione della donna

Per quanto riguarda le donne all'interno delle associazioni criminali di stampo mafioso non si può parlare di un vero percorso di emancipazione femminile, perché in realtà si tratta di un percorso di pseudo-emancipazione. «Parlare, quindi, in modo affermativo di emancipazione femminile nel contesto mafioso, come accade ogni volta che una donna viene scoperta in attività criminali di stampo mafioso, toglie validità euristica al concetto stesso di emancipazione »[20] Infatti, il potere affidato alle donne è sempre di natura delegato e temporaneo. Il potere femminile nella mafia è sempre di natura delegata e temporanea: la delega temporanea del potere avviene in assenza dell'uomo, senza intaccare il sistema fondato sul patriarcato. Infatti, le donne continuano a subire violenze fisiche e psicologiche dagli uomini della propria famiglia, da cui dipendono anche economicamente: si sfrutta il processo di emancipazione femminile in corso nella società legale, ma si rimane ancorati alle vecchie tradizioni.

Il paternalismo giudiziario

Per molti anni le donne hanno potuto agire quasi indisturbate ed essere utilizzate in molti settori. «Si può dunque sostenere che la donna “mafiosa” abbia goduto per molti anni di una sorta di impunità connaturata»[21]. I mafiosi hanno continuato a sottolineare l’estraneità femminile dalla struttura criminale per motivazioni di carattere economico e strutturale. Per quanto riguarda le condanne spesso si sono ricondotte le azioni a carico di donne coinvolte in affari illeciti riguardanti le organizzazioni mafiose al reato di favoreggiamento (articolo 378 c.p.). «La non punibilità della donna è stata influenzata dalla sua condizione di genere»[22]. A partire dagli anni novanta si è iniziato a considerare le donne coinvolte in reati mafiosi individualmente, invece che giudicarle in base a categorie di genere. La legge Rognoni-La Torre ha aiutato a svelare l’implicazione delle donne nei reati economici finanziari. Le donne non venivano accusate del reato di associazione mafiosa perché venivano formalmente escluse dall'organizzazione. Questa prassi nel corso degli anni è venuta meno in sede processuale. Attraverso la raccolta di testimonianze femminili ci si è allontanati dalla valutazione stereotipa della condizione femminile all’interno dell’organizzazione criminale mafiosa per valorizzarne invece la sua soggettività. Negli anni novanta il numero di donne imputate e poi condannate per associazione di stampo mafioso aumenta. Erroneamente si considerava la partecipazione femminile come temporanea e accidentale senza considerare che poter portare avanti efficacemente determinati traffici illeciti è indispensabile essere inseriti nel gruppo criminale. Risultava essere non più un elemento essenziale l’acquisizione della prova di una normale affiliazione per essere accusate di associazione di stampo mafioso. Le donne rimangono comunque dei soggetti atipici all’interno dell’organizzazione mafiosa. «L’espressione soggetti atipici è utilizzata per sottolineare l’anomalia della partecipazione delle donne con un ruolo attivo negli affari criminosi del sodalizio»[23]. Negli anni duemila si è iniziato anche a far ricorso all'applicazione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario (carcere duro) anche alle detenute.

Una recente sentenza della Cassazione sembra fare chiarezza su come debba essere giudicato il ruolo della donna all’interno dell’organizzazione in sede processuale: «La partecipazione della donna nell'associazione mafiosa non può ricavarsi da un’asserita massima di esperienza tratta dal dato sociologico o di costume che assume un ruolo di passività e di strumentalità della stessa, ma va ricostruita attraverso l’esame delle concrete e peculiari connotazioni della vicenda che forma oggetto del »[24]

Donne e pentitismo

Attraverso il pentitismo le donne possono abbandonare l'ambiente malavitoso e affidarsi alla giustizia pubblica. Nel pentitismo femminile si possono individuare due linee di tendenza comuni: «Una si colloca in continuità con il contesto di provenienza, mentre l’altra è il prodotto di un processo di rottura»[25] Le donne si affidano dunque alla giustizia pubblica per denunciare gli assassini dei propri cari o per desiderio di riaffermare la propria individualità rispetto all'organizzazione mafiosa. Vi sono diverse modalità di reazione delle donne anche per quanto riguarda la scelta di un proprio parente di collaborare con la giustizia: quella di rinnegare la scelta di chi collabora e di rimanere conformi al sistema mafioso o al contrario seguire la scelta del congiunto ed applicare una spaccatura con l’universo di appartenenza. Il ruolo delle donne risulta essenziale nel supportare in termini pratici e psicologici il collaboratore. Giovanni Falcone fu il primo ad aver riconosciuto quanto la figura della donna fosse determinante nel percorso di collaborazione. Spesso le collaboratrici di giustizia si affidano alle forze dell’ordine per vendicare gli assassini dei propri cari. Nella volontà di collaborare predomina in questo caso un modello vendicativo. Quando non è la vendetta a spronare le donne alla collaborazione si parla invece di un modello emancipativo. La donna allontanandosi dall'organizzazione «opera una svolta che innesca dei meccanismi di profondo cambiamento»[26] Alla donna che collabora si prospetta la possibilità di crearsi una nuova vita per se e per i propri figli. La donna si affida allo Stato per lasciarsi alle spalle anni di soprusi e di cultura mafiosa.


Note

  1. Falcone, Cose di Cosa Nostra, p.80-81
  2. Siragusa-Seminara, 1996, p. 110
  3. Cascio - Puglisi (a cura di), 1986, p. 16
  4. «L’Ora», 17 dicembre 1990
  5. Cascio - Puglisi (a cura di), 1986, pp. 83 s., 86 s., 96 s.
  6. Pino, 1988, p. 89
  7. Pino, 1988, pp. 79 s.
  8. «Giornale di Sicilia», 5, 6 e 7 febbraio 1995
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