Giovanni Falcone

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L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza.


Giovanni Salvatore Augusto Falcone (Palermo, 18 maggio 1939 – Capaci, 23 maggio 1992) è stato un magistrato italiano. Fu assassinato da Cosa Nostra con la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta nella strage di Capaci.

Giovanni Falcone

Biografia

Giovanni Falcone, terzo di tre figli, nasce a Palermo il 18 maggio 1939, da Arturo, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e da Luisa Bentivegna. Dopo aver frequentato il Liceo classico "Umberto" compie una breve esperienza presso l'Accademia navale di Livorno. Decide poi di tornare nella città natale per iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza e consegue la laurea nel 1961. Dopo il concorso in magistratura, nel 1964 diviene pretore a Lentini per trasferirsi subito come sostituto procuratore a Trapani, dove rimane per circa dodici anni. E' in questa sede che va progressivamente maturando l'inclinazione e l'attitudine verso il settore penale: come egli stesso ebbe a dire, "era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava", nel contrasto con certi meccanismi "farraginosi e bizantini" particolarmente accentuati in campo civilistico. A seguito del tragico attentato al giudice Cesare Terranova, avvenuto il 25 settembre 1979, Falcone comincia a lavorare a Palermo presso l'Ufficio istruzione. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici gli affida nel maggio 1980 le indagini contro Rosario Spatola. È proprio durante questa prima esperienza che inizia a formarsi il cosiddetto “metodo Falcone”, un innovativo impianto per l’istituzione dei processi di mafia, che utilizzava gli ordinari strumenti forniti dal codice, adattandoli a una nuova visione del fenomeno mafioso. In realtà egli non inventò nulla di nuovo, semplicemente utilizzò gli elementi affioranti, adattandoli ad una nuova visione del fenomeno. Ogni porzione d’indagine diviene così solo in apparenza scollegata con l’altra ma di fatto viene applicata una visione d’insieme. Le inchieste del giudice Falcone, pur avendo come campo di analisi il mondo del crimine, coinvolsero direttamente anche quello della criminalità economica. In tale contesto venivano alla luce costantemente intrecci, sovrapposizioni o identificazioni di interessi occulti, che facevano capo a centrali d’intermediazione tra realtà politica o economica con quella criminale. L’intuizione forse più intelligente è sintetizzata da una frase che Falcone amava ripetere a proposito delle indagini sui traffici di stupefacenti: “La droga può anche non lasciare tracce, il denaro le lascia sicuramente”. Una vera e propria filosofia d’indagine basata sull’attenzione ai documenti finanziari, agli scambi di assegni, alle impronte che il denaro lasciava dietro di sé e che caratterizzò il metodo di lavoro di Falcone, Borsellino e degli altri magistrati del pool. Appariva evidente come la presenza della criminalità organizzata in settori economici ed in ambienti politico-istituzionali determinasse, come conseguenza, un inquinamento progressivo non solo del tessuto economico locale, ma anche del contesto sociale e della vita pubblica. Tutto questo Giovanni Falcone lo aveva prima intuito, attraverso l’attenta lettura dei fascicoli processuali e poi dedotto dagli eventi ricostruiti nel corso delle indagini. Giovanni Falcone sviluppò così una conoscenza e una capacità di analisi attraverso atti istruttori, nel rispetto totale non solo delle norme, ma anche nel rispetto totale delle persone. LA NASCITA DEL POOL ANTIMAFIA Il 29 luglio 1983 il consigliere Chinnici fu ucciso con la sua scorta; lo sostituì Antonino Caponnetto, il quale riprese l'intento di assicurare agli inquirenti le condizioni più favorevoli nelle indagini sui delitti di mafia. Nacque così il "pool antimafia”. Il primo passo di Caponnetto fu una lunga conversazione con Falcone che tracciò un quadro breve, ma esauriente, dei problemi di mafia e degli schieramenti. I componenti del pool furono lo stesso Falcone, Di Lello (pupillo di Rocco Chinnici), Paolo Borsellino e infine Guarnotta, il giudice più anziano.

Nel 1984, iniziò l'interrogatorio con il pentito Tommaso Buscetta, il quale segnò una svolta nelle indagini sull'organizzazione criminale denominate Cosa Nostra. Nell'estate dell'85 furono uccisi due funzionari di polizia, Ninni Cassarà e Giuseppe Montana, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino. Fu da quella estate che si iniziò a temere per l'incolumità dei due giudici, che furono mandati per qualche tempo al carcere dell'Asinara dove terminarono i lavori per il maxiprocesso dell'86-87. IL MAXIPROCESSO Il 16 dicembre 1987, infatti, alle ore 19:30, dopo trentacinque giorni di camera di consiglio, trecentoquarantanove udienze, milletrecentoquattordici interrogatori, seicentotrentacinque arringhe difensive, quattromilaseicentosettantasei anni di carcere e ventotto ergastoli richiesti dal Pubblico Ministero, la corte tornò in aula, dopo aver messo in ginocchio per la prima volta la mafia siciliana. Nel gennaio dello stesso anno però, il Consiglio superiore della magistratura preferì nominare a capo dell'Ufficio istruzione, al posto di Caponnetto il quale aveva voluto lasciare l'incarico, il consigliere Antonino Meli, piuttosto che il giudice Falcone. Meli si dimostrò incompetente in alcune situazioni e nell'autunno del 1988 sciolse il pool. Falcone chiese di essere assegnato ad un altro ufficio. Questa situazione non gli impedì di continuare a lavorare con impegno costante, infatti, sempre nel corso dell'88, concluse un'importante indagine, in collaborazione con Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di New York, che toccò notevolmente le famiglie Inzerillo e Gambino, coinvolte nel traffico di eroina. Il 20 giugno del 1989, la mafia tentò di uccidere il magistrato, piazzando una bomba in una casa nei pressi di Mondello, dove si era recato per qualche giorno di relativa tranquillità. L'attentato dell'Addaura, fu però sventato, ma le minacce continuarono con l'arrivo di lettere anonime che miravano a spaventare il giudice. Una settimana dopo l'attentato il Consiglio superiore decise la nomina di Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo. Nel gennaio '90 egli coordinò un'inchiesta che portò all'arresto di quattordici trafficanti colombiani e siciliani. In seguito, si dirigerà alla volta di Roma, presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Da lì sarebbe stato più facile far approvare le leggi che avrebbero poi consentito a magistrati e poliziotti di attivarsi più facilmente contro la mafia. A Roma Giovanni Falcone visse in un clima quasi irreale: mentre a Palermo era costretto a restare in casa per la maggior parte del tempo, a girare sempre con la scorta anche per le piccole faccende, lì aveva più libertà. La mafia però non lo perse d'occhio. Sabato 23 Maggio 1992, Giovanni Falcone arrivò in Sicilia per la mattanza di Favignana, ignaro di ciò che stava per accadere. Totò Riina infatti, boss di Cosa Nostra e capo dei capi aveva preparato l'Attentatuni, ovvero il terribile attentato che portò alla morte del giudice, della moglie e di tre agenti della scorta. INNOVATORE E’ stato tante cose Giovanni Falcone nella sua vita: un giudice, un figlio, un marito, un amico. E’ personaggio discusso, per alcuni molto odiato in vita e molto amato dopo la morte, un personaggio diffidente e schivo, ma tenace ed efficiente. E’ stato colui che ha incarnato la giustizia, il coraggio e il senso del dovere, colui che più di tutti ha subito le conseguenze delle sue azioni. Perché possiamo considerarlo un innovatore? Perché è riuscito dove nessuno aveva mai osato tentare. Falcone concepiva la lotta alla mafia come mera lotta alla mafia e non come strumento di rafforzamento del ruolo e del potere della magistratura. Falcone fu la cerniera tra due grandi generazioni: quella della magistratura che lo precedette, convinta che con la mafia si dovesse convivere e che dalla mafia si potesse trovare forza di potere; e quella della magistratura che lo seguì, la quale si convinse che la lotta alla mafia fosse essa stessa una strada di potere. Falcone lavorò nella assoluta convinzione che a un giudice non bastasse supporre, ma che il suo compito era trovare le prove e agire. Lasciò la sua impronta in ogni angolo che riuscì a raggiungere. Per esempio, per quanto riguardava la prassi giudiziaria, era d’abitudine, salvo alcune eccezioni, far viaggiare i documenti. I giudici erano stanziali. L’impostazione era di tipo burocratico e il tutto si risolveva in meri adempimenti formali. Era questa l’applicazione della cooperazione giudiziaria internazionale. Falcone rivoluzionò anche quella prassi: bisognava andare personalmente sul posto, stabilire rapporti e cercare nuovi elementi. Approfondire e conquistare la fiducia degli interlocutori: questo rappresentava il cosiddetto “turismo giudiziario”. Non si è mai accontentato, Giovanni Falcone, non si è mai fermato nemmeno quando fu isolato, umiliato e “seviziato” sia dai colleghi invidiosi e diffidenti che dalla mafia. Egli è stato l’unico magistrato che si sia occupato in modo continuo di Cosa Nostra ed è stato l’unico in grado di spiegarne i meccanismi sottostanti e capirne la sua struttura logica e funzionale. Ha mostrato interamente il processo evolutivo della mafia partendo dalla conquista di un ruolo egemonico nel traffico (compreso quello internazionale) dell'eroina grazie alla sua struttura peculiare. Falcone ha avuto idee che hanno cambiato le tecniche investigative, le procedure e l’organizzazione dello Stato, idee che hanno rivoluzionato la storia dei processi di mafia. Riuscì a scavalcare, definitivamente, lo scetticismo del popolo siciliano. Ma chi era, in sostanza, Giovanni Falcone? Era davvero il “mostro” descritto dai giornali? Certo, poteva sembrare impensabile per alcuni che la grandezza di Falcone fosse determinata esclusivamente dalla sua forza di volontà ferrea e dalla sua preparazione professionale. Falcone non era stato baciato da nessuna divinità, era un uomo semplice e normale, con i suoi pregi e difetti. Ma a lui piaceva vincere. Ed era in grado di sopportare la sofferenza pur di riuscire in quel che faceva. Allora perché appariva eccezionale e “fuori dal comune”? Semplicemente perché si discostava dal modello di magistrato che Palermo aveva fino ad allora prodotto.


1.3 IL SISTEMA GIUDIZIARIO TRA OSTILITA’ E INERZIE

La stoffa di Giovanni Falcone fu subito chiara con l’esito del processo di Rosario Spatola. Il processo al trafficante mafioso nasceva da un rapporto di polizia giudiziaria, presentato al procuratore della Repubblica Gaetano Costa. Era diventata subito una questione molto delicata, in quanto il procuratore si era esposto personalmente firmando ordini di cattura nei confronti di alcuni personaggi mafiosi coinvolti nel business legato al traffico di stupefacenti tra Sicilia e Stati Uniti. Costa fu lasciato solo nel gestire la questione. Il processo, come prevedeva il vecchio codice di procedura penale, arrivò nelle mani del giudice Rocco Chinnici che lo affidò proprio a Falcone, l’ultimo arrivato. Era l’epoca del processo cosiddetto inquisitorio (ovvero c’era un giudice che istruiva e valutava la prova) molto diverso da quello attuale, che si fonda sul modello accusatorio (ove c’è un’accusa esercitata da un soggetto distinto dal giudice). Nel codice oggi in vigore la fase istruttoria non esiste più: la prova si forma direttamente davanti al giudice; il pubblico ministero porta le prove a sostegno dell’accusa e la difesa le contrasta fornendo le proprie e il giudice decide in base al proprio convincimento. Allora invece, le prove erano messe insieme dal giudice istruttore il quale, al termine del lavoro, se riteneva di averne raccolte a sufficienza, disponeva che si celebrasse il processo vero e proprio al quale non era prevista però la sua partecipazione. Era poi il pubblico ministero che, in base ai risultati raggiunti dal giudice, sosteneva l’accusa. Questo meccanismo comportava che il vero oggetto del processo si risolvesse nella verifica della bontà della precedente attività istruttoria. Falcone era arrivato da poco a Palermo, ma Chinnici aveva già chiare le sue potenzialità. Rosario Spatola era un ex ambulante, con una fedina penale quasi immacolata. Ma in realtà Spatola era un mafioso; conquistava appalti pubblici con abbassi estremi senza mai nessuna concorrenza. Le sue imprese e i suoi cantieri, disseminati per tutta la città davano lavoro a migliaia di persone, facevano sì che Spatola venisse dipinto con una sorta di benefattore. Falcone utilizzò un nuovo metodo d’indagine: visto che per la mafia, Palermo era la base operativa di traffici che oltrepassavano anche gli oceani, lo stesso era necessario fare per le indagini corrispondenti. Gli accertamenti bancari divennero il fulcro della nuova istruttoria. I direttori delle banche di Palermo ricevettero una richiesta d’invio di tutte le distinte di cambio di valuta estera, relative a un certo periodo di tempo. Una rivoluzione. Nessuno, prima d’ora, si era mai addentrato così profondamente negli istituti di credito, ma soprattutto nessuno si era mai concentrato sulle connessioni tra un avvenimento e l’altro. Il metodo Falcone era appena nato e già risultava vincente. Purtroppo però, Giovanni Falcone fin da subito dovette fare i conti con i suoi nemici. E in questo caso non si parla di mafia, ma bensì di componenti della magistratura stessa. Si trovò isolato dalle istituzione, dai colleghi e dall’opinione pubblica e si trovò fin da subito a difendere tenacemente le sue capacità di contrasto come se fosse un novellino. Diceva spesso “Debbo sempre dare delle prove, fare degli esami”. Come si dimostrò in seguito, la mafia era insediata ovunque, Stato compreso, e la diffidenza nei confronti di quel giudice che “dava fastidio” non cessò mai. Era un magistrato “scomodo”, visto che il suo impegno nel recupero della legalità, urtava gli interessi di troppa gente. I mafiosi non erano gli unici a sentirsi danneggiati dalla sua azione di risanamento. Nonostante Giovanni Falcone sia stato fin da subito un “uomo solo” ovvero non sostenuto e non protetto dallo Stato, fece la storia. Istituì, insieme al pool antimafia, il primo processo penale contro i crimini legati alla criminalità organizzata: il maxi processo. Di importanza rilevante, nell’istituzione del maxi processo fu la collaborazione dei pentiti di mafia. Ma perché i mafiosi si pentono? Si potrebbe dire che il pentimento è un moto autonomo della coscienza e sfocia nella “conversione”. Gli episodi che lo circondavano e si moltiplicavano con progressione nell’Italia dei primi anni ’80, erano esempi di pentimento opportunistico e strumentale. Un pentimento indotto, o addirittura “estorto”, con la promessa di sconti di pena, privilegi carcerari e nella migliore delle ipotesi, di una nuova insperata e immeritata libertà. Nel febbraio del 1982, mentre in Parlamento si discuteva la cosiddetta “legge sui pentiti”, che prevedeva notevoli sconti di pena per i collaboratori di giustizia, l’onorevole Leonardo Sciascia, deputato nelle file del Partito Radicale, insorse: “Mi pare che il Parlamento, votando questa legge, si metta sotto i piedi sia i principi morali sia il diritto”. A suo dire, “bisogna anche pensare alle famiglie delle vittime. La grazia si può concepire ma ci vuole sempre un certo consenso da parte di coloro che sono stati colpiti”.


2.1 IL PRIMO COLLABORATORE DI GIUSTIZIA: TOMMASO BUSCETTA Con la cattura, nel 1983, del “boss dei due mondi” Tommaso Buscetta, la vicenda del suo pentimento si intreccia in maniera decisiva con la preparazione del maxiprocesso di Palermo contro la mafia siciliana.

Tommaso Buscetta, sentendosi minacciato dai suoi avversari corleonesi che gli avevano ucciso parenti e figli, chiese di parlare con Giovanni Falcone, il magistrato palermitano che lo aveva già interrogato a Brasilia, quando Buscetta era là detenuto. Il giudice era noto al capo mafia  per la pessima reputazione che godeva all’interno di Cosa Nostra, il che lo predisponeva favorevolmente nei suoi confronti. Quando si incontrarono di nuovo nell’estate del 1984, Buscetta fu colpito dalla gentilezza e dall’interesse profondo e genuino che Falcone dimostrò. Era chiaro che il giudice voleva innanzitutto capire. Non era il burocrate annoiato e distratto che ascoltava solo per il tempo necessario  per ottenere la conferma o meno di un fatto o un nome. Falcone era assetato di dettagli; Buscetta ammirava quest’uomo che era lo Stato come dovrebbe essere e cioè superiore a Cosa Nostra. Falcone aveva affermato che i mafiosi si pentono per diversi motivi e Buscetta, in particolare, aveva deciso di collaborare con la giustizia perché non condivideva i crismi della “nuova” mafia, lontana anni luce dall’ideologia e dalla nobiltà della “vecchia”.  Nel primo incontro ufficiale coi giudici del pool antimafia dichiarò candidamente: “Non sono un infame. Non sono un pentito. E non sono una spia, né un informatore, né un criminale che prova piacere a infrangere le leggi e sfruttare gli altri. Non mi considero una spia perché parlo in pubblico, davanti alla legge e alla gente, e non di nascosto. Non sono un informatore perché non ho venduto le mie dichiarazioni, come fanno  confidenti con la polizia. Quando ho deciso di parlare  ho chiesto solo che garantissero sicurezza e protezione ai miei familiari. Sono stato mafioso e mi sono macchiato di delitti per i quali sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia, senza pretendere sconti né abbuoni di qualsiasi tipo. Invece, intendo rivelare tutto quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia , affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano”. Buscetta non tradì la sua famiglia mafiosa. Si pentì quando la sua famiglia perse la guerra interna che si era scatenata e di cui lo stesso Buscetta era stato una delle vittime perché alcuni dei suoi più stretti congiunti erano caduti sotto il i Corleonesi. La ragione del contendere era stata la droga. I Corleonesi avevano capito che quello sarebbe stato il gigantesco affare del futuro, ma Buscetta non voleva che la mafia entrasse su quel mercato. Questa, così disse, fu la ragione di quella guerra.

Buscetta non era “l’angelo sterminatore” che incombe sulla mafia siciliana e internazionale era solo desideroso di far presto e tornarsene negli Stati Uniti, per scansare i pericoli che chi parla corre in Italia. La mentalità di Buscetta è perfettamente mafiosa; dalla parte della legge continuava a muoversi come avrebbe fatto dentro una famiglia ancora capace di far qualcosa: restituì i colpi ricevuti, si vendicò. Ed fu per questo credibile in quello che rivelò al magistrato. CONOSCERE LA MAFIA Prima del lavoro svolto da Falcone, Borsellino e gli altri magistrati del pool antimafia, l’organizzazione della mafia era un vero e proprio mistero. La mafia infatti non si poteva combatte senza conoscerla, senza coglierne la valenza storica e sociale, senza studiare il contesto in cui si sviluppa; e non si poteva combatte senza violare “i santuari del potere”, senza scardinare cioè, il sistema di protezioni, collusioni, compiacenze che tutt’ora la avvolge e la difende. Per i mafiosi quei due magistrati, furono sin da subito troppo pericolosi. Falcone, come Borsellino, era cresciuto alla Kalsa, un quartiere storico del centro di Palermo, insieme a coetanei che sarebbero diventati appartenenti di “Cosa Nostra”. Anche per questo erano nemici pericolosi per la mafia. Falcone sapeva decifrare il linguaggio mafioso, decrittare allusioni e comportamenti; sapeva che ogni piccolo particolare era pregno di un preciso significato. Insomma combatteva un mondo che conosceva perfettamente. Anche per questo era riuscito per primo a far parlare i pentiti i quali avevano consentito numerosi successi. Sapeva inoltre che per guadagnare la fiducia di chi aveva deciso di rompere l’omertà era indispensabile rispettare la dignità del mafioso e non dare mai neppure l’impressione di voler piegare i fatti raccontati ad una tesi, ad una convenienza. Chiunque lo avesse fatto avrebbe perso il rispetto di questi uomini e da quel momento ci si sarebbe potuto aspettare da loro solo inganni e bugie. Buscetta disse “Era il mio faro, il giudice Falcone. Ci capivamo senza parlare. Era intuito e intelligenza, onestà e voglia di lavorare”.

Il 10 febbraio 1986 iniziò il maxiprocesso nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone che si concluse il 16 dicembre 1987, dopo quasi due anni dall’inizio del dibattimento. In questa occasione, per la prima volta, il giudice Falcone utilizzò il concetto di “convergenza”. 

La parola era stata usata anche precedentemente per indicare l’esistenza di scopi che accumunavano la mafia e qualche altra entità. Ma il maxiprocesso segnò anche su questo piano, una vera e propria discontinuità. L’ennesima innovazione. Questo termine acquisì un ruolo decisivo per spiegare alcuni delitti della mafia. I giudici istruttori parlarono di “interessi convergenti”. Cosa significava ciò? Significava che i delitti, se non avessero avuto coperture operative e giudiziarie assicurate da parte delle istituzioni e dei politici, non sarebbero stati compiuti. Ancora peggio, si poteva dire che alcuni delitti non sarebbero stati compiuti spontaneamente dalla mafia se non fossero stati suggeriti da soggetti esterni, sempre per interessi propri. La Corte d’assise di Palermo diede ragione all’accusa pronunciando verdetti di colpevolezza per oltre 300 mafiosi per un totale di 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. Una svolta storica nella lotta alla mafia, un successo senza precedenti. Con il clamoroso risultato del maxiprocesso, Falcone e Borsellino siglarono probabilmente la loro condanna a morte.

LE CONSEGUENZE DEL MAXIPROCESSO Dopo la sentenza del maxiprocesso: Meli preferito a Falcone Nei giorni successivi alla sentenza, i giornali che appoggiavano i magistrati proclamarono la fine del mito secondo il quale la mafia era una componente invincibile e inestirpabile della cultura siciliana. La sentenza del maxiprocesso rappresentò la prova del nove del lavoro svolto dai giudici del pool. Falcone si preoccupava però di sottolineare che il maxiprocesso non era nulla di più che un buon punto di partenza nella battaglia contro Cosa Nostra. All’interno della magistratura si manifestò un’insidiosa opposizione a Falcone. Dopo la sentenza del maxiprocesso Antonino Caponnetto decise di tornare a Firenze. Il posto andò ad Antonino Meli, un magistrato a due anni dalla pensione che non aveva alcuna esperienza in materia di processi di mafia. Fu sufficiente appena un mese per cancellare tutto, per eliminare il pool antimafia. La sconfitta personale del giudice Falcone era indiscutibile. Caponnetto disse che Falcone iniziò a morire nella notte del 18 gennaio 1988 quando Meli diventò Consigliere istruttore al posto suo. Tutto ciò fu il frutto di una strategia costruita a tavolino per sconfiggere Falcone. Lo stillicidio di attacchi e di sospetti avanzati, come pure le accuse di rampantismo per le amicizie politiche, contribuirono a creare un clima di pesanti condizionamenti; Falcone si sentiva isolato e ostacolato. Si stava attuando il “progetto normalizzatore”, che rendeva vano tutto il lavoro effettuato fino ad ora dal pool antimafia. Meli, in sintonia con la linea del giudice Corrado Carnevale, assecondò la tesi della mafia vista come un’ associazione di bande senza una strategia o un obiettivo preciso, negando cosi il principio cardine che aveva portato ai successi contro la mafia: l’unicità di Cosa Nostra. Inoltre Meli, ormai in aperto contrasto con Falcone, sciolse ufficialmente il pool. Un mese dopo, Falcone ebbe l'ulteriore amarezza di vedersi preferito Domenico Sica alla guida dell'Alto Commissariato per la lotta alla Mafia. Nonostante gli avvenimenti, tuttavia, Falcone proseguì ancora una volta il suo straordinario lavoro, realizzando un'importante operazione antidroga in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di New York 2.2.2 L’attentato all’Addaura Niente riusciva a fermare il magistrato Falcone, nemmeno le continue umiliazioni subite. Cosa Nostra allora, architettò qualcosa che aveva come fine ultimo l’eliminazione del suo nemico più agguerrito; sarà poi l’avvenimento che paleserà il terrore di Cosa Nostra nei confronti del giudice Falcone. Il segno dell’innovazione che il giudice lasciò a livello culturale. Erano i primi giorni di giugno del 1989 e un Corvo, che conosceva tutti i segreti del Palazzo di Giustizia di Palermo, accusò Giovanni Falcone di aver manovrato un sicario, “un killer di Stato”. Era chiaramente una calunnia, ma era la mossa giusta per screditare davanti all’opinione pubblica la figura del magistrato che per molti personaggi in Sicilia è fonte di grande pericolo. La storia ha il suo principio quando, nel maggio dell’89, venne catturato Salvatore Contorno, un pentito di mafia. Contorno viveva nascosto nella provincia di Roma, sotto protezione, ma in quei giorni raggiunse Palermo per colpire i suoi nemici di cosca. Ma come arrivò a Palermo? Contorno era riuscito a eludere i controlli della polizia, anche se qualcuno non si trattenne nel dichiarare che fosse stata proprio la polizia a “sguinzagliarlo” per stanare Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra. Il tutto, con l’autorizzazione di Falcone. La notizia di Contorno a Palermo era assolutamente segreta, quindi si deduce che il Corvo fosse qualcuno tra i pochi a conoscenza di informazioni private: dopo un paio di settimane viene individuato nel sostituto procuratore della Repubblica Alberto di Pisa. La figura di Falcone però ormai era macchiata ulteriormente; venne accusato di fare il gioco sporco utilizzando un mafioso contro altri mafiosi. Si diceva che fosse andato fuori dalle regole, che non fosse un vero giudice ma uno “sbirro”. Fu il movente ideale per ucciderlo. Per eliminare una volta per tutte colui che aveva già largamente messo a repentaglio l’organizzazione di Cosa Nostra. Alcuni “uomini d’onore” piazzarono cinquantotto candelotti di esplosivo nei pressi della spiaggetta antistante la villa del giudice che prendeva d’affitto in estate, intuendo che prima o poi il magistrato vi si sarebbe diretto per un bagno. In effetti questo avvenne, ma le bombe, presumibilmente controllate da un comando a distanza, non esplosero. All'epoca ciò fu attribuito ad un fortunato caso (si parlò di un malfunzionamento del detonatore). Falcone capì subito che non era un semplice “avvertimento”, e soprattutto capì anche che ad organizzare l’attentato non furono solo i boss di Cosa Nostra: mafia ma non solo mafia, apparati dello Stato, servizi segreti. Dopo l’Addaura Falcone era controllato a vista. Il culmine della mortificazione, dei sospetti: il giudice non sapeva più cosa fare. Cosi nel 1990, pensò di candidarsi al Csm: per trovare una collocazione temporanea e per prendere una boccata d’ossigeno dopo le tante sconfitte subite; inoltre era convinto che all’interno del Consiglio avrebbe potuto operare nel modo migliore e continuare la sua battaglia antimafia. Ma Falcone ne uscì sconfitto anche questa volta, bocciato dai suoi stessi compagni. Dopo l’ennesima delusione Falcone maturò la decisione di accettare la proposta che gli veniva da Roma di dirigere gli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. 2.2.3 La creazione della DIA

Il 1991 fu un momento in cui le sorti del movimento antimafia subirono uno spettacolare rovesciamento. Falcone venne chiamato da Claudio Martelli, ministro di Grazia e di Giustizia, ad assumere il compito di Direttore degli affari Penali al ministero, con la responsabilità di coordinare a livello nazionale la lotta contro la criminalità organizzata. Il suo principale obiettivo fu la creazione di due organismi nazionali che sono tuttora i pilastri dell’azione contro il crimine organizzato: la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) e la DNA (Direzione Nazionale Antimafia). Lavorando al centro, ossia a Roma, Falcone riuscì a fare ciò che gli era stato impedito di fare a Palermo: creare una visione unificata non soltanto di Cosa Nostra, ma dell’intero mondo del crimine organizzato italiano. L’idea era di un organismo nazionale che coordinasse le indagini fra le varie procure. Falcone volle che la nascita dell’organismo giudiziario fosse accompagnata dalla creazione della DIA. Questo organismo, formato da polizia, carabinieri e guardia di finanza, secondo la legge istitutiva si occupava in via esclusiva di tutte le indagini antimafia. 

Con il ministro Martelli c’era intesa, tanto che egli diede il via libera per un “pacchetto antimafia”. Venne annunciata quindi l’istituzione della Superprocura. Ma, ancora una volta, la magistratura italiana si rivoltò contro Falcone: per il posto di procuratore venne scelto Agostino Cordova, colui che aveva appena concluso due inchieste: una sulla massoneria e l’altra su alcuni scandali di socialisti in Calabria. Ma Falcone, inutile dirlo, non mollò. Presentò a Martelli il suo “piano”: confische dei beni, carcere duro per i boss mafiosi e una legge sui collaboratori di giustizia. Il ministro della Giustizia costrinse il presidente del consiglio Giulio Andreotti a far approvare il pacchetto anti-mafia e anche la “spedizione” dei capi di Cosa Nostra nei carceri dell’Asinara e di Pianosa. Il governo era presieduto da Andreotti, l’uomo politico che garantiva da anni gli interessi della mafia siciliana che alimentava i suoi voti. Buscetta riferì infatti al giudice Falcone che il presidente del Consiglio “è il referente di Cosa Nostra”. Per assurdo, il governo Andreotti verrà poi ricordato come l’esecutivo che ha approvato le più severe leggi antimafia della storia della Repubblica Italiana. Il maxiprocesso aveva superato, nel frattempo, il vaglio del giudizio di primo e secondo grado, mostrando la solidità del suo impianto e la grande professionalità dei magistrati che ci avevano lavorato. Falcone portò al Ministero, non solo la sua grande conoscenza delle questioni di criminalità organizzata, di mafia, ma anche uno spirito nuovo. Senza di lui, questo è certo, non ci sarebbero state probabilmente molte delle iniziative che assunte successivamente dal ministro di Grazia e di Giustizia in quel periodo: i provvedimenti antiracket, le leggi sui collaboratori di giustizia, la Procura Nazionale Antimafia, il carcere duro per i mafiosi, il coordinamento internazionale con le polizie e le magistrature europee e con quella americana. Sempre in quell’anno, nell'audizione davanti al Csm del 15 ottobre 1991, Falcone richiamava la sua tesi sui tre livelli dei reati, altro concetto che diede modo a chiunque lo volesse di riversarsi contro di lui. In una relazione del giugno 1982, presentata a un seminario del Consiglio superiore della magistratura, aveva parlato di tre livelli di reati e considerava reati del terzo livello “delitti che mirano a salvaguardare il perpetuarsi del sistema mafioso in genere (si pensi ad esempio all'omicidio di un uomo politico, o di altro rappresentante delle pubbliche istituzioni, considerati pericolosi per l'assetto di potere mafioso). La distinzione, per effetto della disinformazione e della superficialità dei media, doveva essere applicata all'organizzazione mafiosa, rappresentata come un edificio a tre piani o livelli: il primo costituito dagli esecutori dei delitti, il secondo dai capi, il terzo da un vertice politico-finanziario, una sorta di supercupola. E’ doveroso ricordare le polemiche degli ultimi anni di vita di Falcone, gli attacchi di tanti che di fronte alle affermazioni con cui rifiutava quella rappresentazione sostenevano che così negava l'esistenza del rapporto tra mafia e politica, che teneva chiuse nei cassetti le prove di quel rapporto ecc. ecc. Quelle polemiche, per il modo in cui furono condotte, rientrano tra le vergogne nazionali, ma sono ancora più vergognose le santificazioni di Falcone dopo la sua morte da parte di molti che da vivo gli davano del traditore. Ai molti che da denigratori si sono trasformati in santificatori sono preferibili i pochi che se avevano critiche da fare a Falcone, le facevano quando era vivo e continuano a farle anche dopo la sua morte. In una relazione del 1989 Falcone si era premurato di esplicitare il suo pensiero: “Al di sopra dei vertici organizzativi non esistono "terzi livelli" di alcun genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa Nostra. Ovviamente, può accadere ed è accaduto che, in determinati casi e a determinate condizioni, l'organizzazione mafiosa abbia stretto alleanze con organizzazioni similari ed abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo non disinteressatamente; gli omicidi commessi in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la dimostrazione più evidente di specifiche convergenze di interessi fra la mafia ed altri centri di potere. Cosa Nostra, però, nelle alleanze non accetta posizioni di subalternità; pertanto è da escludere in radice che altri, chiunque esso sia, possa condizionarne o dirigerne le attività. E in tanti anni di indagini specifiche sulle vicende di mafia, non è emerso nessun elemento che autorizzi nemmeno il sospetto dell'esistenza di una "direzione strategica" occulta di Cosa Nostra. Gli uomini d'onore che hanno collaborato con la giustizia, alcuni dei quali figure di primo piano dell'organizzazione, ne sconoscono l'esistenza. E se è vero che non pochi uomini politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di "Cosa Nostra", è pur vero che in seno all'organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione politica. Insomma Cosa Nostra ha tale forza, compattezza ed autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia mai però in posizioni di subalternità”.

Ritornando al 1991, davanti al Csm il giudice Falcone commentava: “Devo dedurre che non si è voluto comprendere questo, perché si continuano a fare queste affermazioni ad effetto: "Falcone ha cambiato idea! Prima parlava del terzo livello, ora non ne parla più". Io aggiungo qualcos'altro. Affermo che non parlare di un terzo livello non è un fatto benefico a favore della classe politica, perché magari ci fosse un terzo livello! Basterebbe una sorta di Spectra, basterebbe James Bond per togliercelo di mezzo. Ma purtroppo non è così. Abbiamo dei rapporti molto intensi, molto ramificati e molto complessi. Questo è il punto cruciale su cui bisogna lavorare. Questo ho sostenuto allora e devo dire che questi anni mi hanno sempre più rafforzato in questa idea.”

2.3 L’ATTENTATUNI Purtroppo, l’enorme lavoro svolto personalmente da Giovanni Falcone si concluse qui. Infatti, il 23 maggio 1992 il giudice stava tornando a Palermo, come era solito fare nei fine settimana, da Roma. Il jet di servizio partito dall'aeroporto di Ciampino intorno alle 16:45 arrivò a Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Lo attendevano tre Fiat Croma blindate, con un gruppo di scorta sotto il comando dell'allora capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera. Appena sceso dall'aereo, Falcone si sistemò alla guida della Croma bianca e accanto prese posto la moglie Francesca Morvillo mentre l'autista giudiziario Giuseppe Costanza andò ad occupare il sedile posteriore. Nella Croma marrone c'era alla guida Vito Schifani, con accanto l'agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra c’erano Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. In testa al gruppo c’era la Croma marrone, poi la Croma bianca guidata da Falcone, e in coda la Croma azzurra. Alcune telefonate avvisarono i sicari che avevano sistemato l'esplosivo per la strage della partenza delle vetture. Le auto lasciarono l'aeroporto imboccando l'autostrada in direzione Palermo. La situazione pareva tranquilla, tanto che non vennero attivate neppure le sirene. Su una strada parallela, una macchina guidata da Gioacchino La Barbera si affiancò alle tre Croma blindate, per darne segnalazione ai killer in agguato sulle alture sovrastanti il litorale; furono gli ultimi secondi prima della strage.

Otto minuti dopo, alle ore 17:58, una carica di cinque quintali di tritolo posizionata in una galleria scavata sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci - Isola delle Femmine venne azionata per telecomando da Giovanni Brusca, il sicario incaricato da Totò Riina. Pochissimi istanti prima della detonazione, Falcone si era accorto che le chiavi di casa erano nel mazzo assieme alle chiavi della macchina, e le aveva tolte dal cruscotto, provocando un rallentamento improvviso del mezzo. Brusca, rimasto spiazzato, premette il pulsante in anticipo, sicché l'esplosione investì in pieno solo la Croma marrone, prima auto del gruppo, scaraventandone i resti oltre la carreggiata opposta di marcia, e su fino ad una zona pianeggiante alberata; i tre agenti di scorta morirono sul colpo. La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schiantò invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio. Falcone e la moglie, che non indossavano le cinture di sicurezza, vengono proiettati violentemente contro il parabrezza. Rimasero feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resistette, e si salvarono miracolosamente anche un'altra ventina di persone che al momento dell'attentato si trovavano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell'eccidio. L'Italia intera, sgomenta, trattenne il fiato per la sorte delle vittime con tensione sempre più viva e contrastante, sicché alle 19:05, ad un'ora e sette minuti dall'attentato, Giovanni Falcone muore dopo alcuni disperati tentativi di rianimazione, a causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne. Francesca Morvillo morirà anch'essa, intorno alle 22.

Insieme allo scoppio della bomba di tritolo ci fu il terremoto. L’epicentro era lì, allo svincolo autostradale per Capaci dove alle 17,58 del 23 maggio 1992 si aprì il cratere che inghiottì Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta, ma gli effetti arrivarono fino a Roma. Nei palazzi del potere. E proseguirono con la strage che due mesi dopo dilaniò Paolo Borsellino e cinque agenti che avrebbero dovuto sorvegliare sulla sua sicurezza: la scossa di assestamento. Vent’anni fa la mafia ha ucciso Falcone, ma ha pure cambiato il corso della politica italiana. A cominciare dall’elezione del nuovo presidente della Repubblica avvenuta quarantotto ore dopo l’eccidio, e senza l’esplosione chissà quanto si sarebbe andati avanti e con quali risultati. Le conseguenze del terremoto, quasi uno tsunami, si trascinano ancora oggi con le polemiche sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia avviata tra una bomba e l’altra, e con indagini che anziché chiarire i punti oscuri sembrano indicare ogni volta nuovi buchi neri. Gli esecutori materiali della strage sono stati in gran parte individuati, manca ancora qualche frammento che i magistrati stanno tentando di colmare dopo le ultime dichiarazioni di nuovi pentiti, e così i mandanti di Cosa nostra. A differenza di quello di via D’Amelio , quello di Capaci è un attentato quasi «limpido». Organizzato per regolare i conti tra l’organizzazione criminale forse in quel momento più potente al mondo e il magistrato che più di tutti l’aveva compresa e combattuta, ottenendo risultati giudiziari mai raggiunti prima. Questo è sicuro, ma forse c’è dell’altro. Perché un regolamento di conti si poteva realizzare facendo molto meno scruscio, come dicono in Sicilia, meno rumore, e con conseguenze meno negative per la mafia. Invece i boss hanno deciso di agire in quel modo, pagando un prezzo molto alto: per questo si può sospettare che oltre alla mafia ci sia stato altro dietro le stragi. Se così fosse, ci si può solo augurare che si scopra. Non sarà facile, nella patria dei tanti misteri politico-criminali. L’altro dato certo è che con il terremoto si realizzò un tragico paradosso: la bomba tolse dalla circolazione Giovanni Falcone, ma insieme gli consentì di recuperare il rispetto di un Paese che fino a quel momento gliel’aveva negato. Mostrando nei suoi confronti diffidenza, sfiducia e perfino ostilità. Nel ventesimo anniversario di quel terremoto, sarà bene tenere a mente questa triste stranezza. Prima di essere assassinato in un modo che ha fatto capire al mondo intero chi fosse, Giovanni Falcone ha subito molte sconfitte. Troppe. Cominciate subito dopo la sentenza di primo grado al maxi-processo che lui e Borsellino avevano messo in piedi con grande sapienza, scrivendo l’ordinanza di rinvio a giudizio chiusi nel super-carcere abbandonato dell’Asinara perché nella Palermo dove i poliziotti antimafia venivano ammazzati come mosche non era possibile garantire la loro sicurezza. Mentre la corte d’assise infliggeva ergastoli e migliaia di anni di carcere agli imputati portati alla sbarra da Falcone, il Consiglio superiore della magistratura decideva che al posto di capo dell’ufficio istruzione non doveva andare lui, ma un altro magistrato, che di mafia sapeva poco o niente. Come già detto, Falcone aveva già subito un attentato nel 1989, quello fallito sugli scogli della villa all’Addaura, che lui ascrisse a «menti raffinatissime», mafiose o meno che fossero; molti dubitarono dell’autenticità di quel progetto e la repentina nomina a procuratore aggiunto di Palermo fu quasi un collettivo lavaggio delle coscienze. Sono stati necessari cinquecento chili di tritolo sotto un pezzo di autostrada per far cessare gli attacchi contro Giovanni Falcone. E’ bene non dimenticarlo, nelle commemorazioni che giustamente illustreranno i successi del giudice antimafia per eccellenza, e ne tesseranno le lodi. Perché è vero che è “beato quel Paese che non ha bisogno di eroi” , ma ancora più beato sarebbe quel Paese che non ha bisogno di eroi celebrati solo dopo la morte, mentre in vita erano disconosciuti e osteggiati. E c’è dell’altro. Sia il concorso esterno sia la legge sui pentiti, sono traguardi che sono stati raggiunti “dopo”. Cosa significa? Significa che Falcone, cosi come Borsellino e tutti coloro che hanno combattuto contro la mafia, sono dovuti morire per ottenere dei veri risultati. Falcone cominciò da subito, appena messo piede in magistratura, a rivoluzionare larga parte delle tecniche giudiziarie applicate ai reati mafiosi. Ma ancora prima di questo, fece una cosa ancora più importante: rese effettiva l’esistenza della mafia. Giovanni Falcone fu l’artefice di un’innovazione culturale. Provare l’esistenza della mafia e riconoscerla come nemica, fu il primo passo essenziale per la lotta ad essa. Sempre da Falcone, deriva l’innovazione di tipo investigativa: fu il primo ad interessarsi degli spostamenti di denaro anche transoceanici, partendo dal caso Spatola. Intuì l’importanza dei collegamenti, di come essi potessero aiutare a risolvere più casi collegati tra loro. Istituì il maxiprocesso, mediante l’aiuto dei pentiti, mafiosi che acconsentirono a parlare, ma solo con lui. Riuscì ad ottenere l’approvazione del decreto legge per l’incarcerazione dei boss mafiosi. L’attentato all’ Addaura fu proprio il segnale chiaro e forte, molto forte, che anche Cosa Nostra aveva paura dell’uomo che era Falcone: l’unico uomo che potesse far paura a quella gente. L’unico uomo che fu capace di una rivoluzione. Con la sua morte si ottenne la legge riguardante i pentiti, il concorso esterno per associazione mafiosa venne classificato e riconosciuto come reato. Falcone non si è fermato neanche dopo la strage.

Sono passati vent’anni dall’assassinio di Giovanni Falcone e l’ Italia, si sente ripetere spesso, è un Paese senza memoria. Un Paese in cui la giustizia non funziona perché non riesce ad accertare le responsabilità. Un Paese in cui il torto e la ragione, i carnefici e le vittime, il male e il bene si confondono in un’immensa zona grigia, popolata da gente in attesa di capire chi vincerà e quindi da quale parte schierarsi. Almeno nel caso di Giovanni Falcone si può dire che non è andata così. “Il 23 maggio e il 19 luglio 1992 - giorno della morte di Paolo Borsellino, collega e amico che ha combattuto quanto e al fianco Falcone, e per questo i due nomi, Falcone e Borsellino, vanno spesso citati e nominati come se fossero uno - non sono due date da ricordare come anniversari di morte, ma come celebrazioni di vite” ha scritto Giuseppe Ayala , ricordando i due colleghi con cui istruì il maxiprocesso di Palermo alla mafia.

Falcone e Borsellino sono vivi perché la foto più vista in questi vent’anni in Italia è quella che li vede uno accanto all’altro, a un convegno, mentre sorridono e si parlano all’orecchio. Sono vivi perché pure i giovani che non li hanno mai conosciuti ricordano - caso rarissimo - i loro nomi. Sono vivi perché l’albero sotto casa di Falcone è diventato uno dei simboli della Palermo di oggi, anche se è mal tollerato dalla Palermo che con la mafia ha sempre convissuto, anzi proprio per questo. Sono vivi non perché siano due immaginette sacre destinate a mettere tutti d’accordo, ma perché il loro martirio - in senso letterale: testimonianza - continua a non lasciare indifferenti, a mettere ognuno di fronte alle proprie responsabilità, a scegliere un campo: o con le mafie o con lo Stato, o con la criminalità organizzata o contro. Scrive Buscetta “ Una telefonata del dottor De Gennaro mi comunicò che Giovanni Falcone era saltato in aria a Capaci insieme alla moglie. La notizia per me è stata terribile. Quel giorno ho visto cadere al suolo n grande albero, il più alto e forte della foresta”. Vent’anni dopo, si può dire che la loro lezione sia integra, intatta. I loro nomi sono familiari a più generazioni, come non accade quasi mai. Sono molte le scuole, le associazioni, le strade, le iniziative dedicate alla loro memoria. I loro familiari hanno tenuto vivo il ricordo senza mai cedere a quel rancore che talora avvelena le vite dei sopravvissuti. I loro allievi nei palazzi di giustizia e anche tra le forze dell’ordine (molti dirigenti di ps alla guida delle principali questure italiane hanno lavorato con Falcone e Borsellino) hanno inflitto duri colpi alle mafie. La battaglia non è certo vinta, la criminalità organizzata si infiltra al Nord, investe all’estero, ottiene la collaborazione di prestanome ed esperti negli ambienti più impensati. Però il rifiuto dell’omertà, del pizzo, del racket, dell’usura, dell’umiliazione, del silenzio ha messo le radici nella società meridionale, e non solo. L’eredità di Falcone e Borsellino è ad esempio in iniziative che un tempo non sarebbero state possibili. Sono molti i libri ispirati alla loro morte e alla loro lezione. Alcuni sono stati scritti da giornalisti del Corriere, come Giovanni Bianconi, che con Gaetano Savatteri ha ricostruito la fine di Falcone in “L’attentatuni”, inchiesta divenuta serie tv. Storia di Giovanni Falcone è la biografia firmata da Francesco La Licata della Stampa, grande reporter di mafia che al magistrato fu molto vicino. Tanto è rimasto del giudice Falcone, come scrive Ayala, “Falcone se n’è andato. L’albero è rimasto. E mi piace credere che sia diventato un simbolo perché qualcuno ha pensato a quante volte si sono posati su di lui gli occhi di Giovanni. Attraverso quell’albero sentiamo che ci continua a guardare. Ed è molto dolce e consolante sentirsi addosso quello sguardo che nessuno riuscirà mai a spegnere. Perché ci sarà sempre qualcuno che lo terrà vivo”.


BIBLIOGRAFIA

- Arlacchi P., Addio Cosa Nostra, Milano, Rizzoli, 1994

- Ayala G., Chi ha paura muore ogni giorno, Milano, Mondadori, 2008

- Bolzoni A., Uomini soli, Roma, Melampo Editore, 2012

- Caponnetto A., I miei giorni a Palermo ( con Saverio Lodato), Milano, Garzanti, 1992

- Cavalli A., Incontro con la sociologia, Bologna, Il Mulino, 2001

- Dalla Chiesa F., La convergenza, Milano, Melampo, 2010

- Falcone G. (in collaborazione con Marcella Padovani), Cose di Cosa Nostra, Milano, Rizzoli, 1991

- Grasso P., Per non morire di mafia, Milano, Sperling & Kupfer, 2009

- La Licata F., Storia di Giovanni Falcone, Milano, 2002