Strage di Via Palestro

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L’esecuzione della strage di Milano è rimasta praticamente oscura nelle modalità di esecuzione e in parte negli autori[1].


La Strage di Via Palestro fu un attentato mafioso avvenuto il 27 luglio 1993 ad opera di Cosa Nostra a Milano, in cui persero la vita cinque persone: i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, il vigile urbano Alessandro Ferrari ed il venditore ambulante Driss Moussafir.

Via Palestro a Milano, dopo l'esplosione

La Strage

La dinamica

Alle 22:45 circa del 27 luglio 1993 una giovane donna, bionda, sui trent'anni, venne vista parcheggiare una Fiat Uno in via Palestro a Milano, di fronte al Padiglione di Arte Contemporanea. Secondo la testimonianza di due passanti, la donna risalì su un'altra vettura insieme ad altri due uomini.

Alle 22:55 l'auto di pattuglia della Polizia Locale con a bordo Alessandro Ferrari e Catia Cucchi venne fermata da una coppia di passanti, che li avvisava che da una Fiat Uno targata MI7P2498 parcheggiata di fronte al PAC fuoriusciva del fumo bianco. Ferrari scese dall'auto ed effettuò un veloce sopralluogo: dopo aver verificato che poteva trattarsi di un principio di incendio, non essendoci fiamme ma solamente un denso fumo bianco, insieme alla collega avvertì via radio la propria sala operativa, chiedendo l'invio di una pattuglia dei Vigili del Fuoco. Poco dopo, alle 23:05, arrivò sul posto la squadra di Via Benedetto Marcello, che constatò come ci fosse solo molto fumo. Aperto il cofano, la squadra notò un pacco nastrato con lo scotch e dei fili elettrici. Scattò subito l'allarme bomba e si decise di evacuare la zona, bloccando la strada e le auto in transito.

Mentre le sale operative venivano avvertite per l'invio degli artificieri, alle 23:14 un'esplosione violentissima fece saltare in aria l'auto e uccise Ferrari, La Catena, Pasotto e Picerno, lasciando feriti gli altri. Driss Moussafir, venditore ambulante di origine marocchina, venne colpito e ucciso da un pezzo di lamiera mentre dormiva su una panchina vicina.

L'onda d'urto dell'esplosione frantumò i vetri delle abitazioni circostanti, distrusse il muro del Padiglione d'Arte Contemporanea e danneggiò la vicina Galleria d'Arte Moderna. La deflagrazione provocò, nella notte, verso le 4 e mezzo del mattino, un'altra esplosione dovuta alla rottura di una tubatura sotterranea del gas, che provocò ulteriori danni al Padiglione, alle opere d'arte al suo interno e anche alla vicina Villa Reale.

Antefatti e possibili cause

La strage si inserisce formalmente nel clima di contrapposizione frontale tra lo Stato e Cosa Nostra, scaturito dalla sentenza definitiva del Maxiprocesso di Palermo, ma anche in quello della Trattativa Stato-mafia. Come per la Strage di Via dei Georgofili, l'obiettivo di Cosa Nostra era colpire il patrimonio artistico e culturale italiano per costringere lo Stato alla resa.

La fase preparatoria

Il racconto di ciò che avvenne risultò dalle testimonianze di numerosi pentiti che parteciparono alla stagione stragista, e precisamente dai collaboratori di giustizia Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco[2].

Il 21 luglio 1993 Pietro Carra ricevette la richiesta da parte di Cosimo Lo Nigro e Salvatore Giuliano di effettuare un viaggio al Nord, e precisamente ad Arluno, in provincia di Milano. La sera stessa vennero caricate sul camion due balle di esplosivo e un involucro a forma di “salsicciotto” e intorno alle 21,30 Pietro Carra in compagnia di Cosimo Lo Nigro partì per Arluno. Giunsero ad Arluno la mattinata del 23 luglio 1993.

Giunti ad Arluno, nella piazzetta del paese vennero raggiunti da un uomo, mai identificato, che li condusse in una stradina di campagna dove scaricarono l’esplosivo. Pietro Carra ritornò a Palermo il 30 luglio 1993, lasciando Cosimo Lo Nigro a Milano.

"Ho fatto tutta io la strada. Strada facendo lui fece qualche telefonata perché avevamo, come diceva lui, un appuntamento con una persona nella piazzetta di Arluno dove c’era per segnale una panchina in questa piazzetta. […] Io gli stavo domandando se lo conosceva e facevamo tutto questo discorso, si alzò, dice: è qua. […] Siamo arrivati sul posto. Vicino c’era una stradina di campagna, sono entrato a marcia indietro, ho alzato il ribaltabile. Loro hanno sceso i pacchi." [3]

Gli esecutori

Informazioni ulteriori, oltre a Lo Nigro le diede Antonio Scarano, che riferì notizie apprese da uno scambio di battute tra Lo Nigro e Francesco Giuliano a Roma il 27 luglio 1993. Il primo, infatti, chiese all'altro se “avesse lasciato tutto a posto” a Milano e inoltre aggiunse che proprio quella sera sarebbero successe “cose eclatanti” nella città:

Cosimo ci ha detto se a Milano aveva lasciato tutto a posto e se le cose andavano come lui ci aveva detto. Giuliano ci ha detto, dice: Si, tutto va bene, all'orario, non ci sono problemi, e così via. Ci ha detto cosa hanno mangiato, dove hanno dormito, queste cose così.[4]

Subito dopo gli attentati gli stessi commentarono le esplosioni avvenute, rammaricandosi del fatto che la bomba a Milano fosse scoppiata con un’ora di anticipo rispetto a Roma, mandando a monte la programmata contestualità degli attentati e 150 metri più avanti:

Parlavano fra di loro, dopo lo scoppio, che è scoppiata, l’hanno fatta scoppiare un’ora prima o un’ora e mezza... un’ora prima o qualcosa del genere. Doveva scoppiare tutto a mezzanotte, sia a Roma che a Milano. E non doveva scoppiare lì dove è scoppiato, bensì doveva scoppiare circa 150 metri più avanti. Quelle erano cose che discutevano loro.[5]

È assai probabile quindi che Lo Nigro si fosse fermato a Milano per organizzare l’attentato prima di arrivare a Roma il 26 luglio 1993 in compagnia di Giuliano. Inoltre a Milano era presente anche Gaspare Spatuzza all'arrivo di Lo Nigro e Carra.

Era il Padiglione d'Arte Contemporanea l'obiettivo?

Anche per via delle testimonianze rese durante il processo circa "il vero obiettivo" distante 150 metri dall'esplosione, si è ipotizzato che l'obiettivo reale potesse essere la "Galleria di Arte Moderna", che dista effettivamente 150 metri dal PAC. Va anche detto che all'epoca il PAC era comunque ritenuto una delle istituzioni più in vista a Milano, avendo sede nelle scuderie della settecentesca Villa Belgioioso (poi Villa Reale), già bombardata durante la Seconda Guerra Mondiale e ricostruita nel 1953 proprio per far posto al Padiglione, che fu trasformato in centro espositivo alla fine degli anni '70. La ricostruzione costò allo Stato italiano 5 miliardi di lire[6].

Indagini e Processi

Le indagini permisero di accertare che l'esplosione fu provocata da una miscela di esplosivo ad alto potenziale collocato all'interno della Fiat Uno, di proprietà di Letizia Esposito e in unso dal figlio Oreste Cavaliere, che l'aveva parcheggiata in via Baldinucci nel quartiere Bovisa, prima che gli fosse rubata[7]. L'esplosivo utilizzato risultò essere dello stesso tipo di quello rinvenuto nel Fallito Attentato di via Fauro a Roma e nella Strage di Via dei Georgofili a Firenze ed era composto da una gelatina commerciale contenente EGDN-NG-DNT e nitrato di ammonio, arricchita con una miscela di tipo militare contenente tritolo e T-4, il tutto avvolto in una miccia detonante alla pentrite. Fu stimato che fu usata una carica esplosiva di 90-100 kg.

L'individuazione degli autori materiali e l'accertamento delle modalità specifiche di esecuzione della strage sono state possibili, ma solo in parte, grazie alle dichiarazioni di Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco.

Nel 1998 Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali della strage di via Palestro nella sentenza per le stragi del 1993; tuttavia, nella stessa sentenza, si leggeva: «[...] Purtroppo, la mancata individuazione della base delle operazioni a Milano e dei soggetti che in questa città ebbero, sicuramente, a dare sostegno logistico e contributo manuale alla strage non ha consentito di penetrare in quelle realtà che, come dimostrato dall'investigazione condotta nelle altre vicende all'esame di questa Corte, si sono rivelate più promettenti sotto il profilo della verifica “esterna”»[8].

Nel 2002, sempre in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l'arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso, identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell'esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente la strage di via Palestro[9]. Il 10 dicembre 2003 i due vennero condannati all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Milano[10], condanna poi confermata anche in Cassazione nel 2005[11].

Il pentimento di Spatuzza e le nuove rivelazioni

Gaspare Spatuzza

Quando nel 2008 Gaspare Spatuzza decise di collaborare con la giustizia, rese nuove dichiarazioni in merito anche alla Strage di via Palestro. In particolare, riferì che lui, Lo Nigro, Giuliano, Giovanni Formoso e i fratelli Vittorio e Marcello Tutino (uomini d'onore della famiglia di Brancaccio), parteciparono a una riunione dove vennero decise le affiliazioni ai vari gruppi che dovevano operare su Roma e Milano per compiere gli attentati. Stando al racconto di Spatuzza, Giovanni Formoso e i fratelli Tutino operarono su Milano, poi raggiunti da lui stesso, Lo Nigro e Giuliano per lo scarico dell'esplosivo e il furto della Fiat Uno, per poi tornare a Roma per compiere gli attentati alle Chiese.

Spatuzza scagionò quindi Tommaso Formoso, dichiarando che all'attentato aveva partecipato solo il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l'esplosivo. Ciononostante, nell'aprile 2012 la Corte d'Appello di Brescia rigettò la richiesta di revisione del processo, poiché le sole dichiarazioni di Spatuzza, che pure si era rivelato attendibile in altri procedimenti, non erano sufficienti[12].

Sempre sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, nel 2012 la Procura di Firenze dispose l'arresto del pescatore Cosimo D'Amato, cugino di Lo Nigro, accusato di aver fornito l'esplosivo usato in tutti gli attentati del '92-'93 ed estratto da residuati bellici recuperati in mare. Nel 2013 venne condannato all'ergastolo.[13].

Il 12 luglio 2018 la Corte di Cassazione confermò in via definitiva l'assoluzione per Marcello Tutino, rigettando il ricorso della Procura Generale di Milano: le dichiarazioni di Spatuzza, purché giudicate attendibili, non sono state considerate sufficienti per la condanna, mancando infatti altre prove a carico dell'imputato[14].

Note

  1. Sentenza II Corte d'Assise di Firenze, 5 ottobre 2011
  2. Maurizio Torrealta, La Trattativa, Milano, Bur, 2010, p.528 e ss.
  3. Torrealta, op.cit., p.532
  4. Torrealta, op.cit., p.532
  5. Ibidem
  6. Torrealta, op.cit., p.531
  7. Ibidem
  8. Corte d'Assise di Firenze, Sentenza di 1° grado nel processo sulle Stragi del 1993, 6 giugno 1998
  9. Via Palestro due ordini di cattura, la Repubblica, 16 gennaio 2002
  10. Due ergastoli per via Palestro la base era un pollaio di Caronno, la Repubblica, 10 dicembre 2003
  11. Strage via Palestro Confermati gli ergastoli, la Repubblica, 7 febbraio 2005
  12. Strage di via Palestro, Spatuzza riscrive la storia. Ma la corte non riapre il processo, Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2012
  13. Stragi del '93, ergastolo per il pescatore che fornì il tritolo, la Repubblica, 23 maggio 2013
  14. Strage di via Palestro, definitiva l’assoluzione di Tutino: ‘Dichiarazioni di Spatuzza attendibili. Ma non bastano’, Il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2018

Bibliografia

  • Archivio Storico de "la Repubblica"
  • Saverio Lodato, Quarant'anni di mafia, Milano, Bur, 2013
  • Maurizio Torrealta, La Trattativa, Milano, BUR, 2010