Tommaso Buscetta

Da WikiMafia.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
"Ero entrato e rimango con lo spirito di quando io ero entrato. Ma dagli anni '70 in poi questa associazione, cosiddetta Cosa Nostra, ha sovvertito l'ideale, poco pulito per la gente che vive dentro alla legge, ma tanto bello per noi che vivevamo in questa associazione, cominciando con delle cose che non erano più consoni all'ideale della Cosa Nostra; con delle violenze che non appartenevano più a quegli ideali. Io non condivido più quella struttura a cui io appartenevo. Quindi non sono un pentito"
(Tommaso Buscetta)


Tommaso Buscetta (Palermo, 13 luglio 1928 – New York, 2 aprile 2000) è stato un esponente di spicco di Cosa Nostra, affiliato alla famiglia di Porta Nuova, fino alla decisione di collaborare con il giudice Giovanni Falcone, il 15 luglio 1984. E' stato il primo grande pentito della storia d'Italia. Le sue rivelazioni non sono mai state smentite in alcuna circostanza e in alcuna sentenza.

Tommaso Buscetta nell'aula bunker del Maxiprocesso

Biografia

Infanzia e adolescenza

Ultimo di diciassette figli, "Masino" nacque in una famiglia di vetrai, i più affermati della città. A sedici anni, nel 1946, fu costretto a sposarsi con Melchiorra Cavallaro, dopo averla messa incinta. Subito dopo partì alla volta di Torino, da solo, trovando un lavoro presso una grande fabbrica di specchi, la Alberti & Macario. Quando nacque la prima figlia Felicia, tornò a Palermo e prese a lavorare nella bottega di famiglia in Corso dei Mille, con il padre e il fratello.

L'ingresso in Cosa Nostra

Sin da bambino, Buscetta era stato socializzato ai valori mafiosi, ma entrò ufficialmente nell'organizzazione solo al suo ritorno da Torino. A quindici anni aveva dato prova di valore, combattendo i tedeschi a Napoli con altri uomini d'onore, fu tenuto sotto osservazione, frequentò per un periodo il bar di Via Oreto, finché un giorno, dopo aver dato prova di valore uccidendo un uomo, non venne ufficialmente accettato in Cosa Nostra, come affiliato alla famiglia di Porta Nuova.

La fabbrica di cristalli in Argentina

Nel 1948, a vent'anni, Buscetta divenne padre per la seconda volta con la nascita di Benedetto. Decise così di partire alla volta dell'Argentina, trasferendosi in pianta stabile a Buenos Aires, a quei tempi abitata per un quarto da italiani, la maggior parte calabresi. Aprì inizialmente una fabbrica di specchi, poi si buttò sui cristalli, settore più redditizio, diventando un artigiano molto affermato in città.

La prima volta in Brasile

Nel 1950, dopo la nascita del terzo figlio Antonio, Buscetta decise di mettersi in affari con un altro siciliano, aprendo una fabbrica di cristalli in Brasile, a San Paolo. Poiché nel paese sudamericano "buscetta" era uno dei modi assai volgari con cui si indica tutt'oggi l'organo genitale femminile, la moglie continuò a mostrarsi insofferente rispetto alla vita brasiliana, continuando a creare problemi di ogni sorta. Così, dopo due anni, Buscetta decise di vendere la fabbrica e tornare a Palermo.

La vita in Cosa Nostra

Tornato in Sicilia, aprì con il fratello Fedele una fabbrica di specchi a Termini Imerese e contestualmente riprese il suo posto in Cosa Nostra, con il suo capofamiglia Gaetano Filippone che gli diede subito il bentornato. Nel 1955 tornò nuovamente in Argentina, stavolta da solo, in pieno golpe militare contro Peron, tant'è che dopo nemmeno un mese fu costretto a lasciare Buenos Aires. Si buttò quindi nel contrabbando di sigarette, inizialmente come finanziatore, investendo consistenti somme di denaro nel traffico. Nel 1958, a seguito di una soffiata circa il furto del carico a Taranto, Buscetta decise di scortare personalmente il carico fino a Palermo, ma lui e i suoi furono braccati dai carabinieri, che per altro cercavano un'altra banda di criminali locali. Buscetta così scontò i suoi primi sei mesi di carcere. Al rientro, il suo capofamiglia lo rimproverò aspramente, mettendolo quasi fuori famiglia, in quanto si era esposto troppo, tacendo anche i motivi della sua partenza per Taranto.

Il teorico della Commissione

Nel 1958, le varie famiglie si scambiavano informazioni, opinioni, favori, ma non esisteva alcun coordinamento provinciale, alcun governo complessivo della città. Il teorico della necessità di un tale strumento fu proprio Buscetta, che fu ispirato dopo un banchetto tenuto a Palermo in onore di Joseph Bonanno (detto Joe Banana), mitico rappresentante della mafia di Castellammare del Golfo che tornava in Sicilia per rivedere la sua terra. Riuniti da Spanò, allora il più rinomato ristorante di pesce della città, Cosa Nostra siciliana e Cosa Nostra americana, che avevano rotto i rapporti negli anni Cinquanta, ricominciarono a parlarsi. E fu proprio Buscetta l'interlocutore privilegiato di Bonanno, che gli spiegò come vedesse una grave lacuna nell'organizzazione di Cosa Nostra siciliana, illustrandogli il funzionamento della Commissione negli USA. Così anche Cosa Nostra siciliana si dotò di una commissione, che funzionò alla perfezione fino al 1963, l'anno della strage di Ciaculli. Sorprendentemente, Buscetta decise di non farne parte, anche se ne era stato il primo sostenitore all'interno di Cosa Nostra siciliana.

La latitanza e il carcere

Dopo la strage di Ciaculli, Buscetta, come molti altri esponenti di Cosa Nostra, divenne ricercato come responsabile della strage, benché non fosse responsabile dell'episodio. Si diede quindi alla latitanza, prima in Svizzera, poi in Messico, in Canada e infine negli USA, dove aprì una pizzeria, finanziato dalla famiglia Gambino. A conclusione del primo grado del processo di Catanzaro, il 22 dicembre 1968 Buscetta venne condannato in contumacia a dieci anni di carcere per associazione a delinquere, ma assolto per i capi di imputazione riguardanti la strage che aveva generato la Prima guerra di mafia.

Nel 1970 il boss dei due mondi soggiornò sotto falso nome a Zurigo, Milano e Catania per partecipare ad alcuni incontri insieme a Salvatore Greco, durante i quali discussero la ricostruzione della "Commissione" e l'eventuale partecipazione dei mafiosi siciliani al Golpe Borghese (che non ci fu).

Il 25 agosto venne arrestato a Brooklyn e rilasciato dietro il pagamento di 40mila dollari; Giuseppe Catania, pizzicato con un carico di 326 kg di eroina, lo avrebbe accusato di essere la mente dell'organizzazione, ottenendo per sé l'immunità. Solo in seguito si sarebbe scoperto che Catania si era inventato tutto e Buscetta non aveva mai trafficato droga in vita sua. A tal proposito, a Saverio Lodato confidò: "C'è un'infamia che non ho mai sopportato: essere stato definito dai giornali, per alcuni decenni, il "re dell'eroina", il "trafficante dei due mondi". Io non ho mai trafficato in droga. L'unica volta che feci quella mediazione fra Salomone e Inzerillo, per quei 68 kg, non ci guadagnai una lira. Mi limitai a essere il garante di un passaggio di denaro. Se avessi voluto, avrei potuto fare il trafficante come tutti gli altri della mia generazione."[1]

Trasferitosi in Brasile, venne arrestato il 2 novembre 1972 per traffico di droga ed estradato in Italia, dove scontò la condanna a 10 anni, ridotta a 8 in appello, nel carcere palermitano dell'Ucciardone. Nel 1980 ottenne la semilibertà, che sfruttò per evadere e tornare in Brasile, raggiungendo la seconda moglie Cristina e i tre figli nati dal loro matrimonio, Alessandro, Lisa e Massimo. Mentre a Palermo infuriava la Seconda guerra di Mafia, Don Masino decise di tirarsi fuori dalla faida. Nell'ottobre del 1983 venne arrestato, assieme alla moglie e ai figli, a San Paolo, per traffico di droga, anche se nella macchina gli agenti non trovarono nemmeno un grammo. Nel marzo 1984 lo trasferirono nel carcere di Brasilia: fu lì, nel giugno dello stesso anno, che incontrò per la prima volta Giovanni Falcone, accompagnato dal sostituto procuratore di Palermo, Vincenzo Geraci. E fu in quell'incontro che il magistrato palermitano intuì la volontà di collaborare di Buscetta che però, entrato in possesso di una dose di stricnina, tentò di togliersi la vita e fu salvato in extremis.

Il Pentimento

Dopo qualche settimana dal tentato suicidio, il 15 luglio Buscetta venne estradato in Italia, scortato da Gianni De Gennaro della Criminalpol, dal capitano dei carabinieri Angiolo Pellegrini e da un funzionario della guardia di finanza. Il 16 luglio venne portato in Questura a Roma e cominciò a collaborare con Falcone. A novembre i giornali diedero la notizia del suo pentimento e cominciarono a diffondere alcuni dei contenuti delle sue dichiarazioni, cosa che rese impossibile la sua permanenza a Roma. Gli americani accettarono quindi di inserirlo nel programma protezione testimoni statunitense, a patto che collaborasse anche con la giustizia statunitense, nell'ambito delle indagini sul traffico di droga delle famiglie di Cosa Nostra americana. Buscetta accettò e venne trasferito nel New Jersey, in località protetta.

Vista l'importanza del soggetto, durante le sue dichiarazioni in aula Buscetta veniva protetto anche da una gabbia di vetro antiproiettile. Durante la sua testimonianza, Buscetta disegnò la struttura e il funzionamento di Cosa Nostra mostrando il fenomeno mafioso sotto una nuova luce. Il contributo più importante di Buscetta infatti "è consistito nell'aver offerto una chiave di lettura dei fatti di mafia, nell'aver consentito di guardare dall'interno le vicende dell'organizzazione"[2]

I principali contributi al Maxiprocesso

Le dichiarazioni principali di Buscetta possono essere sintetizzate come segue:

  • Cosa nostra: I mafiosi riferendosi all'organizzazione non parlano di mafia ma di Cosa nostra. La vita dell'organizzazione è disciplinata da un rigido regolamento di natura orale e non scritta. Queste norme regolano anche l'ingresso di uomini nella struttura mafiosa. Cosa nostra è ormai strutturata in ogni provincia siciliana, ma il centro del potere dell'organizzazione è Palermo.
  • Suddivisione territoriale: La città di Palermo è organizzata in mandamenti: le famiglie prendono il nome dal mandamento a cui appartengono. Per quanto riguarda la provincia di Palermo, le famiglie prendono il nome del paese in cui operano. Tre famiglie territorialmente limitrofe costituiscono un mandamento ed eleggono un solo rappresentante. I capi dei mandamenti palermitani e i rappresentanti dei mandamenti provinciali compongono la Commissione.
Dopo l'ascesa dei Corleonesi è nata la cosidetta Interprovinciale, che ha il compito di coordinare gli interessi di più province.
  • Commissione: La Commissione sovrintende, controlla e dispone il governo di Cosa Nostra. L'organismo ha il compito di assicurare il rispetto delle regole di Cosa Nostra e risolvere le eventuali frizioni tra famiglie. Ad esempio, per ordinare un omicidio, il rappresentante di una famiglia deve rivolgersi al capo mandamento, il quale tratterà la questione in Commissione. Nel caso dell'omicidio di un capofamiglia, l'assassinio deve avvenire con il consenso della famiglia (oltre che della Commissione). In caso contrario sono quasi inevitabili gravi conseguenze per chi trasgredisce.
Mentre in origine la figura che controllava la Commissione era quella del Commissario, successivamente fu chiamato Capo
  • Famiglia: Ogni famiglia è una struttura a base territoriale con una costituzione gerarchica. Gli uomini d'onore o soldati sono organizzati in gruppi da dieci, le decine, ciascuna delle quali è coordinata da un capodecina. La famiglia è governata da un rappresentante con nomina elettiva. Il rappresentante è poi assistito da un vicecapo e da uno o più consiglieri.

Buscetta illustrò inoltre le dinamiche che portarono allo scatenarsi della Seconda Guerra di Mafia, con il prevalere dello schieramento corleonese sull'ala moderata di Cosa Nostra, ovvero quella rappresentata da Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, che avevano comandato su Palermo fino a quegli anni.

Le dichiarazioni di Tommaso Buscetta furono confermate dai riscontri, anche se la descrizione che diede il pentito di alcuni avvenimenti fu accettata con qualche riserva. La visione dell'ascesa dei Corleonesi si basava infatti su uno spinto dualismo che mostrava il punto di vista unilaterale del pentito. La contrapposizione tra buoni (i membri della mafia perdente) e cattivi (i Corleonesi) è chiaramente dettata dall'appartenenza di Buscetta al primo schieramento. Nonostante i tentativi di Buscetta di ridimensionare la ferocia dei membri della fazione perdente spacciandola per "ala moderata", i boss sconfitti erano feroci assassini dall'alto spessore criminale.

Come ha scritto Umberto Santino "anche gli amici di Buscetta hanno ucciso e volevano uccidere, se non hanno potuto farlo è perchè gli avversari glielo hanno impedito. In che cosa consisterebbe quindi la deregulation dei Corleonesi se non in un maggiore tempismo nell'apertura delle ostilità e in una migliore dotazione militare?"

Sull'omicidio Inzerillo

Buscetta parlò della situazione venutasi a creare nella Commissione di Cosa nostra prima dello scoppio della Seconda Guerra di mafia. I membri legati ai palermitani vedevano di cattivo occhio le azioni dei corleonesi, come l'uccisione di alcuni uomini dello stato (ad esempio Emanuele Basile, Michele Reina, Piersanti Mattarella) senza averne prima discusso con i membri della Commissione stessa. Salvatore Inzerillo, per dimostrare la propria superiorità rispetto al clan dei Corleonesi, compì dunque un'azione analoga, ovvero l'uccisione del procuratore di Palermo Gaetano Costa. Il gesto di Inzerillo fu utilizzato dai Corleonesi per legittimare la sua successiva uccisione, in quanto fu mostrato come non fosse degno di stare nella Commissione.

La mappa delle famiglie

Secondo le dichiarazioni di Buscetta, la mappa del potere di Cosa Nostra sulla città di Palermo era la seguente:

  • Porta Nuova: guidata da Pippo Calò, Salvatore Lo Presti, Gaetano Carollo, Giovanni Carollo, Salvatore Cocuzza
  • San Lorenzo - Partanna: famiglie Bonanno, Madonia, Riccobono
  • Uditore: famiglie Buscemi, Sciarrabba, Bonura
  • Villagrazia: Vernengo, Pullarà, Bontade
  • Corso dei Mille: Zanca, Marchese, Tinnirello
  • Kalsa: Spadaro, Senapa
  • Ciaculli: Greco, Prestifilippo, Puccio

In provincia di Palermo, la suddivisione delle famiglie era invece la seguente:

  • Cinisi - Partinico: Di Maggio, Badalamenti, Coppola, Pipitone
  • Bagheria: Alfano, Greco, Scaduto
  • Corleone - Altofonte - San Giuseppe Jato: Bagarella, Brusca, Di Carlo, Geraci, Provenzano, Mutisi, Salomone, Luciano Liggio

Confronto con Pippo Calò

Durante il confronto fu sollevata la questione di un viaggio che Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo avrebbero effettuato a Roma per incontrare Pippo Calò e discutere della situazione di tensione venutasi a creare con i Corleonesi. Calò cercò di far leva sull'improbabilità di un viaggio così lungo solo per parlare con lui qualche minuto. Cercò poi di screditare Buscetta parlando di colloqui avuti con il fratello del pentito, suo amico. Le accuse non ebbero alcun esito, e furono numerosi i momenti in cui Calò non potè replicare a Buscetta. Fu introdotta poi dal pentito l'accusa per l'omicidio di Giovanni "Giannuzzo" La Licata, membro della famiglia di Porta Nuova, ucciso da Calò stesso. Buscetta, accusato di utilizzare il pentimento per compiere vendette trasversali, respinse le accuse adducendo al fatto che le sue dichiarazioni erano spesso contro suoi amici come Gerlando Alberti. L'esito negativo del dialogo per Calò determinò la rinuncia di tutti gli imputati che avevano richiesto altri confronti con Tommaso Buscetta.

Altre dichiarazioni

Buscetta parlò di Antonino Salomone, mafioso dello schieramento perdente della Seconda Guerra di Mafia. Salomone tornò in Italia dal Brasile, dove si era trasferito e dove aveva avviato un'attività di costruzioni edili. Salomone era intanto divenuto cittadino brasiliano, e ciò rendeva ancora più inspiegabile il suo ritorno in Italia. Tommaso Buscetta affermò di avere la certezza matematica del fatto che Antonino Salomone avesse lasciato il Brasile per non essere costretto ad ucciderlo. Salomone era considerato il tramite tra i corleonesi e le famiglie americane per il traffico di stupefacenti. Antonino Salomone era stato poi arrestato nel 1984.

Quando fu chiamato a parlare al Maxiprocesso, Salomone smentì le dichiarazioni di Buscetta, affermando che l'odio tra le loro famiglie rimaneva invariato (odio che risaliva, a suo dire, addirittura all'essersi rifiutato di essere padrino del figlio di Tommaso Buscetta). Salomone dichiarò dunque che il suo ritorno in Italia aveva a che fare soltanto con vicende sue personali. Salomone ricordò inoltre di esser già stato condannato per traffico di stupefacenti, alludendo al fatto che il motivo del suo ritorno in Italia poteva anche risiedere in questioni legate al narcotraffico. Salomone negò inoltre di aver mai conosciuto Giovanni Bontade, dopo che quest'ultimo lo interrogò dalle celle dell'aula bunker.

Buscetta aggiunse dettagli riguardo contrasti interni alla famiglia Bontate. Giovanni Bontate voleva infatti scalzare dal ruolo di comando il fratello Stefano Bontate, membro della Commissione. Secondo Buscetta, fu proprio Giovanni chiese a Stefano di dimettersi dalla Commissione, facendo anche pressioni sul "Papa" Michele Greco. Era inoltre accusato di aver agito in accordo con i Corleonesi per favorire l'omicidio del fratello. Questo conflitto andò poi ad avvantaggiare la fazione corleonese che approfittava della situazione di debolezza all'interno della famiglia avversaria. Il 22 maggio 1986 Giovanni Bontate comparve davanti ai giudici per discolparsi, confermando la sua totale estraneità ai fatti.

Parola d'ordine: sterminare i Buscetta

La mattanza dei Buscetta iniziò molto prima della sua decisione di pentirsi: contravvenendo alle regole dell'organizzazione, i Corleonesi fecero uccidere i suoi due figli, Antonio e Benedetto (34 e 32 anni), rapiti la sera di sabato 9 settembre 1982. Buscetta ne ebbe notizia lunedì 11 settembre, chiamando la prima moglie Melchiorra.

Alla vigilia di Natale dello stesso anno, i Corleonesi uccisero anche Pino Genova, marito di sua sorella Felicia, e due suoi nipoti, figli di una sorella della prima moglie. Il 27 dicembre i killer dei Corleonesi spararono in faccia anche a suo fratello Vincenzo, di 67 anni, e suo nipote Benedetto, 42 anni. Negli stessi giorni scomparve anche un altro suo cognato, Homero Junior, il più grande dei fratelli della seconda moglie Cristina.

Il 7 dicembre 1984 i Corleonesi eliminarono a Bagheria anche il cognato Pietro Busetta, marito della sorella Serafina, come prima conseguenza del suo pentimento. Nel 1996 è la volta di suo nipote Domenico, soprannominato "Domingo" perché nato a Buenos Aires: venne ammazzato perché, in compagnia di un amico, aveva offerto il caffè inconsapevolmente a Leoluca Bagarella, che non appena lo viene a sapere lo fa freddare la sera stessa, perché la sua mano si era macchiata stringendo quella di un familiare di un pentito.

Buscetta quindi perse, tra seconda guerra di Mafia a cui non partecipò e pentimento, due figli, un fratello, un genero e quattro nipoti.

Le rivelazioni su Andreotti dopo le stragi e la morte

La collaborazione di Tommaso Buscetta fu fondamentale per arrivare alle condanne del Maxiprocesso, ma quando Falcone chiedeva dei legami politici dell'organizzazione, il primo grande pentito della storia d'Italia si fermava, affermando che le sue eventuali dichiarazioni avrebbero fatto passare per matto lui e il giudice. Dopo le stragi di Capaci e di via d'Amelio, Buscetta si decise infine a fare i nomi dei politici, accusando Salvo Lima e Giulio Andreotti di legami con Cosa Nostra. In particolare, Buscetta riferì di aver conosciuto personalmente Lima fin dalla fine degli anni Cinquanta e di averlo incontrato l'ultima volta nel 1980 durante la sua latitanza, oltre a sostenere che l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli (avvenuto nel 1979) sarebbe stato compiuto nell’interesse del sette volte presidente del Consiglio: per via di queste sue dichiarazioni, Buscetta fu uno dei principali testimoni dei processi a carico di Giulio Andreotti per associazione mafiosa e per l'omicidio Pecorelli.

Negli ultimi anni della sua vita, vissuti sempre in località protetta negli USA, Buscetta fece parlare di sé solamente per una crociera nel Mediterraneo, che fu costretto a interrompere per colpa di un reporter che lo riconobbe e passò la notizia ai giornali. Morì di cancro il 2 aprile 2000 all'età di 72 anni, non prima di aver manifestato, nel libro-intervista di Saverio Lodato, il suo disappunto per la mancata distruzione di Cosa Nostra da parte dello Stato italiano.


Per saperne di più

Libri

Note

  1. Saverio Lodato, La mafia ha vinto, Mondadori, 1999, p.112
  2. Tribunale di Palermo, Ufficio istruzione, Ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706