'Ndrangheta

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È invisibile, come l'altra faccia della luna
(Julie Tingwall)


Con l'espressione 'ndrangheta si indica normalmente la declinazione calabrese del fenomeno mafioso, attiva sin dalla seconda metà del XIX Secolo, la cui forza e peso nelle dinamiche criminali è aumentata esponenzialmente dagli anni '90 con il declino di Cosa Nostra, a seguito delle Stragi del '92-'93.

Sottovalutata per decenni come una forma di criminalità locale circoscritta ad alcune zone della Calabria, attualmente la ‘ndrangheta è una delle organizzazioni criminali di stampo mafioso più stabile, diffusa e potente a livello nazionale ed internazionale, con presenze strutturate in regioni come la Lombardia, il Piemonte, la Liguria e l'Emilia-Romagna, in paesi europei come la Germania, la Svizzera, la Spagna e la Francia, oltreché negli USA, in Australia e in Canada. Attualmente, la 'ndrangheta è presente in tutti e cinque i continenti del globo.

Origine del nome

La leggenda vuole che la parola ‘ndrangheta derivi dal verbo greco άνδραγαθέω (andragathéo), composto dalla matrice semantica degli aggettivi άνήρ (anèr) e άθαθός (agathòs), che significa letteralmente «agisco da uomo perbene o valoroso»[1].

La parola, comunque, dopo essere stata introdotta nel 1909 da Giovanni Malara nel suo "Vocabolario dialettale calabro-reggino-italiano", venne ripresa solo nel 1961 da Attilio Piccoli in un articolo per la rivista "Cronache Meridionali", intitolato "La "ndranghita" in Calabria". L'anno successivo la parola 'ndrangheta venne ripresa da Giuseppe Guido lo Schiavo nel suo libro "100 anni di mafia" e da allora cominciò a circolare e ad affermarsi quasi dappertutto, benché in molti ambienti intellettuali si continuasse a definirla "mafia calabrese" o ad usare i termini coniati agli albori e con cui la 'ndrangheta era stata conosciuta per decenni ("Onorata Società", "Famiglia Montalbano" e "picciotteria"). Basti pensare che nella narrativa calabrese la parola comparve ufficialmente solo nel 1977, nel romanzo di Saverio Strati "Il Selvaggio di Santa Venere".

Una delle "fortune" della 'ndrangheta, lungo tutta la sua esistenza, è stata proprio la difficoltà da parte di inquirenti e intellettuali non solo ad inquadrarla come organizzazione mafiosa, ma addirittura di darle un nome, prendendo in prestito quello di "mafia" e "camorra" mutuati dalle "cugine" siciliana e campana. La stessa parola ‘ndrangheta è di difficile pronuncia e compare molto spesso tutt'oggi in forma errata su molti articoli di giornale, dove è frequente ritrovare errori ortografici grossolani come «l’ndrangheta» o «l’andrangheta», invece del corretto «la ‘ndrangheta». Se persino la conoscenza del nome è mal padroneggiata da chi dovrebbe fare informazione, figuriamoci la conoscenza dell’organizzazione in sé.

Storia ed Evoluzione

Osso, Mastrosso e Carcagnosso, in un'illustrazione di Enzo Patti[2] del 2010

Il mito della fondazione: Osso, Mastrosso e Carcagnosso

La storia della ‘ndrangheta, così come quella delle altre organizzazioni criminali di stampo mafioso, è costellata da miti, riti e leggende narrate e tramandate nel tempo. Tra le storie più popolari ed importanti che contribuiscono, ancora oggi, ad alimentare fascino e curiosità verso il mondo criminale organizzato c'è quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i tre cavalieri spagnoli arrivati in Italia attorno al 1412, in fuga dalle proprie terre per aver difeso l'onore della famiglia, vendicando con il sangue l'offesa subita da una sorella.

Secondo la leggenda i tre cavalieri spagnoli, appartenenti all’associazione cavalleresca Garduña fondata a Toledo, rimasero 29 anni nascosti sull’isola di Favignana e durante questo lungo periodo delinearono le regole fondamentali delle organizzazioni mafiose: poi Osso si recò in Sicilia a fondare la Mafia, Mastrosso andò in Campania a fondare la Camorra e Carcagnosso si stabilì in Calabria per dare vita alla 'ndrangheta.

Le origini

Gli "spanzati" di fine '700

Le prime tracce di una presenza ufficiale della 'ndrangheta in Calabria arrivarono poco dopo l'Unità d'Italia, ma qualche forma embrionale dell'organizzazione c'era già prima: nel 1792 Giuseppe Maria Galanti annotava nel suo "Giornale di Viaggio in Calabria" la presenza a Monteleone, un centro economicamente molto importante dell'epoca, dei c.d. "spanzati", "gente oziosa" abituata a commettere "ogni sorta di bricconeria, con un manifesto disprezzo per la giustizia, la quale è inefficace a punirli"[3]. Molti di questi "spanzati" svolgevano la funzione di mediatori, facendo ricorso alla violenza se necessario, nei settori commerciali più redditizi dell'epoca, quelli della seta e dell'olio.

L'uso della violenza aumentò considerevolmente dopo l'abolizione del regime feudale e la conseguente liberazione delle terre, avvenuta nel periodo dell'occupazione francese (1806-1815): nei decenni successivi, fino all'Unità d'Italia, andò strutturandosi il nuovo fenomeno criminale che si sarebbe intrecciato con gli interessi e i bisogni dei nuovi ceti emergenti nei centri cittadini e nelle campagne segnate dall'avvento del nuovo ordine economico.

I "picciotti" dopo l'Unità d'Italia

La prima volta che le nuove bande fecero il loro ingresso nelle carte ufficiali fu proprio nel 1861, quando il prefetto di Reggio Calabria segnalò gruppi di uomini, che per i modi definì "camorristi", che scorrazzavano per la città. Camorristi non erano, eppure sempre così vennero chiamati nel 1863 in un esposto anonimo presentato a Gallico, in provincia di Reggio Calabria, in cui si avvisava che questi erano sì "uno sparuto numero", ma terrorizzavano la cittadinanza impossibilitata a denunciare se non voleva avere ritorsioni, tra cui la morte[4]. Proprio a Reggio Calabria, nel 1869, vi fu l'annullamento delle elezioni amministrative per l'inquinamento del voto da parte della criminalità organizzata: può considerarsi il primo scioglimento di un Comune nella storia d'Italia, più di un secolo prima del varo della legge repubblicana che tuttora lo prevede.

Nel 1871 il censimento pubblico registrava che l'87% dei calabresi non sapeva né leggere né scrivere e che la gran parte delle masse di contadini erano sottomesse a latifondisti senza alcuna pietà. Leopoldo Franchetti, nel 1874, scriveva che le amministrazioni locali in Calabria erano in preda alla violenza e alla corruzione: in svariati paesi, il sindaco e i suoi parenti si impossessavano di terre demaniali e commerciavano abusivamente legname rubato dalle foreste statali; se una guardia forestale provava a far rispettare la legge, rischiava di beccarsi una fucilata. I "monti frumentari", creati per prestare semi di creali e denaro ai poveri contadini nel periodo della semina, veniva utilizzati come fonte di credito per i ricchi proprietari terrieri[5].

Sin dalle origini, la 'ndrangheta manifestava la caratteristica alla base della propria sopravvivenza fino ai giorni nostri: l'invisibilità e la capacità di mimetizzarsi in altri fenomeni sociali. Nei decenni immediatamente successivi all'Unità, ciononostante, non tutti gli 'ndranghetisti si nascondevano, anzi, c'era quasi una gara a mostrare in pubblico la propria identità, con abiti particolari e tatuaggi. Se i prefetti scrivevano poche e superficiali osservazioni su questa nuova forma di criminalità, i magistrati e le forze dell'ordine descrissero con dovizia di particolare quegli uomini che a poco a poco estendevano la propria influenza sul territorio attraverso l'uso della violenza. Nei primi rapporti ufficiali cominciarono ad essere definiti come "mafiosi" o "camorristi", etichette prese in prestito per definire il fenomeno mafioso in Sicilia e Campania, dove la conoscenza era un po' meno superficiale. Vennero così introdotti, per definire questa nuova realtà criminale, i termini "mafia calabrese", "Onorata Società", "Società di camorristi" e altro.

Man mano però che magistratura e forze dell'ordine approfondivano il fenomeno, la parola che si impose per definire questo nuovo fenomeno criminale fu "picciotteria". "Picciotti" erano anche coloro che appartenevano ai ranghi più bassi camorra napoletana, ma comunemente la parola significa "ragazzo". In un opuscolo del 1885 sulle condizioni igieniche di Reggio Calabria, Francesco Melari descrisse questi giovani che non nascondevano per nulla la propria natura criminale:

"Il giovanotto entrato nella "Società" col grado di "picciotto" veste calzoni stretti alla coscia e larghi agli estremi inferiori - detti "calzoni a campana" - fazzoletto annodato al collo, solini piegati, cappellino tondo sotto le cui falde si vede il ciuffo dei "bravi", che sporge orizzontalmente sulla tempia sinistra. Così aggiustato il "picciotto" prende un'aria spavalda e provocante; e armato dell'indispensabile "mollettone", coltello provvisto di molla a lama chiusa, e del rasoio a manico fermo, s'impone".[6]

L’organizzazione era presente sì nelle campagne e nelle lande desolate dell'Aspromonte, ma si strutturò anche nei grandi centri urbani come Reggio Calabria, Nicastro e Vibo Valentia. La ‘ndrangheta, dunque, non fu mai solamente figlia della povertà, del sottosviluppo, della miseria: esisteva questa componente, rintracciabile nell’Aspromonte descritto da Corrado Alvaro[7] dove dove «i pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali» e «la terra sembra navigare sulle acque», a causa del disboscamento selvaggio che andava ad arricchire i primi capitalisti calabresi (famosi i 60 ettari di foresta a San Luca abbattuti per il commercio di legname) e lasciava i pastori alla mercé della natura ad ogni pioggia.

La ‘ndrangheta fu figlia anche del commercio che popolava la ricca piana di Gioia Tauro, dove l’economia agraria era più avanzata e una classe borghese mercantile aveva messo solide radici. Al crocevia dei fiorenti traffici, laddove c’era bisogno di un mediatore, compariva «l’industriante», l’equivalente del gabelloto siciliano, una figura centrale nei commerci perché procurava mano d’opera o imponeva il prezzo dei prodotti agricoli, dalle olive agli agrumi.

Da principio, fu la stessa organizzazione a presentarsi come una variante del brigantaggio meridionale, usando parole d’ordine che alimentavano l’odio e la diffidenza verso uno Stato che veniva vissuto come oppressore quando c’era da prendere e inesistente quando c’era da dare. La copertura ideologica ebbe successo, tanto che alcuni si riferivano alla ‘ndrangheta come società di mutuo soccorso. Poi, per guadagnare maggior potere, gli 'ndranghetisti cominciarono a difendere l’onore e ad assicurare la giustizia a chi giustizia non ne poteva avere: il capobastone delle origini, come riferisce Ciconte[8], era il giudice di pace per i poveri, mediando tra i conflitti, mettendo fine a liti familiari, risolvendo controversie economiche, fino a trovare il marito giusto alla ragazza che rischiava di diventar zitella o, al contrario, scoraggiare la corte non apprezzata di una giovane ragazza. Gli ‘ndranghetisti, insomma, si cucirono addosso l’abito mai fuorimoda dell’uomo d’onore, nel senso che dalla difesa dell’onore, proprio e altrui, fondavano la legittimità al proprio Potere.

I Maxi-processi e l'offensiva giudiziaria alla fine del XIX Secolo

Poco dopo la sua comparsa, comunque, la "picciotteria" dovette fare i conti con un'offensiva giudiziaria che era sì discontinua, ma comunque più efficace di quella che contemporaneamente era portata avanti in Campania o in Sicilia contro Camorra e Mafia, e tra il 1885 e il 1902 portò a processo 1854 picciotti in tutta la Calabria[9]. Tra gli svariati processi, i più significativi furono quelli celebrati a Palmi, il primo tenutosi all'inizio del 1892 contro 150 picciotti della Piana di Gioia Tauro.

Le indagini erano iniziate nella primavera del 1888, quando numerosi episodi di sfregi con il rasoio, duelli rituali col coltello e vere e proprie risse tra bande criminali cominciarono a terrorizzare i cittadini. I regolamenti di conti tra picciotti avvenivano in pieno centro città e chiunque osasse sfidare la loro prepotenza veniva sfregiato. Dopo qualche tempo i picciotti avevano cominciato ad estorcere non solo denaro a giocatori d'azzardo e prostitute, ma anche ai proprietari terrieri, che non denunciavano per paura di ritorsioni peggiori. Solo nel giugno 1888, quando un impiegato della prefettura locale venne sfregiato, vi furono le prime indagini che portarono all'arresto di ventiquattro persone, processate all'inizio del 1889: il capo della banda, Francesco Lisciotto, era un calzolaio di sessant'anni. Nel 1890 i magistrati portarono a processo 96 picciotti che terrorizzavano le città di Iatrinoli e Radicena, due cittadine dell'entroterra a 15 km dalla costa di Gioia Tauro. Molti di questi erano operai e artigiani, come gli arrestati di Palmi, e sulla "setta" i giudici che seguirono il caso scrissero:

«L'associazione ebbe origine nelle carceri circondariali sotto il nome di setta dei camorristi, e di là per opera dei capi e promotori, messi in libertà, fu diffusa in Iatrinoli, Radicena, Mesignadi, Varopodio, Melicuccà, Polistena, San Martino, ove fu trovato terreno fecondo a propagarsi nei giovani imperbi ed inesperti, nei vecchi avanzi di galera, e più specialmente nei caprai, i quali trovavano nella Società e nella protezione dei compagni il mezzo di pascolare abusivamente coi loro animali, ed imporsi colla prepotenza ai diversi proprietari.[10]»

All'inizio del 1892, infine, il tribunale di Palmi processò circa 150 uomini provenienti da tutta la Piana, tutti condannati. Da quel processo emersero ulteriori dettagli sulla "picciotteria", come ad esempio l'aspetto caratteristico degli affiliati: i picciotti avevano tatuaggi sulla pelle che indicavano il proprio rango. Nonostante l'efficace controffensiva giudiziaria, dopo il terremoto del 1894 che sconvolse la città di Palmi, la "picciotteria" tornò attiva e solo nel settembre 1896 ci fu un'altra ondata di arresti, che sfociarono in un processo iniziato nel gennaio 1897 che per la prima volta diede una panoramica dettagliata delle gerarchie criminali e dei rituali della 'ndrangheta.

Il merito fu della testimonianza di Pasquale Trimboli, che il 24 febbraio 1897 fornì la prima descrizione del mito fondativo della 'ndrangheta, spiegandone la struttura:

«La società nasce da tre cavalieri: uno spagnuolo, uno palermitano, e uno napolitano, i quali erano tre camorristi. Il primo per ogni giuocata che facevano il 2. e il 3. esigeva la camorra. A via di camorra aveva col tempo riunito tutto il denaro e quando gli altri si trovarono nella condizione di non poter più giocare egli restituì 10 lire ad ognuno dicendo: Eccovi queste dieci lire e se io ho in mano tutta la somma vuol dire che io sono il più forte. I suddetti tre camorristi, metaforicamente parlando, formavano un albero. Il capo era il fusto, l'altro più anziano il mastrosso, il 3. l'osso, altri affiliati erano i rami e le foglie, i giovani d'onore (aspiranti picciotti) i fiori.[11]»

Nonostante le condanne, i processi non servirono a rompere la presa della "picciotteria" sulla Piana di Gioia Tauro e in Calabria.

Il rapporto Labella ad Africo

Tra le iniziative più importanti a fine XIX Secolo vi fu sicuramente il rapporto scritto dal brigadiere Angelo Labella il 21 giugno 1894, sulla base di una lettera di due guardie forestali che denunciavano la presenza di "una terribile setta di cosiddetti maffiosi"[12]. Dopo alcune indagini, Labella indicò nel rapporto cinquanta persone, tra cui Domenico Callea, contaiolo e istruttore di scherma della cellula di Africo, con alle spalle 10 anni di carcere per stupro, e Filippo Velonà, ciabattino trentottenne di Staiti e boss della picciotteria di Bova, il cui prestigio criminale andava ben oltre l'Aspromonte. Nel settembre 1894 i magistrati inquirenti arrivarono a Bova e cominciarono a convocare i testimoni citati da Labella, che ben presto furono intimiditi con massacri di bestiame, danneggiamenti di proprietà terriere, minacce a mezzo "zampogna" per le strade della città (venne arruolato uno zampognaro per intonare canzoni che contenevano minacce ai vari testimoni). Fino all'omicidio del testimone più importante, il porcaro Pietro Maviglia, che era stato uno dei primi affiliati alla sezione locale, ma ne era stato espulso per aver fatto trapelare la notizia di un furto con scasso da parte del fratello di Callea, Bruno, dopo un litigio con quest'ultimo, facendolo condannare a due anni di prigione.

L'omicidio, però, anziché scoraggiare l'attività investigativa, la accelerò, portando nella città di Africo una massiccia presenza militare per rispondere alle minacce e difendere i magistrati inquirenti: questo incoraggiò altri testimoni a farsi avanti e in un paio di mesi gli assassini di Maviglia furono arrestati e confessarono, squarciando il velo dell'omertà.

La scoperta più rilevante scaturita dal processo fu la valenza simbolica che aveva per i "picciotti" il Santuario della Madonna di Polsi. Un negoziante di Roccaforte del Greco, paese di poche centinaia di abitanti in provincia di Reggio Calabria, raccontò infatti ai magistrati quel che aveva visto a Polsi ai primi di settembre, periodo in cui ancora oggi si svolgono ogni anno i summit della 'ndrangheta per stabilire le cariche ai vertici dell'organizzazione.

«Nel giorno 3 settembre 1894 io andai alla festa della Madonna della Montagna [...] ed ivi vidi [vari nomi di affiliati di Roccaforte] in compagnia di una sessantina di persone di diversi paesi e di diverse condizioni i quali tutti facendo ruota mangiavano e bevevano. Quando poi io andai a Condofuri con Antonio Sergi, costui domandato da me chi pagava tutto quel mangiare e quel vino alla festa della montagna, rispose che si era pagato con la camorra che si era raccolta.[13]»

Sabella riuscì a ricostruire anche il periodo in cui nacque la "picciotteria", tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80, grazie alla testimonianza del maestro elementare di Africo, che in quel periodo era giunto in città ed era stato informato dell'esistenza di questa setta, che però non contava più di tre o quattro persone. Le fila si ingrossarono con la campagna di reclutamento di Domenico Callea a metà degli anni '90. Quindi

Musolino, il re dell'Aspromonte

Giuseppe Musolino

Alla fine del XIX Secolo iniziò anche la carriera criminale di Giuseppe Musolino, taglialegna di Santo Stefano condannato a 21 anni di carcere nel settembre 1898 per tentato omicidio: il 27 ottobre 1897 aveva avuto un litigio nell'osteria del padre con un altro ragazzo, Vincenzo Zoccali, risolto con un duello dove aveva avuto la peggio; due giorni dopo, all'alba, qualcuno sparò a Zoccali mentre bardava il suo mulo, mancandolo. Sul posto i Carabinieri ritrovarono il fucile e il berretto di Musolino, che per cinque mesi si diede alla latitanza, per poi essere arrestato e infine condannato.

Il 9 gennaio 1899 Musolino evase dal carcere di Gerace dove era rinchiuso, insieme ad altri tre detenuti, tra cui suo cugino, e cominciò la sua vendetta contro chi aveva testimoniato al processo a suo sfavore: il 28 gennaio uccise Francesca Sidari, scambiandola per il suo vero obiettivo. Un mese dopo uccise un pastore che sospettava essere un informatore della polizia. A maggio provò a far saltare per aria la casa di Zoccali con dei candelotti di dinamite, ma la carica non esplose: la famiglia Zoccali fuggì in provincia di Catanzaro, ma Musolino li seguì anche lì, riuscendo ad uccidere il fratello di Vincenzo. Poi sparì dalla circolazione per sei mesi, salvo poi tornare alla carica nel febbraio del 1900 con due nuovi complici, con cui continuò il ciclo di vendette. Uno di questi, però, lo tradì: si trattava di Antonio Princi, che si accordò con la polizia per catturarlo, ma il piano fallì. Musolino continuò ad uccidere e a sfuggire alla polizia, finché le sue gesta non arrivarono ad essere discusse anche in Parlamento.

Il governo inviò centinaia di uomini in Aspromonte per dare la caccia al "brigante", che però riuscì a fuggire per oltre un anno. Un giornalista, Adolfo Rossi, cominciò a seguirne le tracce e pubblicò un ampio reportage in cui parecchi testimoni assicuravano l'affiliazione alla "picciotteria" di Musolino ed era per questo che risultava inafferrabile: poteva contare su una vasta rete di protettori in tutto l'Aspromonte, tanto da guadagnarsi il titolo di "Re". La sua leggenda si diffuse per tutto il Mezzogiorno: il "Re dell'Aspromonte" divenne protagonista del teatro delle marionette, di canzoni popolari e addirittura idolo dei bambini, che giocavano per strada a imitarne le gesta. Lo stesso Musolino sfruttò questa sua rinnovata popolarità per scrivere una lettera a un quotidiano nazionale in cui si schierava dalla parte della gente comune contro l'autorità, sfruttando il sentimento largamente diffuso di diffidenza nei confronti dello Stato italiano da parte delle popolazioni contadine del Meridione.

La svolta nel caso Musolino si ebbe quando agli inizi del 1901 le autorità inviarono a Santo Stefano Vincenzo Mangione, agente di polizia scelto, che compilò una serie di rapporti sulla picciotteria nel paese natale del brigante, scovando ben 166 affiliati alla "setta" fondata dal padre e dallo zio di Musolino più di dieci anni prima. Ogni azione di Musolino venne reinserita nei doveri di affiliato all'organizzazione: anche il tentato omicidio di Zoccali fu ordinato perché quest'ultimo si era rifiutato di adempiere ai suoi dovere di "picciotto". Emersero anche i legami stretti con la politica locale, dimostrati dalla folta presenza, a partire dal sindaco e dai consiglieri comunali, dei notabili del paese al matrimonio della sorella del brigante, Anna. La strategia di Mangione si tradusse quindi nel colpire la sua rete di supporto e poi cercare di mettere sotto processo tutta la "picciotteria" di Santo Stefano, cosa che non gli riuscì.

Il pomeriggio del 9 ottobre 1901 Musolino venne infine arrestato nelle campagne di Urbino, per caso: due carabinieri notarono un giovano con fare sospetto, gli fecero cenno di fermarsi e, al tentativo di fuga di quest'ultimo, lo inseguirono e lo arrestarono. Il processo si svolse a Lucca, in Toscana, nel 1902. Gli avvocati del brigante non contestarono mai la lunga serie di omicidi, ma la giustificarono con la "cospirazione" che, a loro dire, era stata ordita ai suoi danni nel caso Zoccali. Il sindaco di Santo Stefano, che aveva anche avviato una petizione per la richiesta di grazia alla Regina a favore di Musolino, testimoniò al processo affermando che la "picciotteria" era un'invenzione per giustificare la debolezza intrinseca delle forze dell'ordine. Nonostante la spettacolarità del processo e le orde di ammiratori che si era guadagnato nel Meridione, Musolino venne condannato all'ergastolo.

Sotto il Fascismo

Giuseppe Delfino (al centro)

Durante la dittatura fascista, la "picciotteria" continuò la sua attività, benché, dopo il 1925, Benito Mussolini avesse inaugurato una campagna antimafia anche in Calabria, sulla scia di quella siciliana, affidata a Cesare Mori, e quella napoletana, affidata al colonnello dei Carabinieri Vincenzo Anceschi. L'organizzazione era ben abituata infatti agli arresti di massa e ai maxiprocessi a cui fu sottoposta sotto il regime, essendovi sopravvissuta già alla fine del secolo precedente.

La repressione fascista colpì duramente le raccaforti della 'ndrangheta, tanto che nel 1932 vennero arrestati e condannati a Reggio Calabria i capi di cinque 'ndrine. Da quel processo emerse che per i magistrati inquirenti l'organizzazione aveva in realtà un unico organo di coordinamento, detto "Gran Criminale": questo aveva giurisdizione su tutta la provincia e il suo compito era evitare lotte intestine all'interno di una 'ndrina e fra 'ndrine diverse. Queste notizie vennero date dal fratello di Giuseppe Musolino, Antonio, che aveva deciso di collaborare con la giustizia dopo essere stato sconfitto in una faida con suo cugino, Francesco Filastò, sospettato tra le altre cose di aver ucciso il tenente Joe Petrosino prima della Grande Guerra.

In quegli anni si distinse per la sua attività di contrasto il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Delfino, passato alla storia come "Massaru Peppi", futuro padre del giornalista Antonio e del controverso generale dell'Arma Francesco. Maestro di travestimenti, si mimetizzava tra contadini e delinquenti per seguire di persona i latitanti e individuarne i nascondigli. Nato a Bova, conosceva i rilievi dell'Aspromonte grazie al fatto che da ragazzino vi portava a pascolare il gregge. Nel 1927, avviò un'indagine sotto copertura come frate, grazie alla collaborazione del priore del Santuario della Madonna di Polsi, Don Ciccio Pangallo, il quale gli fornì una mula e un saio da massaro (da lì il nome con cui divenne noto). Fu così che riuscì, ai primi di settembre, in occasione dell'annuale festa della Madonna, ad arrestare oltre 80 esponenti della 'ndrangheta, riuscendo ad entrare in possesso anche di un vero e proprio codice dell'organizzazione. Il documento, tre fogli scritti a mano, fu ritrovato in un materasso di foglie nella zona di Platì, e riportava diverse tipologie di "picciotto", a seconda del grado di appartenenza (semplice, di giornata, di sgarro, di sangue, liscio)[14].

I successi del fascismo contro la 'ndrangheta furono però temporanei: il vuoto di potere che era venuto a crearsi in certi contesti venne subito riempito da altri criminali. Inoltre, la fermezza del regime si infrangeva nelle aule di tribunale, dove il fenomeno veniva ricondotto a cause di natura socio-economica come la povertà. Inoltre, anche sotto il fascismo continuarono le connivenze tra 'ndrangheta e politica: già nel 1933 Mussolini venne informato che il segretario del PNF a Reggio Calabria era "notoriamente affiliato alla malavita che infettava e infetta tutt'ora la provincia" e nel 1940 un commissario speciale riferiva che un "alto numero" di cittadini faceva parte di associazioni criminali o era imparentato con qualcuno che ne faceva parte[15].

L'avvento della Repubblica e il Secondo Dopoguerra

Il ritorno alla democrazia non segnò un significativo cambio di passo nell'attività della 'ndrangheta, anzi, nelle fasi finali del secondo conflitto mondiale addirittura alcuni sindaci della provincia di Reggio Calabria vennero nominati proprio dalle fila dell'organizzazione, come era accaduto in Sicilia dopo lo sbarco degli alleati.

Gli anni '50 e il ruolo di "criminalità gregaria"

Negli anni '50 si assistette a una migrazione di massa dei calabresi in cerca di fortuna al Nord e nel 1955 vi fu il primo soggiorno obbligato di uno 'ndranghetista fuori dalla Calabria, Giacomo Zagari, originario di Taurianova, che fu spedito a Buguggiate, in provincia di Varese, da dove poi, circa vent'anni dopo, avrebbe inaugurato la stagione dei sequestri di persona al Nord, in particolare in Lombardia. Iniziò in quegli anni, con lo sfruttamento dei movimenti migratori e l'istituto del soggiorno obbligato, l'espansione della 'ndrangheta nel centro-nord della penisola[16].

In Calabria si andò consolidandosi il potere delle 'ndrine, legato fondamentalmente allo sfruttamento della terra e alla commercializzazione di prodotti agricoli, di cui stabilivano i prezzi attraverso il controllo dei mercati ortofrutticoli. Nella piana di Gioia Tauro si affermò la signoria dei Piromalli, mentre nella Locride spadroneggiava Antonio Macrì, ma la presenza 'ndranghetista si affermò anche nelle grandi città.

Dalla fine degli anni '50, la 'ndrangheta si avviò definitivamente ad essere un'organizzazione criminale dotata di una propria specificità ma con un crescente denominatore comune rispetto a Mafia e Camorra. Un importante momento di svolta fu rappresentato dalla fine del regime di zona internazionale, e quindi di porto franco, di Tangeri, con un trattato firmato il 5 luglio 1956 e ufficialmente entrato in vigore il 1° gennaio 1957: da quel momento il contrabbando di sigarette necessitò di nuove rotte e la Calabria offriva molte opportunità.

Infatti, le sue coste, lunghe e poco controllate, rappresentavano il passaggio ideale tra la Puglia (in particolare Taranto), la Sicilia e soprattutto la Campania, dove il contrabbando poteva contare su un'alta operatività dei gruppi criminali. Le 'ndrine della Calabria non si lasciarono sfuggire l'occasione e stabilirono subito rapporti con la camorra, referente finale del contrabbando. Consapevoli del proprio ridotto potere criminale, cercarono sponde anche con Cosa Nostra siciliana, assumendo il ruolo di criminalità gregaria delle due organizzazioni mafiose più forti nel contrabbando di sigarette.

Molti 'ndranghetisti vennero direttamente affiliati a Cosa Nostra, a riprova della propria affidabilità criminale: tra di loro c'erano Francesco Furci, di Fiumara di Muro, Antonio Macrì, Giuseppe e Girolamo Piromalli di Gioia Tauro, Domenico Tripodo di Sambatello, Francesco Canale di Reggio Calabria, che fino agli anni '70 furono gli uomini più prestigiosi e influenti della 'ndrangheta. Tripodo, in particolare, era stato compare d'anello al matrimonio di Totò Riina.

La trasformazione degli anni Sessanta

Nel corso degli anni '60 la 'ndrangheta cominciò a diversificare le proprie fonti di accumulazione di capitali, sfruttando il fiume di denaro pubblico che venne elargito dalla Cassa per il Mezzogiorno per incentivare il processo di urbanizzazione e di progresso economico della Calabria. Il rapporto con la politica divenne inevitabile e il sodalizio criminale si tradusse in una colata di cemento con effetti per nulla dissimili al famoso Sacco di Palermo: i centri storici venivano sventrati per costruire nuovi palazzi e, quando le aree a disposizione finivano, si costruiva su dirupi e montagne, oltreché fino in riva al mare, deturpando coste e spiagge. I piani regolatori divennero il nuovo strumento di dominio della 'ndrangheta in quegli anni, il luogo su cui si consumò l'alleanza con la politica e l'imprenditoria. Ci fu, in quegli anni, una vera e propria esplosione di studi tecnici e di progettisti legati al ceto politico dominante[17].

Il 23 giugno 1967 vi fu la prima strage di 'ndrangheta, quella di Piazza Mercato a Locri: persero la vita Domenico Cordì, a capo dell'omonima 'ndrina che comandava Locri, Vincenzo Saracino e Carmelo Siciliano, vittima innocente. I presunti esecutori e mandanti dell’omicidio furono assolti per insufficienza di prove. Tuttavia, secondo le ricostruzioni, a sparare furono due sicari siciliani appartenenti a Cosa nostra, Tommaso Scaduto e Antonio Di Cristina, che punirono Cordì per aver rubato 1700 casse di sigarette di contrabbando date dai siciliani ad Antonio Macrì.

Due anni dopo, il 26 ottobre 1969, si tenne un importante summit di 'ndrangheta, quello di Montalto, considerato la prima tappa verso l'unitarietà della 'ndrangheta per via delle parole usate da Giuseppe Zappia durante la riunione: "Non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è 'ndrangheta di Ntoni Macrì, non c’è 'ndrangheta di Peppe Nirta! Dobbiamo essere tutti uniti, chi vuole stare sta e chi non vuole se ne va"[18]. Tuttavia, il Summit venne interrotto dall'irruzione delle forze dell'ordine, che arrestarono 72 persone.

Gli anni Settanta, i Moti di Reggio e la prima guerra di ‘ndrangheta

Negli anni '70 la 'ndrangheta fece un nuovo balzo in avanti nella propria scalata ai vertici del fenomeno mafioso, realizzando un nuovo ciclo di "accumulazione primitiva" (Dalla Chiesa, 2010), che si poggiò su tre elementi costitutivi:

  1. I lavori per la realizzazione del tratto calabrese dell'A3, meglio conosciuta come Salerno-Reggio Calabria, sui quali le 'ndrine imposero le proprie attività di protezione e mediazione (lavori per ditte amiche), ottenendo una tacita complicità da parte delle maggiori imprese nazionali, che accettarono senza fiatare le loro condizioni;
  2. I lavori per il porto di Gioia Tauro, progettato come porto industriale al servizio del mai realizzato V Centro siderurgico, inaugurato solo nel 1992;
  3. I sequestri di persona, che vennero effettuati in grande stile su tutto il territorio nazionale (ad eccezione di Val d'Aosta, Friuli Venezia Giulia, Molise e Basilicata) e raggiunsero l'apice di violenza in Lombardia e in Calabria.
Una foto d'epoca dei Moti di Reggio

Con riferimento ai primi due punti, l'insieme degli interventi pubblici autorizzati in Calabria erano parte del c.d. "Pacchetto Colombo", dal nome del Presidente del Consiglio allora in carica che varò un piano di 1300 miliardi di lire per la costruzione di impianti chimici e siderurgici nella provincia di Reggio Calabria. Il Pacchetto nacque a seguito dei "Moti di Reggio", una sommossa popolare avvenuta a Reggio Calabria dal luglio del 1970 al febbraio del 1971, per protestare contro la decisione di collocare il capoluogo della neo-istituita Regione Calabria a Catanzaro.

Il malcontento di quei mesi era stato da subito raccolto e strumentalizzato dalle fazioni di estrema destra che attraverso le frange più estremiste rilanciarono lo slogan di antica memoria “Boia a chi molla”. In questo clima caldo Junio Valerio Borghese, ex-comandante della Decima Mas, tentò un golpe neo-fascista, nella notte tra il 7 e l'8 dicembre. Nel contempo la destra eversiva e i servizi segreti stipularono accordi con la ‘ndrangheta e la massoneria deviata. I promotori degli accordi furono i De Stefano di Reggio Calabria e i Nirta e i Romeo di San Luca. Per tutto il periodo dei moti di Reggio vi furono intensi rapporti di interscambio tra ‘ndranghetisti, esponenti della destra eversiva, membri dei servizi segreti e soggetti legati alla massoneria deviata, rapporti che persistono ancora oggi. La latitanza di Franco Freda, il terrorista di estrema destra imputato per la strage di Piazza Fontana a Milano del 1969, venne infatti garantita da Giorgio De Stefano, cugino di Paolo De Stefano: l’episodio venne anche confermato dal collaboratore di giustizia Filippo Barreca che dichiarò di averlo personalmente ospitato nella sua abitazione[19].

Tra le opere finanziate col "Pacchetto Colombo" vi fu anche la Liquichimica di Saline Joniche, una frazione di Montebello Jonico (provincia di Reggio Calabria), che rimase operativo per soli due giorni e devastò completamente la zona. La principale 'ndrina che gestì la realizzazione fu quella degli Iamonte di Melito di Porto Salvo, confinante con Montebello Jonico. Fu il capo 'ndrina Natale Iamonte ad organizzare la spartizione degli appalti insieme ad altre famiglie della ‘ndrangheta, di Cosa nostra e della mafia italo-canadese.[20]

Nel 1974 scoppiò la cosiddetta Prima Guerra di 'ndrangheta, con l'omicidio di Giovanni De Stefano e il ferimento di suo fratello Giorgio: il conflitto, che vide impegnati principalmente i clan di Reggio Calabria, causò oltre 230 morti, tra cui il vecchio Antonio Macrì e Domenico Tripodo (ucciso nel carcere di Poggioreale dagli uomini di Raffaele Cutolo come regalo all'amico Paolo De Stefano) e terminò nel 1977.

A metà degli anni '70, inoltre, le famiglie più importanti della 'ndrangheta decisero di entrare a far parte delle logge massoniche deviate, modificando profondamente la struttura stessa della 'ndrangheta, per assicurarsi la partecipazione in grandi affari economici a livello nazionale. Per raggiungere questo obiettivo era necessario infatti avere a che fare con diverse categorie di esponenti della società civile (magistrati, militari, servizi segreti, notai, banchieri, economisti, imprenditori, architetti e professionisti vari), con le quali era impossibile avere rapporti alla luce del sole. Nacque così la c.d. "Santa", che divenne poi la prima dote della "Società Maggiore" (in seguito furono creati anche il Vangelo, il Trequartino, il Padrino e l'Associazione), formata in nome di Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garilandi e Giuseppe La Marmora.

A proposito dell'ingresso della 'ndrangheta nella massoneria, i magistrati della DDA di Reggio Calabria scrissero nel 1994:

«[...] non può avvenire se non dopo un mutamento radicale nella "cultura" e nella politica della 'ndrangheta, mutamento che passa da un atteggiamento di contrapposizione, o almeno di totale distacco, rispetto alla società civile, a un atteggiamento di integrazione, alla ricerca di una nuova legittimazione, funzionale ai disegni egemonici non limitati all'interno delle organizzazioni criminali, ma estesi alla politica, all'economia, alle istituzioni. L'ingresso nelle logge massoniche esistenti o in quelle costituite allo scopo doveva dunque costituire il tramite per quel collegamento con quei ceti sociali che tradizionalmente aderivano alla massoneria, vale a dire professionisti (medici, avvocati, notai), imprenditori, uomini politici, rappresentanti delle istituzioni, tra cui magistrati e dirigenti delle forze dell'ordine. Attraverso tale collegamento la 'ndrangheta riusciva a trovare non soltanto nuove occasioni per i propri investimenti economici, ma sbocchi politici impensati e soprattutto quella copertura, realizzata in vario modo e a vari livelli (depistaggi, vuoti di indagine, attacchi di ogni tipo ai magistrati non arrendevoli, aggiustamenti dei processi, ecc.), cui è conseguita per molti anni la sostanziale impunità che ha caratterizzato tale organizzazione criminale, rendendola quasi "invisibile" alle istituzioni, tanto che solo da un paio di anni essa è balzata all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale e degli organi investigativi più qualificati. Naturalmente l'inserimento nella massoneria, che per quanto inquinata restava pur sempre un'organizzazione molto riservata ed esclusiva, doveva essere limitato a esponenti di vertice della 'ndrangheta, e per fare questo si doveva creare una struttura elitaria, una nuova dirigenza, estranea alle tradizionali gerarchie delle locali, in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i legami culturali della vecchia onorata società. Nuove regole sostituivano quelle tradizionali, che restavano in vigore solo per i gradi meno elevati e per gli ingenui, ma non vincolavano certo personaggi come Antonio Nirta o Giorgio De Stefano, che si muovevano con tranquilla disinvoltura tra apparati dello Stato, servizi segreti, gruppi eversivi. Persino l'attività di confidente, un tempo simbolo dell'infamia, era adesso tollerata e pratica, se serviva a stabilire utili relazioni con rappresentanti dello Stato o se serviva a depistare l'attività investigativa verso obiettivi minori.»[21]

Se sul fronte della 'ndrangheta ci furono forti resistenze, poi superate, anche in seno alla Massoneria si registrarono forti dissensi, come quello dell'avvocato generale dello Stato Francesco Ferlaino che proprio per la sua contrarietà alla degenerazione della massoneria in una struttura mafiosa e criminale venne ucciso il 3 luglio 1975 a Lamezia Terme.

Gli anni Ottanta, il narcotraffico e la seconda guerra di ‘ndrangheta

All'inizio degli anni '80 la 'ndrangheta era una "criminalità minore", come la camorra di uno-due lustri prima. La stessa legge Rognoni-La Torre la inseriva solamente tra le "altre manifestazioni criminali similari". La parola 'ndrangheta era ancora tabù e veniva nominata solo da alcuni esponenti locali del Partito Comunista Italiano, con qualche rara eccezione a livello nazionale. Anche per questo alcuni suoi militanti divennero dei bersagli per la loro attività antimafia, come Rocco Gatto, ucciso a Roccella Jonica nel 1977, e Giuseppe Valarioti, ammazzato a Nicotera nel 1980.

Solo che proprio in quegli anni la 'ndrangheta disponeva finalmente dei capitali necessari per entrare nel narcotraffico, sfruttando anche la propria rete a livello nazionale e internazionale. L'ingresso sui nuovi mercati non fece abbandonare il controllo del territorio in Calabria per inserirsi in appalti e subappalti pubblici, oltre a diverse frodi sui fondi della Comunità europea nel settore agro-alimentare, ma esattamente come era avvenuto per Cosa Nostra qualche anno prima, il flusso enorme di denaro generato dal traffico di stupefacenti scatenò una vera e propria guerra in seno alla 'ndrangheta, la seconda, che durò dal 1985 al 1991.

Tra i fatti significativi degli anni '80 vi fu anche l'elezione nel 1983 a sindaco di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia, di Francesco Mancuso, latitante: solo l'intervento dell'allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini mise fine ancora prima di incominciare alla nuova amministrazione, ordinando lo scioglimento del consiglio comunale (anticipando di otto anni la legge in materia).

Inoltre la 'ndrangheta entrò anche nell'affare dei rifiuti tossici con i casi di motonavi scomparse come: la Nikos I (1985) affondata tra Libano e Grecia; la Mikigan (1986) nel Tirreno calabrese; la Rigel (1987) affondata nei pressi di Capo Spartivento; la Anni (1989) a largo di Ravenna; la Jolli Rosso, (1990) in provincia di Cosenza; la Marco Polo (1993) nel canale di Sicilia, e la Koraline (1995) a largo di Ustica.

Gli anni Novanta, la pax 'ndranghetista e il cono d'ombra

Antonino Scopelliti

Quando cadde il muro di Berlino, il 9 novembre 1989, la 'ndrangheta poteva oramai considerarsi "criminalità emergente", tesa a rivaleggiare con le altre due organizzazioni criminali e a stabilire con esse rapporti alla pari. Tanto che il 9 agosto 1991 venne ucciso a Villa San Giovanni il magistrato Antonino Scopelliti, impegnato nel ruolo di pubblica accusa presso la Cassazione nel Maxiprocesso di Palermo: l'omicidio, benché impunito, è tuttora considerato l'evento conclusivo della Seconda guerra di 'ndrangheta ed è inquadrabile come favore degli 'ndranghetisti ai Corleonesi, in particolare per il ruolo di mediazione che ebbero nella risoluzione della guerra interna all'organizzazione[22].

Si legge nella sentenza del Processo Olimpia: «La guerra termina con una "pace" armata che significa tradizionalmente spartizione delle zone d’influenza e degli affari, emergendo sempre più l’esigenza di un momento di raccordo e di coordinamento delle principali e più potenti cosche»[23] La pax 'ndranghetista stabilì una nuova strategia, basata sull'invisibilità dell'organizzazione, la fine delle faide e la collaborazione tra 'ndrine per accaparrarsi affari, introducendo profonde modifiche agli assetti nella struttura di vertice. Questo mutamento di struttura venne riferito da Vincenzo e Salvatore Grimaldi, figli di Giuseppe Grimaldi la cui testa venne mozzata nel maggio 1991 nell'ambito della Faida di Taurianova: i due, contrari alla decisione del nuovo organismo di porre fine alla faida, iniziarono a collaborare con la giustizia a Genova.

Gli anni '90 furono un grande periodo di espansione della 'ndrangheta, che si avvantaggiò del c.d. "cono d'ombra" (Dalla Chiesa, 2010) generato dallo stragismo di Cosa Nostra e di Totò Riina: nonostante le numerose inchieste giudiziarie, anche al Nord, che coinvolsero suoi esponenti di spicco, riuscì a mantenere la propria invisibilità e a guadagnarsi un crescente ruolo nel narcotraffico, soprattutto per quanto riguarda la cocaina. La presenza strutturata di locali in diversi paesi del mondo, iniziata negli anni '20 con le presenze in Canada e in Australia, permetteva alla 'ndrangheta di contare su un vasto network criminale che aveva come suo epicentro la Calabria.

Gli anni Duemila: l'egemonia criminale

All'inizio del nuovo Millennio, la 'ndrangheta divenne la "criminalità egemone" del fenomeno mafioso, grazie agli errori di interpretazione, all'attenzione mediatica concentrata sulle altre due organizzazioni, al basso tasso di conflittualità con lo Stato, ai rapporti organici con la politica e pezzi di imprenditoria, oltre a una società civile in molti casi indifferente, che in alcuni territori era addirittura complice.

Un primo riflettore sull'attività della 'ndrangheta si accese in occasione della Strage di Duisburg del 15 agosto 2007: quegli omicidi plateali, che riflettevano dinamiche tutte calabresi, costrinsero anche i media più riottosi ad occuparsi dell'organizzazione criminale calabrese e delle sue ramificazioni all'estero.

Il vero spartiacque fu però l'Operazione Crimine-Infinito del 13 luglio 2010, condotta dalla DDA di Reggio Calabria insieme a quella di Milano, che squarciò definitivamente il velo sulla reale struttura della 'ndrangheta, le sue vaste ramificazioni al di fuori degli originali contesti di insediamento, con una vera e propria strategia di colonizzazione, come venne poi definita da Nando dalla Chiesa[24], e la pesante attività di condizionamento delle amministrazioni pubbliche locali.

Nei Cinque Continenti

La 'ndrangheta nel mondo. Rielaborazione di Pierpaolo Farina, sulla base della mappa di LIMES, Rivista italiana di Geopolitica, Il Circuito delle Mafie, numero 10, novembre 2013

L’11 febbraio 2014 un’operazione condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria in collaborazione con l’FBI fece scattare le manette per oltre quaranta persone con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, spaccio e riciclaggio di denaro sporco. L'operazione venne soprannominata «New Bridge» per indicare il "Nuovo Ponte" tra le due sponde dell'Oceano Pacifico, dopo lo smantellamento di quello vecchio nel 2008 che riguardava le famiglie mafiose palermitane legate al boss di Cosa Nostra Salvatore Lo Piccolo e alla famiglia Gambino.

Sei anni prima, infatti, l’inchiesta «Old Bridge» portò in carcere ottanta persone, accusate a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, estorsioni e traffico di stupefacenti, e mise in luce i rapporti tra Cosa Nostra americana con il mandamento di Passo di Rigano-Boccadifalco, già storico prolungamento di Cosa Nostra siciliana negli USA: il Vecchio Ponte Palermo-New York City era stato messo in piedi dagli «scappati» della Seconda guerra di Mafia, vinta dai Corleonesi, insieme ai membri della famiglia Gambino, storicamente attivi nel riciclaggio di denaro nel settore dell’edilizia, degli appalti pubblici e degli alimentari.

Le fondamenta del «New Bridge» vennero gettati invece la ‘ndrangheta, grazie ai suoi ottimi rapporti con i narcos messicani, che hanno garantito per la loro affidabilità e solvibilità: gli ‘ndranghetisti hanno tuttora nomea di essere uomini di parola che pagano sempre. Proprio per questo le famiglie di Cosa Nostra negli USA e in Canada erano ansiose di instaurare una partnership, soprattutto per via del controllo totale della 'ndrangheta sul porto di Gioia Tauro, da cui passa tutt'oggi la metà della droga che arriva in Italia[25].

Secondo Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria che ha portato avanti la «New Bridge», l’operazione dimostrava come la ‘ndrangheta fosse l’unica organizzazione mafiosa presente in tutti e cinque i continenti[26].

La Struttura

La ‘ndrangheta si sviluppa con una struttura orizzontale per via della sua conformazione geografica: sono tante infatti le difficoltà di collegamento tra un comune e l’altro causando la formazione di più ‘ndrine nella regione che si interessano al controllo delle attività presenti nel proprio territorio.

Dall’unione di più cosche si delinea la “locale”, ovvero l’unità fondamentale di aggregazione mafiosa su un determinato territorio, formato minimo da 49 affiliati. Tutte le locali sono gestite solitamente da una terna di ‘ndranghetisti nota come “copiata” rappresentata dal capo bastone, dal contabile e dal capo crimine. Secondo le norme della ‘ndrangheta ogni affiliato che si presenta in una diversa locale deve dichiarare la sua appartenenza ad una copiata specifica e stessa cosa accade quando un affiliato di grado superiore lo richiede ad un affiliato gerarchicamente inferire per contrastare le infiltrazioni esterne.

Ogni capo bastone ha potere di vita e di morte sui suoi uomini e ha diritto all’obbedienza assoluta. La carica si tramanda da padre in figlio ed ha il potere di affiliare anche elementi esterni alla famiglia anagrafica. Solitamente il capo bastone fa avvicinare tutti i membri della propria famiglia naturale all’organizzazione in modo da renderla più sicura ed organizza matrimoni combinati per creare alleanze.

Il contabile oltre che delle finanze e della divisione dei proventi, si occupa della cosiddetta “baciletta” cioè la casa comune dove affluiscono i proventi delle attività criminali mentre il capo crimine è responsabile della pianificazione e dell’esecuzione di tutte le azioni delittuose.

Chi non fa parte dell’organizzazione viene solitamente definito contrasto mentre i fiancheggiatori che possono entrare a far parte dell’organizzazione sono detti contrasti onorati.

All’interno di questa organizzazione di stampo mafioso troviamo una divisione tra la Società Maggiore e la Società Minore. A quest’ultima fanno capo i picciotti semplici e di giornata che hanno il compito di avvisare tutti i membri delle riunioni indette – si tratta del primo vero grado nell’ascesa interna alla 'ndrangheta che deve eseguire gli ordini e dare completa obbedienza agli altri gradi della cosca con l’ambizione e la speranza di ricavarne benefici; i camorristi che possono essere semplici, di società, di fibbia che possono presiedere una riunione in cui vengono affiliati nuovi membri, formati che possono fare le veci del capo bastone e di sgarro noto per il suo valore; in fine gli sgarristi o camorristi di sgarro, che si distinguono in sgarristi di sangue e quindi che

hanno commesso almeno un omicidio o sgarristi definitivi che danno esempio di provata fedeltà all’organizzazione possono ricoprire il ruolo di colui che riscuote le tangenti.

Ad ogni ruolo corrisponde un santo: per esempio il grado di picciotto fa riferimento a santa Liberata, il camorrista a santa Nunzia e lo sgarrista a santa Elisabetta.

Nella Società Maggiore troviamo, in ordine crescente, il Santista, il Vangelo, il Quartino o Trequartino, il Quintino e l’Associazione.

La dote di Santista, ovvero il grado che può essere acquisito da uno sgarrista il quale ha dimostrato un certo valore, permette di raggiungere una posizione di élite nell’organizzazione e concede la formazione della società Maggiore, chiamata Santa con riferimento ai personaggi come Alfonso La Marmora, Giuseppe Garibaldi e Mazzini. Con la Santa la ‘ndrangheta si apre a compromessi con i poteri devianti delle istituzioni, fin quando si è nella posizione di sgarrista infatti non si può entrare a far parte di alcuna struttura pubblica, di avere parenti nelle forze dell’ordine e avere tessere dell’amministrazione pubblica mentre i santisti possono intrattenere rapporti con la politica.

In ordine si ha poi la dote di Vangelo, detta anche ruolo di vangelista perché si ottiene dopo un giuramento di fedeltà all’organizzazione mettendo una mano su una copia del Vangelo, che è stata creata da alcuni santisti per distinguersi, ovvero personaggi eccelsi, conoscitori dei diritti e dei doveri dell’Onorata Società con mansioni decisionali al massimo livello come nel caso di Antonio Pelle e dei Nirta o di Sebastiano Romeo e Giuseppe Muià. Le figure religiose a cui si fa riferimento, in questo caso, sono tutti gli apostoli e i santissimi Pietro e Paolo, mentre le figure storiche sono Giuseppe Mazzini e Camillo Benso di Cavour. Ancora, si ha la dote di Quartino o Trequartino creata solo per comodità di alcuni personaggi che volevano rimanere particolarmente segreti. E, infine, la dote di Quintino e l’Associazione, gradi estremamente importanti nell’organizzazione in quanto attribuiti ad un numero ristretto dei membri che permettono privilegi - responsabilità esclusive: il primo, il Quintino, si distingue per un tatuaggio con la stella a cinque punte mentre il secondo, l’Associazione, è concessa ai capi delle famiglie che si riuniscono in forma di consiglio e tra questi pochi, non più di sette persone in Calabria, è possibile ricordare Antonio Papalia e Domenico Tegano.

Già a partire dalla fine dell’Ottocento, un’altra figura di particolare importanza nella 'ndrangheta è svolta dalla "sorella d'omertà", ovvero una donna che svolge diversi compiti come dare assistenza ai latitanti, controllare l'andamento delle estorsioni, riscuotere le tangenti.

Il codice della ‘ndrangheta

“La ‘ndrangheta è rappresentata dall’albero della scienza che è una grande quercia alla cui base è collocato il capo bastone o mammasantissima ossia quello che comanda. Il fusto (il tronco) rappresenta gli sgarristi che sono la colonna portante della ‘ndrangheta. Il rifusto (grossi rami che partono dal tronco) sono i camorristi che rappresentano gli affiliati con dote inferiore alla precedente. I ramoscelli (i rami propriamente detti) sono i picciotti cioè i soldati della ‘ndrangheta. Le foglie (letteralmente così) sono i contrasti onorati cioè i non appartenenti alla ‘ndrangheta. Infine ancora le foglie che cadono sono gli infami che per la loro infamia sono destinati a morire”.

Quello della ‘ndrangheta è un codice che bisogna memorizzare non è consentito trascriverlo anche se molti hanno trasgredito a questa regola. Inizialmente infatti i membri dell’organizzazione comunicano preferibilmente a voce sia per evitare di lasciare testimonianze scritte ma anche per l’alto grado di analfabetismo del tempo; successivamente molte regole, codici, giuramenti ed altri documenti vengono riportati su carta.

Il primo codice di cui si ha notizia è quello di Nicastro del 1888 che contiene 17 articoli riguardanti gli obblighi e doveri degli affiliati , la formula del giuramento, la parola d’ordine per riconoscersi fra loro e distinguersi da quelli di altra società. Il primo codice dell’organizzazione criminale, scoperto nella zona di Seminara nel 1897, viene riportato in una sentenza del tribunale di Palmi con tutte le regole per essere ammessi al “gruppo” nel grado di picciotti e le norme di comportamento oltre ai ruoli da ricoprire.

Nel 1902, a Catanzaro, i carabinieri interrompono una riunione di picciotti e scoprono due fogli di carta, uno con il titolo “Società della malavita catanzarese” che riportava i nomi di 80 individui e rispettivo grado di presidente o capo contabile, camorrista e picciotto l’altro titolato “Statuto della malavita catanzarese” con tutte le norme, specie dell’ammissione ed espulsione.

All’interno dei codici si fa riferimento più volte all’importanza dell’omertà, valore primario nella ‘ndrangheta che la rende forte e coesa: Enzo Ciconte la definisce “scudo protettivo”. Entrare come membro nella picciotteria significa quindi far proprie le regole di questi codici d’onore.

Ancora oggi, per avere accesso all’organizzazione è prevista una pratica precisa: pungersi il dito o il braccio con un ago o con un coltello facendo cadere qualche goccia di sangue sull’immagine di san Michele Arcangelo, protettore della ‘ndrangheta, che poi viene bruciata a seguito di alcune parole pronunciate dal capobastone che suonano come una minaccia “Come il fuoco brucia questa immagine, così brucerete voi se vi macchiate d’infamità; se prima vi conoscevo come un contrasto onorato da ora vi riconosco come un picciotto d’onore”. Dopo il giuramento, ancora, per rendere ufficiale l’ingresso nell’organizzazione bisogna pagare la ‘ dritta’, ovvero la tassa d’ingresso, nella ‘baciletta’, la cassa comune della società custodita dal contabile.

Infine, oltre al linguaggio parlato e scritto la ‘ndrangheta si rende forte anche grazie a omicidi, furti, danneggiamenti, taglio degli alberi da frutta e tante altre forme intimidatorie che rendono facilmente comprensibile il suo operato a tutta la popolazione.

Economia e Attività Criminali

Rapporti con la Politica

Fatti Principali

Per saperne di più

Bibliografia

  • Enzo Ciconte, 'Ndrangheta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008
  • Dalla Chiesa N. - Panzarasa M., Buccinasco - la 'ndrangheta al nord, Torino, Einaudi, 2012
  • Dalla Chiesa N., La Convergenza, Milano, Melampo Editore, 2010
  • DDA di Reggio Calabria, Decreto di Fermo di indiziato di delitto - Procedimento Penale n. 1389/2008 R.G.N.R. D.D.A. (Operazione Crimine), Tribunale di Reggio Calabria, 5 luglio 2010
  • John Dickie, Onorate Società, Bari, Laterza, 2012
  • Limes, Rivista italiana di Geopolitica, Il Circuito delle Mafie, numero 10, novembre 2013
  • Andrea Zolea, 'ndrangheta, in Strutture: Cosa Nostra e ‘ndrangheta a confronto, WikiMafia - Libera Enciclopedia sulle Mafie, dicembre 2013

Note

  1. Traduzione dal Vocabolario GRECO-ITALIANO di Lorenzo Rocci, Società Editrice Dante Alighieri
  2. Ciconte E. - Macrì V. - Forgione F., Osso, Mastrosso, Carcagnosso - Immagini, miti e misteri della 'ndrangheta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010
  3. Citato in Enzo Ciconte, 'Ndrangheta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, p.25
  4. Citato in Ibidem, p.26
  5. Citato in John Dickie, Onorate Società, Bari, Laterza, 2012, p.156
  6. Citato in Ciconte, 2008, p.29
  7. Corrado Alvaro, Gente di Aspromonte, Firenze, Le Monnier, 1930
  8. Ciconte, 2008, p.41 e ss.
  9. Dickie, 2012, p.158
  10. Citato in Dickie, 2012, p.162
  11. Citato in Dickie, 2012, p.164
  12. Citato in Dickie, 2012, p.173
  13. Citato in Dickie, 2012, p.179
  14. Citato in Dalla Chiesa - Panzarasa, 2012, p. 47
  15. Citato in Dickie, 2012, p. 307
  16. Per approfondire il tema, si veda Dalla Chiesa - Panzarasa, 2012, pp. 24-38
  17. Cfr Ciconte, 2008, p. 75
  18. Citato nel Decreto di Fermo di indiziato di delitto - Procedimento Penale n. 1389/2008 R.G.N.R. D.D.A. (Operazione Crimine), Tribunale di Reggio Calabria - Direzione Distrettuale Antimafia, 5 luglio 2010, p. 59
  19. Riportato in Zolea, 2013, p. 30
  20. Riportato in Giovanni Tizian, L’ex Liquichimica arricchì solo i boss durò due giorni e poi chiuse i cancelli, Inchieste Repubblica, 27 marzo 2012
  21. DDA di Reggio Calabria, Richiesta di misura cautelare - procedimento penale n. 46/93, 21 dicembre 1994, meglio noto come "Operazione Olimpia", citato a p. 33 della Relazione Annuale sulla 'ndrangheta della Commissione Parlamentare Antimafia del 19 febbraio 2008
  22. il collaboratore di giustizia Francesco Fonti, durante la propria deposizione al Processo Olimpia, dichiarò che fu Leoluca Bagarella a svolgere questa funzione
  23. Citato in Zolea, 2013, p. 33
  24. Cfr Dalla Chiesa, Panzarasa, 2012
  25. Relazione Annuale, Direzione Nazionale Antimafia, gennaio 2014, p.770
  26. 'Ndrangheta: Gratteri, unica mafia presente in tutti continenti, Adnkronos, 12 febbraio 2014