Gaspare Spatuzza

Versione del 25 gen 2015 alle 16:40 di Leadermassimo (discussione | contributi)
(diff) ← Versione meno recente | Versione attuale (diff) | Versione più recente → (diff)


Gaspare Spatuzza (Palermo, 8 aprile 1964), detto “u Tignusu”, il pelato, a causa della sua calvizie, è un collaboratore di giustizia, già esponente di Cosa Nostra in qualità di affiliato alla Famiglia del quartiere Brancaccio di Palermo.

Gaspare Spatuzza

Biografia

I primi anni e l'affiliazione a Cosa Nostra

Nato a Palermo, nel quartiere Brancaccio, tristemente noto come principale centro di reclutamento di Cosa Nostra, Spatuzza abbracciò la mentalità mafiosa fin da piccolo (10-11 anni) come molti altri bambini del quartiere, decidendo di aderire all'organizzazione sotto l'ala protettiva della famiglia Graviano, per vendicare la morte di uno dei suoi fratelli, Salvatore, che nel 1975 aveva partecipato al sequestro a scopo estorsivo di una donna non autorizzato dalla Cupola e quindi era stato ammazzato (la lupara bianca molto probabilmente fu disposta da Totuccio Contorno).

"Aderivo a Cosa Nostra per spirito di fratellanza, di appartenenza, al di là della questione di mio fratello che volevo vendicare. Un senso di fratellanza. Io vedevo nella famiglia Graviano: mio padre, mia mamma, il mio presidente, il mio Stato… era il mio tutto. Chiamavo Giuseppe Graviano «madre natura» perché gli davo la valenza come comandante in capo, madre della nostra esistenza, non solo mia, ma anche degli altri, perché la morte come te la poteva dare così te la poteva togliere."[1]

Il quartiere Brancaccio era un luogo di reclutamento particolarmente fertile. In questi luoghi la Giustizia dello stato non aveva accesso, i bambini abbandonavano le scuole e crescevano per le strade, dove erano facili vittime per i boss che apparivano ai loro occhi come la personificazione della forza e del potere. I giovani venivano socializzati alla mentalità mafiosa al punto che la mafia diveniva per loro una “fede”, della quale i boss erano i rappresentanti, i giudici e gli ambasciatori. Spatuzza ci tenne particolarmente a sottolineare di non aver mai ricavato nulla a livello economico dall’attività criminale: non era un mercenario e non era diventato mafioso per interesse.

La filosofia della famiglia di Brancaccio era che l’uomo d’onore o l’affiliato non doveva essere retribuito altrimenti diventava un mercenario, ma poteva godere di tutti quei benefici, per esempio lavorativi... i benefici, in sostanza, erano che veniva data la possibilità di poter investire soldi propri con la certezza del ricavato... perché non ci sono perdite. In nessuna attività di Cosa Nostra ci sono perdite[2]

La carriera mafiosa

Spatuzza fu per la maggior parte della sua vita da mafioso un semplice soldato che eseguiva fedelmente e precisamente i compiti assegnatigli. Spietato killer (si è accusato di oltre 40 omicidi), organizzatore di gruppi di fuoco mafiosi, solo nel 1995, dopo l’arresto di Nino Mangano, venne convocato dai vertici di Cosa Nostra rimasti in libertà (Matteo Messina Denaro, Giovanni Brusca, Vincenzo Sinacori, Nicola Di Trapani e Antonino Melodia), formalmente affiliato e messo a capo della famiglia di Brancaccio. Tuttavia, pur essendo stato reggente di mandamento, non venne mai ammesso alle stanze del potere decisionale. La cieca fiducia dei Graviano nei suoi confronti gli permise comunque di entrare in possesso di informazioni che si sarebbero rivelate fondamentali quando decise di collaborare con la giustizia.

L'arresto

Il 2 luglio 1997 Spatuzza venne arrestato, a seguito di una spettacolare azione di polizia[3], organizzata grazie alle rivelazioni di un pentito: alle 17:00 oltre 100 agenti di polizia accerchiarono i viali dell'Ospedale Cervello, nella borgata di Cruillas, mentre Spatuzza si trovava in una Lancia Y10 parcheggiata ad un centinaio di metri dal padiglione di cardiologia. Accortosi della presenza degli agenti, Spatuzza tentò la fuga, invano: gli agenti spararono svariati colpi in aria e alcuni ad altezza uomo, un proiettile colpì la mano del killer, che alla fine si arrese alla cattura.

Genesi di un pentito

Il percorso che portò Spatuzza a collaborare con la giustizia iniziò nel 1999, quando fu trasferito nella Casa Circondariale di Tolmezzo. Nello stesso carcere erano rinchiusi anche i fratelli Graviano, con i quali si trovò a condividere l’ora d’aria, ed in uno di questi incontri Giuseppe gli chiese di far arrivare, attraverso i suoi familiari, messaggi all'esterno con direttive volte a riorganizzare il mandamento di Brancaccio, ma Spatuzza si rifiutò, facendo sapere ai due fratelli la propria dissociazione da Cosa Nostra e scrivendo al direttore del carcere per chiedere l'applicazione degli anni di isolamento che gli erano stati inflitti con la sentenza per l'omicidio di Don Puglisi.

Nel 2000 venne accontentato e da solo in cella ebbe modo di riflettere sul proprio passato. Lui stesso ha raccontato che tutto nacque dopo aver letto da qualche parte "empatia" e, non conoscendone il significato, andò a cercarlo sul dizionario: si immedesimò così con il dolore dei familiari delle vittime delle stragi di mafia e a seguito di questo tentativo sviluppò un senso di colpa che portò al rimorso per quel che aveva fatto.

Nel 2005 venne trasferito nel carcere di Ascoli Piceno, dove cominciò a manifestare una condotta diversa da quella degli altri detenuti al 41 bis: rifiutava beni materiali, come vestiti di marca e cibo di qualità, regalando tutto quello che aveva posseduto in termini di vestiario da mafioso alla Caritas. Nel carcere incontrò padre Pietro Capoccia, cappellano del carcere, che si adoperò per farlo accettare all'Istituto Superiore di Scienze Religiose, a seguito della sua manifestazione di interesse nelle Sacre Scritture.

Il cappellano non solo gli fece ottenere l'iscrizione, benché Spatuzza avesse solo la licenza elementare, ma gli pagò anche l'iscrizione e gli regalò i libri. Quell'episodio trasformò Spatuzza in un detenuto modello, ma nonostante numerosi tentativi da parte dell'autorità, in particolare del Procuratore Vigna, si rifiutò sempre di collaborare con la giustizia.

La decisione di collaborare

Durante la messa delle Palme, il 17 marzo 2008, rimase colpito da un passo trascritto sul foglietto destinato ai fedeli: "Si pensa che basti chiedere perdono a Dio nel proprio cuore per ottenerlo. Ci si dimentica che il peccato ha sempre una dimensione ecclesiale e sociale: è una ferita inflitta alla Chiesa ed è contro la solidarietà umana... nessun uomo è lontano dal Signore. Il Signore ama la libertà, non impone il suo amore. Non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta. Quando il cuore è pronto si aprirà"[4]

Dopo aver assistito nello stesso giorno alla proiezione di un film sulla strage di via D’Amelio e ad una trasmissione sui familiari della vittime, Spatuzza decise di concludere il “bellissimo percorso[5] diventando un collaboratore di giustizia. Informò il magazziniere del GOM (Gruppo Operativo Mobile) della sua volontà di incontrare il procuratore nazionale Pietro Grasso e da quel momento iniziò a parlare.

Le dichiarazioni da pentito

Abbandonato dalla famiglia per la sua scelta, le sue imminenti dichiarazioni suscitarono parecchie perplessità e diffidenze tra gli stessi inquirenti, per via del fatto che non solo erano in conflitto con quanto dichiarato da altri collaboratori, definiti attendibili, ma anche con sentenze passate in giudicato. Tant'è che gli venne inizialmente negato il programma di protezione, ma nonostante ciò, Spatuzza continuò a rendere dichiarazioni agli inquirenti. In uno degli interrogatori, dopo aver espresso un sentimento di disagio, si sentì rassicurato dalle parole del procuratore Sergio Lari, che gli disse: «Ascolti, signor Spatuzza, la vede questa spalla? A me brucia, fa male questa spalla per le tante bare che ho portato dei miei colleghi uccisi dalla mafia. A noi interessa soltanto la verità!»[6]

Spatuzza invitò il magistrato a fare i dovuti riscontri, assicurandogli che stava dicendo tutta la verità. E alla fine i riscontri gli diedero ragione, nello stupore generale, e venne ammesso al programma di protezione. In particolare, le sue dichiarazioni portarono alla scarcerazione dei finti esecutori della Strage di Via D'Amelio.

I contributi alle indagini

I contributi che Spatuzza fornì alle indagini furono molti e preziosi, in particolare di inestimabile valore furono quelli riguardanti le stragi che caratterizzarono il periodo che va dal 1992 al fallito attentato allo stadio Olimpico. Egli aveva partecipato attivamente a tutte e poté chiarire le modalità operative ed organizzative che avevano portato ai vari attentati, oltre al ruolo da protagonisti, anche sul piano esecutivo, dei Graviano che prima erano invece stati condannati solo come mandanti. In modo particolare egli confermò agli inquirenti che tutte le esplosioni erano legate da un filo rosso e facevano parte di un unico disegno di Cosa Nostra, probabilmente volto ad ottenere favori a livello politico.

La strage di Capaci

Innanzitutto contribuì alle indagini della procura di Caltanissetta che indagava sulla strage di Capaci. Spatuzza raccontò di essere stato lui, accompagnato da Fifetto Cannella, Peppe Barranca e Cosimo Lo Nigro a procurare, presso un peschereccio ormeggiato a Porticello, buona parte dell’esplosivo utilizzato per far saltare in aria l’autostrada. Raccontò nei minimi dettagli dove l’esplosivo era stato recuperato, chi lo aveva fornito, chi lo aveva macinato, chi lo aveva confezionato, rimarcando sempre il ruolo da protagonista avuto nelle varie operazioni.

Una volta estratto dagli ordigni bellici, l’esplosivo si presentava solido e quindi occorreva ridurlo in polvere per utilizzarlo. Il materiale duro come “pietra”, veniva prima rotto a “sassetti”, poi macinato con il “mazzuolo” e setacciato con dei “colapasta” per portarlo allo stato di sabbia. Per la lavorazione dell’esplosivo … il comando di Brancaccio impiega una ventina di giorni. Risultato finale: 200 chili di tritolo.[7] Sulla base di queste informazioni venne arrestato il pescatore Cosimo D’amato (condannato all’ergastolo) con l’accusa di aver venduto a Cosa Nostra ordigni bellici inesplosi recuperati in mare.

Spatuzza espresse anche il dubbio che Cosa Nostra possa aver fatto uso, nella progettazione della strage, di consulenti esterni all’associazione. Il dubbio gli venne in quanto le competenze tecniche di Cosa Nostra non erano così avanzate da realizzare un innesco che evitasse l’uscita laterale dell’onda d’urto dell’esplosione e la concentrasse invece sotto la macchina blindata di Falcone. Le indagini sono in corso e ancora non si è arrivati a una verità acclarata su questo particolare.

La strage di via D’Amelio

Le dichiarazioni rese alla procura di Caltanissetta sulla Strage di via D'Amelio hanno reso Gaspare Spatuzza il più importante pentito degli anni 2000. Auto-accusandosi della strage, portò alla luce la falsa ricostruzione giudiziaria dei fatti, obbligando gli inquirenti a ricominciare a distanza di quasi vent’anni le indagini: i primi di luglio del 2008 venne aperto un nuovo procedimento, il numero 1595/08, e le indagini, condotte dal procuratore Sergio Lari, mostrarono fin dai primi riscontri la verità delle dichiarazioni del pentito.

Dopo tre anni, le indagini svolte e avviate grazie alla collaborazione di Spatuzza confluirono in un verbale di quasi 1700 pagine e il 13 ottobre 2011 il procuratore generale Roberto Scarpinato avanzò alla Corte di Appello di Catania (competente sulla revisione dei processi celebrati a Caltanissetta) la richiesta di revisione dei processi Borsellino 1 e Borsellino bis e la richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena nei confronti di undici condannati, di cui otto detenuti.

Inoltre il 2 marzo 2012 il giudice per le indagini preliminari, Giovanna Bonaventura Giunta, emise un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Salvatore Mario Madonia, Vittorio Tutino, Salvatore Vitale, Gaspare Spatuzza, Maurizio Costa[8] e Calogero Pulci. A Madonia, Tutino, Vitale e Spatuzza venne inoltre per la prima volta riconosciuta l’aggravante della “finalità di terrorismo”. I falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, su cui si erano basate le condanne del Processo Borsellino (definito da Sergio Lari «uno dei più clamorosi errori giudiziari o depistaggi della storia del nostro Paese»), vennero rinviati a giudizio per calunnia aggravata. A loro difesa, i falsi pentiti affermarono di essere stati costretti dagli inquirenti a rendere quelle dichiarazioni, suggeritegli attraverso violenze fisiche e verbali.

Spatuzza fornì una ricostruzione della strage del tutto nuova: egli affermò innanzitutto di essere stato lui insieme a Vittorio Tutino a compiere il furto della Fiat 126, di averla “pulita”, cioè non riconoscibile, su ordine di Giuseppe Graviano, e di aver anche provveduto a farne sostituire l’impianto frenante poiché si era accorto che la vettura presentava alcuni problemi alla frizione ed ai freni. Inoltre raccontò di aver recuperato insieme a Tutino, la mattina del 18 luglio 1992, il materiale per predisporre il collegamento a distanza di detonazione della carica esplosiva: un “antennino” e due batterie. Più tardi Fifetto Cannella gli aveva fatto sapere che bisognava spostare l’auto e così aveva provveduto personalmente a guidare la 126 dal garage di corso dei Mille, dove era rimasta nascosta, ad un garage di via Villasevaglios in cui Cannella e Mangano lo avevano condotto.

Ricordò un particolare riguardante gli spostamenti che venne poi verificato: un posto di blocco della Guardia di Finanza che li costrinse a cambiare direzione di marcia. Giunto all’autorimessa, il collaboratore raccontò che oltre ai presenti che conosceva (Renzino Tintirello, Fifetto Cannella e Francesco Tagliavia), aveva notato un uomo sulla cinquantina a lui sconosciuto, la cui presenza sembra confermare il sospetto degli inquirenti, quasi certo alla luce dei recenti sviluppi, di un aiuto tecnico ricevuto da un soggetto esterno all’associazione. Una volta effettuata la consegna della vettura, che in quel box venne imbottita di esplosivo, si recò, come gli era stato ordinato, a rubare le targhe che consegnò la sera stessa a Giuseppe Graviano. A quel punto il suo lavoro era finito, e “mammona” gli consigliò di «tenersi il più lontano possibile da Palermo». Spatuzza fece proprio così: trascorse la domenica con la famiglia in un villino a Campofelice di Roncella e lì apprese dell’avvenuta strage.

La precisione con cui il collaboratore raccontò gli avvenimenti permise agli investigatori di riscontrare la maggior parte delle informazioni e quindi di dichiarare con sicurezza la sua attendibilità. In particolare i procuratori che hanno collaborato con lui sono concordi nell’affermare che il pentito raramente si concesse deduzioni o voli Pindarici, preferendo raccontare solo i fatti e le conversazioni a cui aveva personalmente assistito.

In un’intervista, Giuseppe Quattrocchi, capo della procura della Repubblica di Firenze dichiarò: “Di Spatuzza abbiamo apprezzato proprio questo: il fatto che lui non era portato per i voli, per le supposizioni, per «ho sentito dire che». Lui ci raccontava, ci riferiva delle cose precise, quasi come avesse acquisito la consapevolezza che il sistema corretto della ricerca dei riscontri poteva essere avviato soltanto attraverso questa strada, che è quella che noi abbiamo seguito"[9].

Il capo della procura della Repubblica di Caltanissetta, Sergio Lari, ha sostenuto di aver mutato opinione sulle dichiarazioni di Spatuzza sulla base fondamentalmente di tre “step”: "Un primo step si è avuto quando mi sono recato a fare il sopralluogo, che non era mai stato fatto durante le precedenti indagini, sul posto dove era stata rubata l’autovettura usata come autobomba. Ci andai insieme alla proprietaria della macchina, Pietrina Valenti, la quale indicò un luogo che non corrispondeva assolutamente a quello indicato da Salvatore Candura, che all’epoca si era autoaccusato del furto. Di fronte a questo contrasto facemmo un sopralluogo con Spatuzza il quale, malgrado la situazione dei luoghi fosse parzialmente mutata, non ebbe dubbi nell’indicare nello stesso punto segnalato da Pietrina Valenti"[10].

Il secondo step si ebbe quando il pentito raccontò di aver fatto sostituire l’impianto frenante e di aver pagato al meccanico Costa 100.000 lire. Il procuratore ebbe l’idea di interrogare Agostino Trombetta, socio di Costa nonché collaboratore di giustizia da poco uscito dal programma di protezione. Trombetta ricordò che «un giorno, tornando in officina, l’aveva trovata incustodita e si era molto adirato per questo con il proprio dipendente e socio Maurizio Costa. Costui però si era giustificato dicendo che era andato a trovarlo Spatuzza, il quale gli aveva chiesto di fare la riparazione dei freni di un’autovettura in un altro luogo. Addirittura Trombetta ci riferì un particolare che nessun altro poteva sapere: Costa gli disse che Spatuzza stranamente aveva pagato per questo lavoro 100.000 lire»[11].

La conferma definitiva tuttavia, o per meglio dire il terzo step, arrivò insieme alla relazione dei consulenti tecnici che avevano compiuto gli accertamenti sui resti dell’autobomba, conservati in un parco di una città dell’Umbria: la prova scientifica si unì alla dichiarazione dei due pentiti, confermando che le ganasce erano state sostituite prima dell’esplosione.

Le stragi di Firenze, Roma e Milano

Altre stragi a cui invece partecipò in prima persona furono quelle di Firenze, Roma e Milano. In questi casi oltre a procurare l’esplosivo, con la sua squadra si era recato in loco, aveva scelto l’obiettivo, costruito gli ordigni e provveduto a farli esplodere. Gli investigatori avevano già potuto riscontrare la sua presenza in queste città tramite il monitoraggio dei traffici telefonici.

Già verso la fine degli anni novanta si erano conclusi i processi che ricostruivano accuratamente tutta la vicenda stragista ed erano state emesse condanne passate in giudicato. Le sentenze tuttavia avevano lasciato sullo sfondo questioni irrisolte e ombre nella ricostruzione degli eventi (I pentiti che avevano collaborato, infatti, non avevano partecipato in prima persona alle esecuzioni e non conoscevano i dettagli). Alcune indagini sulle vicende, in particolare quelle sui mandanti, erano state archiviate. Quando cominciò a raccontare, Spatuzza squarciò il velo dell'omertà su queste questioni, permettendo ai magistrati fiorentini, a cui erano state affidate originariamente le tre inchieste, di riaprire le indagini.

Le dichiarazioni di Spatuzza consentirono innanzitutto di riaprire le indagini su Francesco Tagliavia, capo della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, che nel 2011 venne condannato all’ergastolo come mandante, insieme ad altri, delle stragi.[12]

Il pentito raccontò che le direttive riguardanti “i fatti di via Georgofili” erano state date a lui e agli altri membri della squadra esecutiva durante una riunione, tenutasi nel villino di Santa Flavia, a cui avevano partecipato Ciccio Tagliavia, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro. I boss, secondo Spatuzza, da come parlavano avevano già effettuato dei sopralluoghi a Firenze e indicarono agli esecutori materiali il posto da colpire.

Spatuzza indicò inoltre come membri della “banda” Vittorio Tutino ed i fratelli Formoso, i cui nomi non erano mai emersi dalle indagini. Seppe anche spiegare il motivo per cui vi fu un divario di circa venti minuti tra le due esplosioni nella capitale: Vittorio Tutino, che aveva il compito di innescare l’ordigno, era alla sua prima esperienza con gli esplosivi e i compagni, per rassicurarlo ed evitare che potesse restare coinvolto nell’esplosione, lasciarono appositamente la miccia lunga.

Infine attraverso la testimonianza del collaboratore emerse la titolarità di Cosa Nostra come unica mandante. Le lettere di rivendicazione spedite ai quotidiani a nome della “Falange Armata” vennero infatti spedite da Cosimo Lo Nigro e da Scarano. La responsabilità di Cosa Nostra (o unicamente di Cosa Nostra) in questi delitti era stata infatti incerta per molto tempo. La mancata rivendicazione delle esplosioni da parte dell’organizzazione aveva inizialmente fatto pensare che Cosa Nostra, se responsabile, non avesse agito per soddisfare un proprio interesse, ma piuttosto su ordine di mandanti esterni o in associazione con altri sodalizi segreti.

La scelta di colpire beni storici, per di più situati sul territorio continentale, non era usuale. La medesima considerazione riguardò anche la fallita strage dello Stadio Olimpico di Roma, in cui il maggior contributo offerto da Spatuzza interessò la data programmata. Infatti, sebbene questi non ricordasse quale fosse, ebbe memoria di aver rubato le targhe e spiegò agli investigatori che era usanza di Cosa Nostra compiere il furto di sabato, subito prima dell’attentato e preferibilmente in un esercizio commerciale, in modo che il furto potesse essere scoperto e denunciato solo il lunedì, a cose avvenute.

Da queste dichiarazioni gli inquirenti riuscirono a stabilire che l’esplosione doveva avvenire il 23 gennaio 1994, la domenica in cui si svolse la partita del campionato di calcio Roma–Udinese. L’informazione si rivelò molto utile anche per comprendere la portata devastante che l’esplosione avrebbe provocato. Infatti, oltre ad informare gli investigatori che l’ordigno era stato potenziato, su disposizione di Giuseppe Graviano, con chili di ferro e tondini di pochi millimetri che «avevano la funzione di schegge, avrebbero fatto veramente male, molto male», il pentito riferì che l’obiettivo erano i carabinieri e indicò il luogo in cui l’auto bomba era stata parcheggiata. Sottolineò inoltre che insolitamente, la Lancia Thema non era stata rubata in loco, ma era stata portata da Palermo.

Dalla posizione e dal giorno ci si è potuti rendere conto del pericolo scampato: infatti il punto prescelto per la collocazione dell’ordigno si trovava sul viale dei Gladiatori, in un tratto in cui la strada si restringe e avrebbe obbligato i pullman con i Carabinieri a procedere lentamente, uno vicino all’altro. Si è stimato che l’esplosione avrebbe potuto provocare una vera carneficina e circa 200 militari avrebbero perso la vita, mettendo seriamente a rischio l’ordine democratico del Paese. L’impulso radio impresso dal telecomando, però, non giunse all’antenna e il piano fortunatamente fallì.

Il processo Dell’Utri

Infine dichiarazioni di Spatuzza si rivelarono importantissime nel processo contro Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Egli raccontò di aver avuto un colloquio con Giuseppe Graviano presso il bar Doney di Roma, pochi giorni prima del fallito attentato allo stadio Olimpico. Durante tale incontro Graviano, particolarmente felice, aveva confidato al collaboratore di essere finalmente riuscito a “mettere il paese nelle mani” della mafia grazie a due personaggi politici, il compaesano dell’Utri e Silvio Berlusconi. La strage dei carabinieri avrebbe dovuto rappresentare l’ultima spinta, l’atto finale per la conclusione dell’accordo. La definitiva dimostrazione della potenza di Cosa Nostra.

Questa informazione diede vita ad un vero e proprio attacco mediatico nei confronti del pentito. Come già era accaduto negli anni ’90 con Buscetta, che nel momento in cui aveva deciso di parlare di politica aveva perso la sua credibilità ed era stato accusato di essere uno strumento che agiva per conto di una fazione politica contro l’altra, così quando Spatuzza fece questi nomi, le accuse nei suoi confronti furono molte.

Si cercò di delegittimarlo, di annullare il valore delle sue confidenze in virtù del suo passato e degli atti terribili che aveva commesso. I principali giornali italiani lo presentarono come colui che era stato condannato per sei o sette stragi e circa una quarantina di omicidi. Dell’Utri da un lato, nella fase dibattimentale del processo, lo accusò di essere uno strumento della mafia per affondare un governo che le aveva fatto guerra, di essere un pentito della mafia, non dell’antimafia; dall’altro, a livello mediatico, insinuò che dietro le sue dichiarazioni ci fossero i pm, riferendosi implicitamente alla storica battaglia tra l’allora premier e la magistratura.

Gli avvocati gli contestarono di aver parlato della questione solo dopo che il programma di protezione testimoni gli era stato accordato (quindi oltre i 180 giorni dall’inizio della cooperazione concessi dalla legge ai collaboratori di giustizia per rilasciare le dichiarazioni più importanti). A nulla servirono le giustificazioni di Spatuzza che si discolpò dicendo che nel 2008, poco dopo che ebbe cominciato a parlare, cadde il governo Prodi e si ritrovò con Berlusconi primo ministro e Alfano, il suo “vice”, ministro della giustizia. «Se il Governo fosse caduto prima non mi sarei neanche pentito» disse: incontrò infatti diverse difficoltà ad entrare nel programma di protezione testimoni. Alfredo Mantovano, sottosegretario all’interno del governo Berlusconi gli negò per lungo tempo tale diritto, nonostante fosse sopravvenuto il parere favorevole delle procure con cui collaborava.

Le difficoltà che dovette affrontare furono molte. All’offensiva mediatica si aggiunse anche un improvviso isolamento in carcere: “Quando andai a Torino a dicembre del 2009 per il processo Dell’Utri... Mamma mia quello che c’era! Si è creato un grande evento mediatico, tantissimi giornalisti... tante persone intorno... uno spiegamento di forze indescrivibile. Ho detto le cose che dovevo dire... certo, tiravo in mezzo soggetti che in quel momento rivestivano cariche politiche, istituzionali. I miei timori prima della collaborazione erano legati a questo... Poi sono tornato presso il carcere... e trovo il vuoto, il vuoto totale. Non c’era più nessuno... Erano scappati tutti, proprio tutti... stavo male... mi chiedevo: ma cosa ho fatto di sbagliato? Ho solo detto quello che sapevo! È stata dura, mi sembrava di impazzire[13].

Furono nuovamente le parole di un prete, che lo invitò a proseguire con coraggio e sincerità il percorso di revisione della vita che aveva intrapreso, che lo spinsero a proseguire. Quelle parole e il sostegno dei magistrati, rappresentanti di una parte dello stato che nonostante il “massacro” mediatico c’era.

Note

  1. citato in Montanaro G., La Verità del Pentito, le rivelazioni di Gaspare Spatuzza sulle stragi mafiose, Sperling & Kupfer, Milano, 2013, p.20
  2. G. Montanaro, op. cit., p.32.
  3. Sparatoria all’ospedale: preso superkiller mafioso, Corriere della Sera, 3 luglio 1997
  4. G. Montanaro, op. cit., p.37
  5. G. Montanaro, op. cit., p.29
  6. G. Montanaro, op. cit., p.40
  7. G. Montanaro, op. cit., p.142
  8. (Maurizio Costa, il meccanico che riparò la fiat 126, venne poi rilasciato e la sua posizione fu archiviata.)
  9. G. Montanaro, op. cit., p.121
  10. G. Montanaro, op. cit., p.196
  11. In genere i mafiosi non pagavano i lavori commissionati ai meccanici Costa e Trombetta.
  12. Condividono l’accusa di strage e devastazione: Giuseppe Graviano, Filippo Graviano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Matteo Messina Denaro, Bernardo Provenzano, Salvatore Riina, tutti già condannati. Il processo che si celebra a Firenze vede Tagliavia come unico imputato.
  13. G. Montanaro, op. cit., p. 48

Bibliografia

  • G. Montanaro, La Verità del Pentito, le rivelazioni di Gaspare Spatuzza sulle stragi mafiose, Sperling & Kupfer, Milano, 2013
  • C. Sanvito, Storia Sociale dei Collaboratori di Giustizia nei Processi di Mafia, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, a.a. 2013-2014