Leonardo Vitale

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Il primo pentito della storia d'Italia, nell'accezione più vera e religiosa del termine.
(Corrado Stajano)[1]


Leonardo Vitale (Palermo, 27 giugno 1941 – Palermo, 2 dicembre 1984) è stato un mafioso siciliano, affiliato a Cosa Nostra. È considerato il primo collaboratore di giustizia italiano, nonostante prima di lui ci siano state altre collaborazioni da parte di esponenti delle famiglie mafiose siciliane (come ad esempio Melchiorre Allegra, la cui storia fu raccontata dal giornalista Mauro De Mauro).

Leonardo Vitale

Biografia

I primi anni e l'affiliazione a Cosa Nostra

Nato a Palermo, orfano di padre, Vitale fu cresciuto dallo zio Giambattista, boss della cosca di Altarello di Baida, che lo socializzò alla mentalità mafiosa e ne fece un uomo d'onore. Ragazzo pieno di fragilità emotive, quotidianamente in lotta per respingere il sospetto di omosessualità che lo sovrastava, da pentito dichiarò sulla sua affiliazione: “Io sono stato preso in giro dalla vita, dal male che mi è piovuto addosso sin da bambino. Poi è venuta la mafia, con le sue false leggi, con i suoi falsi ideali: combattere i ladri, aiutare i deboli e, però, uccidere; pazzi! [...] La mia colpa è di essere nato, di essere vissuto in una famiglia di tradizioni mafiose e di essere vissuto in una società dove tutti sono mafiosi e per questo rispettati, mentre quelli che non lo sono vengono disprezzati; [...] bisogna essere mafiosi per avere successo. Questo mi hanno insegnato ed io ho obbedito”[2]

Divenne dunque mafioso perché voleva sentirsi parte di qualcosa, perché conosceva solo quel mondo. Fu così che nel 1960, dopo aver brillantemente superato le prove (uccidere un cane a 8 anni, un cavallo a 15), divenne un uomo d'onore, uccidendo il campiere Vincenzo Mannino.

La decisione di collaborare

Dopo 13 anni da uomo d'onore, il 30 marzo 1973 Vitale si presentò spontaneamente alla Squadra Mobile di Palermo e svelò l'intero organigramma delle famiglie palermitane di Cosa Nostra, di cui ammise di far parte, autoaccusandosi inoltre di gravi fatti delittuosi: confessò, infatti, due omicidi, un tentato omicidio, un sequestro ed innumerevoli reati minori.

Davanti all'allora commissario della Squadra Mobile Bruno Contrada dichiarò di essere nel bel mezzo di una crisi religiosa e di voler cominciare una nuova vita. Gli agenti presenti lo ascoltarono increduli. Pur non avendo mai occupato posizioni di potere all’interno dell’organizzazione, Vitale riuscì a fornire agli inquirenti informazioni preziosissime, fece i nomi di Salvatore Riina (Totò’u Curtu), Pippo Calò, Raffaele Spina e moltissimi altri.

Denunciò i legami dell’organizzazione con la politica, in particolare con Vito Ciancimino e descrisse quanto appreso dallo zio sui meccanismi che muovevano “la Commissione”, l'organo di coordinamento supremo di Cosa Nostra. Descrisse inoltre il rito di affiliazione della cosca, sottolineando come fosse usanza di Altarello usare una spina di arancio amaro in loco dell'usuale spilla per la "punciuta".

Un evento particolarmente rilevante riferito da Vitale fu una riunione presieduta da Salvatore Riina, il cui obiettivo era risolvere una controversia tra la cosca Altarello-Porta Nuova e quella della Noce[3] sul diritto di imporre tangenti all’impresa Pilo, che stava iniziando lavori edilizi nel fondo Campofranco. Alla “seduta” organizzata da Raffaele Spina, rappresentante della famiglia della Noce, avevano partecipato anche Giuseppe Calò, Ciro Cuccia, Vincenzo Anselmo, Salvatore D’Alessandro e lo stesso Vitale in vece dello zio che si trovava a Linosa, costretto al soggiorno obbligato. In quell’occasione prevalse la cosca della Noce “per ragioni sentimentali”: «io la Noce ce l’ho nel cuore» aveva detto Riina. Il giudice Falcone, una decina di anni dopo, nel verbale del Maxiprocesso, evidenziò come la presenza ed il ruolo di Riina Salvatore, riferiti da Leonardo Vitale nella controversia fra le due famiglie, all’epoca del triumvirato, confermarono in pieno le dichiarazioni di Buscetta.

Infatti, la questione relativa alla spettanza di una tangente ad una famiglia anziché ad un’altra, è un “affare” di pertinenza della “Commissione”; il fatto che la controversia sia stata decisa, invece, dal Riina Salvatore – membro del triumvirato, secondo le dichiarazioni del Buscetta – conferma appieno che ancora la “commissione” non era stata ricostituita e che il Riina aveva la potestà di emettere decisioni che dovevano essere rispettate dai capi famiglia.”[4]

L’episodio in oggetto valse inoltre a confermare indirettamente il sistema delle alleanze facente capo ai Corleonesi e l’atteggiamento prevaricatore di questi ultimi. Invero, tenendo conto della zona in cui la costruzione di Pilo doveva essere realizzata, la tangente sarebbe dovuta spettare, secondo il rigido criterio di competenza territoriale adottato da “Cosa Nostra”, alla famiglia di Altarello; ciononostante Riina, ergendosi ad unico arbitro della controversia, l’aveva attribuita, per motivi di simpatie personali, a quella della Noce.

Informazioni preziosissime, dunque, quelle di Vitale, a cui tuttavia nessuno credette e che trovarono credito solo successivamente. Gli inquirenti avevano, a quei tempi, grosse difficoltà nel concepire la Mafia come un apparato strutturato e organizzato e preferivano concentrare l’azione punitiva dello stato nei confronti di episodiche manifestazioni criminose.

L'arresto e il ricovero in manicomio

Vitale era già noto agli inquirenti per una serie di piccoli reati che lo avevano portato in carcere in passato, oltreché per il fatto di essere affetto da disturbi psichici gravi. Per fare un esempio, era solito bruciare i beni acquistati con i proventi dei delitti, cospargersi di feci per purificare il proprio corpo e nutrirsene per decontaminare la sua anima. Per questo motivo, dopo le sue dichiarazioni, i magistrati ordinarono una perizia psichiatrica che lo dichiarò semi-infermo di mente[5]: le dichiarazioni da lui fornite furono considerate inattendibili e dei quaranta arrestati a seguito delle sue dichiarazioni, gli unici ad essere condannati nel 1977 furono lui e suo zio Giambattista, nel 1977.

Tutto questo nonostante vi fossero riscontri oggettivi e la relazione del perito incaricato dal tribunale che dichiarava sì Vitale affetto da una malattia mentale, ma che in nessun modo questa avrebbe potuto portare ad allucinazioni, deliri di persecuzione o gravi alterazioni psichiche: non escludeva dunque affatto la capacità di ricordare e di riferire fatti ed esperienze senza deformazioni[6]. Negli Stati Uniti inoltre, già da dieci anni Valachi aveva denunciato l’esistenza dell’organizzazione.

Etichettato come pazzo, Vitale venne quindi condannato a scontare gran parte della pena detentiva nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, dove fu sottoposto ad atroci sofferenze fisiche e morali. In una lettera alla madre e alla sorella descrisse il primo giorno nell’ospedale psichiatrico così:

Mia cara mamma, ti comunico che sono felicemente arrivato nella "città dei pazzi". Mi sento tanto solo in mezzo a gente estranea che mi trattano in maniera un po' strana direi. In questo momento mi sento così bene da non capire il perché di questo trasferimento in mezzo a gente che sembrano invece ammalate. Io non sono pazzo, che ci debbo forse diventare? Oggi non mi hanno fatto nessuna cura ho solo parlato con una dottoressa alla quale ho detto che mi sentivo sconfortato e mi ha risposto che avrebbe provveduto a tenermi su. Non so a chi l'ha detto e poi mi hanno rinchiuso in cella da solo... il tempo di permanenza in questo luogo speriamo non duri a lungo perché m'intristisce tanto... ho fede in Dio e nella Santa Vergine che mi diano tanto coraggio e tanta serenità nella mente, ma sono tanto triste... Questa è la mia vita questa la mia croce cercherò di portarla con dignità e coraggio... Sono disperato: perché mi hanno portato qui, che cosa mi aspetta in questo luogo?[7]

L'omicidio

Dopo undici anni di detenzione, finalmente nel 1984 Vitale venne rilasciato. Tornato a casa, continuò a professare la sua profonda fede religiosa, dedicandovisi completamente. Ma a causa anche del pentimento di Tommaso Buscetta nel luglio dello stesso anno, il 2 dicembre Vitale venne assassinato con due colpi di lupara alla testa da un uomo mai identificato, mentre usciva dalla Chiesa, dopo la messa, con la madre e la sorella.

Note

  1. C. Stajano (a cura di), Mafia. L’atto di accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, Roma, 1986, p.14
  2. Giovanni Falcone, L'Importanza di Leonardo Vitale
  3. Falcone G., Cose di Cosa Nostra, Milano, BUR, 1991, pag.75
  4. Giovanni Falcone, ibidem
  5. G. Falcone, La posta in gioco, interventi e proposte per la lotta alla mafia, Bur saggi, Milano, novembre 2010,1° edizione, p.65
  6. Atti Del Convegno, I collaboratori di giustizia: legislazioni ed esperienze a confronto, Palermo, 21-2 maggio 1994, Palazzo dei Normanni, p. 35
  7. Leonardo Vitale, Lettera alla madre, 8 novembre 1973

Bibliografia