Strage di Godrano

Da WikiMafia.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
La versione stampabile non è più supportata e potrebbe contenere errori di resa. Aggiorna i preferiti del tuo browser e usa semmai la funzione ordinaria di stampa del tuo browser.
strage di godrano

La Strage di Godrano è stata un attentato mafioso avvenuto il 26 ottobre 1959 nell'omonimo paesino in provincia di Palermo, nel quale persero la vita i due fratelli Antonino e Vincenzo Pecoraro.

La Strage

La Strage di Godrano va inserita nella catena di vendette che sin dal 1921 avevano decimato le due famiglie di Godrano, quella dei Barbaccia e quella dei Lorello. Alla base della faida tra le due famiglie vi era il controllo in esclusiva di alcuni ricchi pascoli del bosco della Ficuzza. Fino a quel momento la disputa aveva provocato ben 43 omicidi[1]. Obiettivo della strage furono i Barbaccia, che per altro avevano "mandato nelle ultime elezioni un proprio rappresentante a Montecitorio in qualità di deputato della D.C."[2].

Verso le 18:00 del 26 ottobre, i killer, i fratelli Francesco e Salvatore Maggio, che si erano nascosti travestiti da Carabinieri nella casa disabitata di Agostino Barbaccia, aprirono il fuoco armati di fucili e pistole contro la famiglia di Angelo Francesco Pecoraro, che abitava nella casa vicina. Il capofamiglia venne gravemente ferito (in ospedale gli avrebbero amputato la mano sinistra), mentre suo figlio Antonino, di 10 anni, venne colpito al torace e morì in ospedale. Ferito anche Demetrio Pecorino, trentacinquenne amico della famiglia che si trovava in casa.

Terminato l'assalto, i due fratelli si diedero alla fuga nelle campagne; mentre stavano per superare le ultime case del paese, incrociarono l'altro figlio diciannovenne di Pecoraro, Vincenzo, che stava rientrando dal lavoro nei campi. Certi che il giovane li avrebbe riconosciuti, lo uccisero senza alcuna pietà.

Indagini

Dopo il trasporto dei feriti all'ospedale della Feliciuzza di Palermo a bordo di un'auto, la moglie di Pecoraro, distrutta per le condizioni gravissime di un figlio e della perdita dell'altro, anziché opporre il solito silenzio ai Carabinieri che la interrogavano, fece quattro nomi come possibili autori della strage: Salvatore e Francesco Maggio, Francesco Miceli e Paolo Barbato[3].

Secondo le prime ricostruzioni, anche Demetrio Pecorino, ferito nella strage, era un obiettivo, in quanto testimone oculare dell'uccisione del proprio omonimo cugino, che un mese prima era stato aggredito, immobilizzato e scaraventato giù in un burrone da quattro uomini, gli stessi nominati dalla moglie di Pecoraro.

Centinaia di poliziotti e carabinieri continuarono a perlustrare tutta la zona del Corleonese e il bosco della Ficuzza alla ricerca degli assassini, mentre in paese i rastrellamenti si susseguivano senza sosta, malgrado la vasta epidemia di tifo che aveva colpito da qualche giorno il paese. Gli inquirenti avevano denunciato all'autorità giudiziaria quali responsabili dell'eccidio i due fratelli Maggio e Miceli, in qualità di esecutori materiali del duplice omicidio e del duplice ferimento, mentre Paolo Barbaccia era ricercato per favoreggiamento.

Le successive indagini della Polizia e dei Carabinieri accertarono che effettivamente i quattro erano i responsabili del delitto.

Il processo

Il 3 marzo 1964 la Corte d'Assise di Palermo condannò all'ergastolo Paolo Barbaccia, Salvatore Maggio e Francesco Miceli, colpevoli di associazione per delinquere e omicidio continuato in persona di Antonino e Vincenzo Pecoraro. Francesco Miceli venne inoltre condannato per sequestro di persona. Tutti vennero assolti per insufficienza di prove dall'accusa di aver ucciso Demetrio Pecorino e di aver tentato di farlo con Salvatore Lorello[4]. Come notò nel frattempo in un altro processo trasferito a Viterbo per legittima suspicione contro le stesse cosche Andrea Barbieri, nel frattempo nel 1966 i cognomi Barbaccia e Lorello erano stati sostituiti dai Corrado e dai Maggio, per effetto della prolungata conflittualità tra le due fazioni[5].

La testimonianza di don Pino Puglisi

Su Godrano e la sanguinosa faida che aveva martoriato il paese parlò anche don Pino Puglisi, durante la sua relazione “Testimoni della speranza”, tenuta al convegno nazionale del Movimento "Presenza del Vangelo", che si tenne a Trento tra il 22 e il 28 Agosto 1991, poi pubblicata sul n. 5 dello stesso anno sul mensile "Presenza del Vangelo".

«Prima di essere impegnato nella pastorale vocazionale a livello diocesano e poi regionale, sono stato parroco in un paesino di montagna. Ero uno dei parroci più “altolocati” della diocesi di Palermo, perché era un paesino posto a 750 mt sul livello del mare. Qualche anno prima in quel paesino di mille abitanti c’erano stati 15 omicidi. Nella carneficina delle varie vendette erano state uccise persone che non c’entravano assolutamente.

Certe volte, se, per esempio, il designato ero io, uccidevano anche l’altro che mi stava accanto, altrimenti avrebbe potuto parlare. Facevamo i cenacoli [del vangelo] presso le famiglie. Prima, faticosamente. Andavo presso le famiglie e dicevo che in avvento, in quaresima o in altro periodo saremmo andati nelle case, se lo avessero desiderato, per leggere e comunicare il vangelo. Mi rispondevano: «Beh! arciprete, se lo dice lei, lo facciamo, pazienza!».

Lo facevano per farmi un favore. E quindi incominciavamo ad annunziare il vangelo. Si parlava di pace, di unione, di fraternità. Erano questi i temi ricorrenti. Anche p. Rivilli era venuto. Poi incominciarono alcune famiglie a dire: «Ma, due volte l’anno è troppo poco, facciamo una volta al mese». E poi ogni 15 giorni presso alcune famiglie che si erano aperte all’ascolto del vangelo.

Una signora viene un giorno e mi dice: «Padre, le cose sono due, io non ce la faccio più: se non faccio pace con la madre dell’uccisore di mio figlio non si fa più il cenacolo a casa mia». Dico: «Allora faccia pace». «Ma come faccio» mi risponde la signora. Dico: «Lei continui a fare i cenacoli, vedrà che il Signore le darà l’occasione».

Le strade di Godrano non erano tutte strade asfaltate o lisce. Fatte con l’acciottolato ed in questo caso era una fortuna. La madre dell’uccisore che era pure colpevole perché aveva sollecitato la vendetta, scivolò e cadde davanti la casa di questa signora che voleva rinunciare al cenacolo. Allora questa corre, la prende in braccio e fanno la pace, nonostante le critiche della gente che disse: «Perché? Non le brucia più il figlio?», quasi che avesse dimenticato il figlio morto. La madre dell’ucciso era felice. Era testimone della speranza. Dove c’è un pensiero di vendetta deve portare questa parola che libera, che dà gioia, questa gioia che è capace di amare, di perdonare.

A chi chiede giustizia nella nostra società… quante ingiustizie! Ci sono tante persone che subiscono ingiustizie! Talvolta l’ingiustizia subita è quasi irreparabile. Che cosa dire? Certo, è difficile, ma è necessario preservare il messaggio della speranza che passa attraverso il messaggio della croce».

Note

  1. Giorgio Polara, La "Guerra" per i pascoli tra i Barbaccia e i Lorello è costata fino ad oggi ben quarantatre assassinii, l'Unità, 29 ottobre 1959.
  2. Citato in Federico Farkas, Travestiti da carabinieri sparano per vendetta sui "mafiosi" rivali, l'Unità, 27 ottobre 1959.
  3. Giorgio Polara, Salite a due le vittime dell'agguato mafioso di Godrano. I falsi carabinieri volevano sterminare un'intera famiglia, l'Unità, 28 ottobre 1959.
  4. Tre ergastoli per i mafiosi di Godrano, l'Unità, 4 marzo 1964.
  5. Andrea Barberi, Negano tutto gli imputati superstiti della faida mafiosa, l'Unità, 24 novembre 1966.

Bibliografia

  • Archivio Storico de l'Unità.