Strage di Razzà: differenze tra le versioni

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"Vittima della mafia e dello Stato. Ho chiesto aiuto e nessuno me l'ha dato […] Non posso più sopportare il male che mi ha fatto questo mondo. Chiedo perdono a Dio e ai miei familiari che li amo tanto. Forse da lassù li potrò aiutare. Vi chiedo perdono ma non posso vedervi soffrire. Voglio essere seppellita così come sono vestita. Non voglio fiori, non voglio niente. Prego Dio che mi perdoni e mi faccia vedere mio fratello Enzo e Salvatore".
"Vittima della mafia e dello Stato. Ho chiesto aiuto e nessuno me l'ha dato […] Non posso più sopportare il male che mi ha fatto questo mondo. Chiedo perdono a Dio e ai miei familiari che li amo tanto. Forse da lassù li potrò aiutare. Vi chiedo perdono ma non posso vedervi soffrire. Voglio essere seppellita così come sono vestita. Non voglio fiori, non voglio niente. Prego Dio che mi perdoni e mi faccia vedere mio fratello Enzo e Salvatore".


I familiari di Vincenzo Caruso, trascorsi molti anni dalla strage di Razzà, chiedono un risarcimento allo Stato come vittime di mafia. Al giovane carabiniere, dopo la morte, viene intitolata la caserma dei carabinieri di Niscemi nel 1990 ma dallo Stato i familiari non ricevettero alcun aiuto.<re>Strage di Razzà, familiari carabiniere ucciso chiedono risarcimento Stato come vittime di mafia. Il Quotidiano, 27 aprile 2014</ref>
I familiari di Vincenzo Caruso, trascorsi molti anni dalla strage di Razzà, chiedono un risarcimento allo Stato come vittime di mafia. Al giovane carabiniere, dopo la morte, viene intitolata la caserma dei carabinieri di Niscemi nel 1990 ma dallo Stato i familiari non ricevettero alcun aiuto.<ref>Strage di Razzà, familiari carabiniere ucciso chiedono risarcimento Stato come vittime di mafia. Il Quotidiano, 27 aprile 2014</ref>


==Note==
==Note==

Versione delle 13:39, 18 giu 2015

“1 aprile 1977, l’invisibilità delle ‘ndrine viene violata perchè un summit di ‘ndrangheta viene scoperto da tre carabinieri in servizio nel Nucleo Radiomobile del Comando Compagnia Carabinieri di Taurianova.”


La strage di Razzà, compiuta a Taurianova (RC), viene ricordata per la morte di due militari del Nucleo Radiomobile della Compagnia locale, ovvero l’appuntato Stefano Condello ed il carabiniere Vincenzo Caruso. Quel 1° aprile del 1977, i due militari in servizio assistono, involontariamente, ad una riunione di ‘Ndrangheta tra le più influenti famiglie della Piana di Gioia.

La strage di Razzà scopre, inoltre, gli affari dell’organizzazione criminale calabrese: i subappalti del Quinto Centro Siderurgico di Gioia Tauro, le tangenti e gli investimenti immobiliari.


La strage

A Taurianova sono le ore 14:30 del 1 aprile 1977 quando tre militari del Nucleo Radiomobile della Compagnia locale, durante l’orario di lavoro, percorrono la statale 101-bis.

La loro attenzione è attirata dalla vista di alcune auto ed una Vespa sospette: in particolare, una Fiat 126 è di proprietà di un pregiudicato, Girolamo Albanese, noto per aver favorito dei latitanti. Inoltre, in contrada Razzà c’è la casa colonica del pregiudicato Francesco Petullà ed è per questo motivo che l’appuntato Stefano Condello (47 anni) decide di fermarsi per ispezionare la zona insieme al carabinieri Vincenzo Caruso (27 anni), lasciando il carabiniere Pasquale Giacoppo (24 anni) a controllare l’auto.

Arrivati davanti l’abitazione di Petullà, i due militari assistono a qualcosa di inverosimile: è in corso un summit di ‘ndrangheta della cosca Avignone, famiglia egemone sul territorio calabrese, che viene interrotta dalla presenza non attesa dei due uomini in divisa. Si genera, ovviamente, un conflitto a fuoco durante il quale i due uomini dell’arma vengono raggiunti da una pioggia di colpi di lupara e pistola. Condello viene ferito alle spalle mentre Caruso, dopo aver colpito mortalmente due aggressori, viene raggiunto da altri colpi d’arma da fuoco e soccombe a terra. [1]

A perdere la vita, quel giorno, non sono solo i due carabinieri. La famiglia Avignone, una delle più aggressive ed influenti nella provincia reggina, subisce la perdita di due componenti Rocco Avignone (35 anni), e suo nipote, Vincenzo (20 anni) sacrificatisi per consentire la fuga di altri, evidentemente più potenti, della stessa famiglia.

Il carabiniere Giacoppo, sentendo i colpi d’arma da fuoco, si precipita verso la cascina per aiutare i suoi colleghi ma vede scappare i criminali; si spara ancora ma questa volta senza che nessuno venga colpito mortalmente. Arrivato sul posto del martirio, il carabinieri si trova davanti ad un bagno di sangue così torna indietro per avvisare tramite radio dell’accaduto ma l’apparecchio non funziona ed è per questo motivo che è costretto a tornare in Caserma.

“Dieci minuti dopo — racconta Giacoppo — ho sentito degli spari. Sono accorso ed ho visto un gruppo di uomini, una quindicina, fuggire: a terra, c'erano Condello e Caruso da una parte, i due Avignone dall'altra. Ho sparato anch'io: forse ne ho ferito uno di quelli che scappava”.[2]

Le vittime della strage

Le vittime della strage di Razzà sono:

  1. Caruso Vincenzo, 27 anni, carabiniere originario di Niscemi (CL);
  2. Condello Stefano, 47 anni, appuntato dei Carabinieri originario di Palmi (RC).

Le indagini

Dalle indagini emerge che i tre Carabinieri, il 1° aprile del ’77, hanno effettivamente interrotto una riunione di famiglie criminali. Nella cascina era apparecchiata la tavola per i partecipanti, riusciti tutti a scappare mentre Rocco e Vincenzo Avignone rimangono nell’abitazione per tenere occupati i due militari.

Dopo lunghe ricerche, i Carabinieri interrogano ed arrestano alcuni dei presunti partecipanti alla riunione in contrada Razzà. Francesco Petullà (79 anni), proprietario della casa coloniale, durante l’interrogatorio ammette di essere stato nel casolare giorno 1° aprile per accudire i suoi animali ma senza notare alcun movimento sospetto, così viene arrestato per favoreggiamento.

Nel mentre, vengono riconosciuti i proprietari delle auto parcheggiate in contrada Razzà, quel pomeriggio, ovvero: Latella Giacinto, cognato di Albanese Girolamo (29 anni) titolare di un bar a Taurianova, proprietario della Fiat 126; Anselmo Chiara, moglie del pregiudicato Avignone Giuseppe, proprietaria di una Fiat 127; Zinnato Rosa, moglie di Avignone Rocco rimasto ucciso nel conflitto a fuoco, proprietaria di una seconda Fiat 127; Zinnato Vincenzo (37 anni) imprenditore edile, proprietario di una terza Fiat 127; infine, Avignone Vincenzo anche lui morto nello scontro a fuoco, proprietario della Vespa 50.

Girolamo Albanese anche se provvisto di un buon alibi viene arrestato, indagato per omicidio aggravato plurimo, porto e detenzione di armi comuni, porto di arma da guerra e furto aggravato, reati commessi in Razzà; ad essere arrestati per favoreggiamento sono anche Domenico Caridi (27 anni) e Giuseppe Bruzzese (45 anni), parenti di Albanese; Vincenzo Zinnato viene trattenuto in stato di fermo, poi convalidato mentre Carmelo Zinnato, padre di Vincenzo, viene arrestato, successivamente, per simulazione di reato commesso denunciando alla stazione dei Carabinieri di Palmi il presunto furto ad opera di ignoti della Fiat 127 del figlio.

In seguito alle dichiarazioni di Girolamo Albanese, in data 5 aprile, si ha la convalida e la cattura di Avignone, Zinnato, Albanese e Domenico Lombardo imputati in concorso dei reati di omicidio volontario aggravato e continuato in persona dei due carabinieri rimasti uccisi in Razzà e di furto e porto abusivo di armi. Ancora, sempre nello stesso giorno, si decide per l’arresto di Francesco Petullà, Domenico Caridi e Giuseppe Bruzzese per favoreggiamento.


Il processo

Tra le parti civili costituite nel processo ai responsabili della strage di Razzà, fa notare con amarezza lo stesso presidente della Corte d'Assise di Palmi, Saverio Mannino, "non figura lo Stato, malgrado il danno anche economico provocatogli dall'uccisione di due dei suoi uomini migliori".[3]

Durante il processo si fanno molti nomi e si scopre che quel giorno a Razzà sono presenti diversi affiliati alle cosce locali ma anche politici. Vengono così coinvolti il sindaco di Canolo, Domenico D’Agostino; Renato Montagnese, sindaco di Rosarno e presidente del consorzio industriale; Vincenzo Cafari. Alla fine il pm Salvo Boemi chiede il rinvio a giudizio per ventidue persone: otto per omicidio e quattordici per falsa testimonianza e favoreggiamento.

La posizione di Giuseppe Avignone

“[…]Questa è la verità dei fatti e vi prego di aiutarmi perché non mi accollino le colpe degli altri ed anche perché anche io sono stato colpito dalla sventura perdendo due congiunti. Se fosse stato per me i carabinieri potevano essere ancora vivi perché io all’intimazione dell’appuntato ho alzato le mani ed ero disarmato”[4] Queste le parole di Giuseppe Avignone a seguito di una dichiarazione spontanea sullo svolgimento della giornata della strage nella cascina di contrada Razzà. Avignone, infatti, nonostante riesce a costruirsi un alibi perfetto, viene arrestato e condotto nella casa circondariale di Lamezia Terme. Dal racconto dell'indagato che afferma di essersi trovato in contrada Razzà per puro caso - in quanto informato della presenza del sindaco di Canolo - emergono diversi nomi: Albanese Girolamo, detto "Mommo"; Rocco e Vincenzo Avignone; i fratelli Cianci; il sindaco D'Agostino Domenico; Lombardo Domenico e Zinnato Vincenzo.

Dopo svariati tentativi da parte dei legali di Avignone Giuseppe, la Corte d’Assise decide di sottoporre uno dei principali imputati, ad una visita psichiatrica; dal risultato della visita, si stabilisce che Avignone Giuseppe è in grado di presenziare utilmente al processo e che il suo comportamento è chiaramente mistificatorio.

All’udienza del 18 gennaio 1980 l’imputato non si presenta ugualmente: viene sottoposto ad un esame radiologico che evidenzia la presenza nell’addome del paziente di un chiodo e di altri due oggetti non bene identificati.

Sia l’avvocato dei familiari del carabiniere Caruso che il pubblico ministero Boemi parlano di una resa della giustizia. Secondo il dottor Boemi fuori e nelle aule di tribunale si respira un’aria di terrore dovuta a violenze verbali e fisiche.

Gli affari delle cosce con la politica

-“Pronto?

-Si, Mimmu?

-Si.

-Mimmu, o Mimmu, senti, vidi ca u fattu, cca ssutta da cuntrada Zaccà, i chiru fattu ra di Carabinieri, i Carabinieri sannu tuttu.

-Si?

-Perciò cerca pemmu ti guardi, va bbonu? Va bbonu?

-Sicuru?

-Sannu tuttu, va bbonu?

-Si.

-Perciò guardati, ti salutu.

-Ciau”[5]

In seguito alle registrazioni di conversazioni telefoniche e ad altre prove il pm decide per un ordine di cattura contro D’Agostino Domenico, sindaco di Canolo (RC). Quest’ultimo, infatti, viene inserito nella lista dei partecipanti alla riunione in contrada Razzà.

Iniziano così le ricerche di D’Agostino che si allontana dalla sua abitazione di residenza. Il padre, D’Agostino Nicola, dichiara che il figlio si è allontanato dal paese da qualche giorno per problemi di salute. Iniziano così gli interrogatori e vengono arrestati D’Agostino Raffaele e sua figlia D’Agostino Elvira – zio e cugina del sindaco di Canolo - per reati di favoreggiamento e falsa testimonianza.

Il tribunale di Palmi riceve, il 21 giugno 1977, una lettera di D’agostino Domenico nella quale dichiara di essere venuto a conoscenza della strage in contrada Razzà e di essere ricercato grazie alla stampa; inoltre, D’Agostino sottolinea la sua innocenza. Il sindaco di Canolo viene arrestato l’8 dicembre del 1979.

Dalla testimonianza di Morabito Carmelo, addetto al distributore di benzina Esso in contrada Nucarella di Taurianova, emergono nomi di persone che hanno preso parte alla riunione nel casolare di contrada Razzà ma anche indizi che hanno permesso di individuare Furfaro Francesco, D’Agostino Domenico ma anche Montagnese Renato, sindaco di Rosarno.

Montagnese viene riconosciuto da Morabito come l’uomo che era seduto al posto di guida nella Lancia Beta, arrivato al distributore insieme agli altri mezzi presenti in contrada Razzà. Morabito viene interrogato più volte dopo la sua dichiarazione ma infine, il 9 maggio 1978, viene ordinata la scarcerazione di Montagnese per mancanza di sufficienti prove di colpevolezza sia perché la descrizione iniziale data dal testimone non coincide perfettamente, sia perché il testimone non si mostra sicuro nel riconoscimento, sia perché la polizia giudiziaria influenza il testimone.

Le condanne

  • Albanese Girolamo, condannato alla pena di diciassette anni di reclusione, di cui due condonati;
  • Avignone Giuseppe condannato alla pena di quaranta di reclusione ridotta a trent’anni, di cui due condonati;
  • Cianci Domenico condannato alla pena di quarant’anni di reclusione, ridotta a trent’anni, di cui due condonati;
  • Cianci Damiano condannato alla pena di trentaquattro anni di reclusione, ridotta a trent’anni, di cui due condonati;
  • D’Agostino Domenico condannato alla pena di ventidue anni di reclusione, di cui due condonati;
  • Furfaro Francesco, condannato alla pena di quattordici anni ed otto mesi di reclusione, di cui un anno e quattro mesi condonati;
  • Lombardo Domenico condannato alla pena di trentatré anni e sei mesi di reclusione, ridotta a trent’anni, di cui uno condonato;
  • Zinnato Vincenzo condannato alla pena di ventidue anni di reclusione, di cui due condonati;

Inoltre:

  • Bruzzese Giuseppe condannato alla pena di un anno di reclusione, condonato interamente;
  • Caridi Domenico condannato alla pena di un anno di reclusione, sospesa alle condizioni di legge;
  • Cafari Vincenzo condannato alla pena di otto anni di reclusione, di cui due condonati e all’interdizione per anni cinque interamente condonati, ordinando che la pena venga sottoposta a libertà vigilata per un anno;
  • Petullà Francesco condannato alla pena di due anni di reclusione, condonati interamente;
  • Buscetta Luigi condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, sospesa alle condizioni di legge e all’interdizione per un anno interamente condannato;
  • Petullà Vincenzo condannato alla pena di due anni di reclusione, condonati interamente;
  • D’Agostino Elvira condannata alla pena di due anni di reclusione, sospesa alle condizioni di legge;
  • Procaccini Roberto condannato alla pena di quattro anni di reclusione di cui due condonati.

Conseguenze delle strage

"[...] E' una storiaccia su cui restano molte ombre, quella di Razzà, sospetti mai del tutto chiariti. E se non bastasse, ecco arrivare come un pugno nello stomaco una lettera scritta da Rosaria Caruso, la sorella del carabiniere trucidato.[6]

Riconoscimenti ai due militari

Per ricordare il coraggio e il lavoro svolto dai due uomini dell’arma di Taurianova, Stefano Condello e Vincenzo Caruso, rimasti uccisi nello scontro a fuoco del 1 Aprile del 1977 è stata loro concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Stefano Condello “Capo equipaggio di autoradio, notate alcune autovetture — di cui una appartenente a pericoloso pregiudicato — che sostavano nelle adiacenze di casolare isolato, dopo aver lasciato all’esterno un dipendente carabiniere, vi si introduceva senza esitazione e, affrontato da due malviventi, ingaggiava violenta colluttazione, riuscendo a disarmarli delle pistole che impugnavano.

Raggiunto da colpi di fucile da caccia da parte di altri malfattori sopraggiunti, sosteneva, con l’arma in dotazione, cruento scontro a fuoco ferendo gravemente uno degli aggressori. Benché colpito in parti vitali, non desisteva dal suo fermissimo, eroico comportamento, fino a quando, stremato, si accasciava al suolo ove veniva barbaramente finito. Esempio luminoso di attaccamento al dovere spinto fino all’estremo sacrificio. Razzà di Taurianova (Reggio Calabria), 1° aprile 1977.”[7]

Vincenzo Caruso “Componente dell'equipaggio di autoradio, lasciato di vigilanza all’esterno di casolare isolato nel quale si era introdotto per controllo un graduato capo servizio, interveniva subito per dare man forte al superiore, fatto segno a numerosi colpi di arma da fuoco da parte di pregiudicati, ingaggiando con essi, con coraggio e consapevole ardimento, un cruento scontro a fuoco. Benché gravemente ferito, persisteva nell’azione uccidendo due malfattori fino a quando, privo di forze, si accasciava, stremato, al suolo, dove veniva barbaramente finito. Razzà di Taurianova (Reggio Calabria), 1° aprile 1977.”[8]

La morte di Rosaria Caruso e la richiesta di riconoscimento come vittima di mafia per Vincenzo Caruso

Rosaria Caruso, sorella del carabiniere rimasto morto nel conflitto a fuoco in contrada Razzà, si toglie la vita l'8 agosto del 2005. La donna si è lanciata dal balcone di casa sua.

"Vittima della mafia e dello Stato. Ho chiesto aiuto e nessuno me l'ha dato […] Non posso più sopportare il male che mi ha fatto questo mondo. Chiedo perdono a Dio e ai miei familiari che li amo tanto. Forse da lassù li potrò aiutare. Vi chiedo perdono ma non posso vedervi soffrire. Voglio essere seppellita così come sono vestita. Non voglio fiori, non voglio niente. Prego Dio che mi perdoni e mi faccia vedere mio fratello Enzo e Salvatore".

I familiari di Vincenzo Caruso, trascorsi molti anni dalla strage di Razzà, chiedono un risarcimento allo Stato come vittime di mafia. Al giovane carabiniere, dopo la morte, viene intitolata la caserma dei carabinieri di Niscemi nel 1990 ma dallo Stato i familiari non ricevettero alcun aiuto.[9]

Note

  1. Taurianova La strage di Razzà, ReggioPress
  2. Due carabinieri scoprono " vertice" mafioso: uccisi, La Stampa, 3 Aprile 1977
  3. Strage di Razzà: Una storia di assenze, misteri e dolore. Stopndrangheta, 29 Aprile 2014
  4. Testo tratto dal libro La Strage di Razzà, Saverio Mannino
  5. Conversazione telefonica tra uno sconosciuto ed il Sindaco di Canolo, Strage di Razzà, Saverio Mannino, p. 56
  6. Testo tratto dal libro Dimenticati, A. Magro e D. Chirico, p. 200
  7. Motivazione della Medaglia d’oro al valor militare di Stefano Condello
  8. Motivazione della Medaglia d’oro al valor militare di Vincenzo Caruso
  9. Strage di Razzà, familiari carabiniere ucciso chiedono risarcimento Stato come vittime di mafia. Il Quotidiano, 27 aprile 2014

Fonti

  • Fratelli di sangue, di N. Gratteri e A. Nicaso
  • La strage di Razzà, di S. Mannino