Afghanistan

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L’Asia centrale e le regioni limitrofe rappresentano l’area planetaria nella quale i rapporti fra mafie e terrorismi appaiono più evidenti ed intensi. Non a caso il primo bacino mondiale della coltivazione di oppio e della produzione di eroina, noto al grande pubblico come Mezzaluna d’Oro (Golden Crescent), è situato in queste terre e negli stessi luoghi sono radicati movimenti estremistici islamici come i Talebani, Al Qaeda, il Miu (Movimento Islamico dell’Uzbekistan), ecc., la cui pericolosità si è andata via via palesando anche in occidente[1]”.

Afghanistan: guerra e traffici

Storia e società

L’Afghanistan si trova appunto al centro della Mezzaluna d'oro ed è un Paese dove l’assenza di strutture statali forti e solide è quasi da sempre una prerogativa. Crocevia e “chiave di volta del più grande dei continenti” [2], è stato proprio questo suo ruolo strategico ad essere causa della storica debolezza statuale; in quanto è stato continuamente “terra di conquista”. Nonostante ciò non ha mai davvero conosciuto il colonialismo, data l’estrema difficoltà di sottomissione e controllo tanto del suo territorio, quanto della sua indomabile popolazione; e questo pur restando per lungo tempo al centro del cosiddetto “Grande Gioco” fra le volontà di dominio dell’area di Gran Bretagna e Russia zarista.

Furono però proprio queste caratteristiche e questi interessi convergenti, e la conseguente mancata dominazione europea, a lasciare l’Afghanistan isolato ed ai margini dei processi di trasformazione che hanno, in varia misura, investito gli Stati di quella regione. Infatti nella storia i diversi sovrani sono riusciti a governarlo solo tramite difficoltosi e precari accordi con le varie tribù, soprattutto quelle di etnia Pashtun del sud – est, e con i vari proprietari terrieri e “signori della guerra”; accordi basati principalmente su cessioni di denaro in cambio di supporto militare [3]. Un vero e proprio Stato afghano, almeno formale, è stato poi costituito soltanto nel corso dell’800, inglobando diverse minoranze a nord; e solo nel 1893 ne vennero definiti i confini, grazie alla decisione di tracciare la Durand Line a sud, come confine con il Pakistan.

Questa linea divide però tutt’oggi in due i territori abitati dalla sopracitata etnia Pashtun, creando una situazione problematica; in quanto in Afghanistan “i riferimenti territoriali sono di gran lunga meno importanti delle reti sociali” [4], poiché le identità non seguono una logica “territoriale”, ma piuttosto l’appartenenza ad una tribù, un clan o una comunità religiosa. Tutto ciò rende di fatto l’Afghanistan una sorta di “Stato mosaico”, in cui la possibilità di un controllo centralizzato e stabile appare quasi una chimera.

L’oppio e l’invasione sovietica

Grafico da “Perché non funziona la guerra all’oppio”, in Limes “Mai dire guerra”, n.3, 2007. Fonte: UNODC

L’Afghanistan fu però anche, come ancora oggi, il cuore pulsante della produzione di oppio nella regione.

Il grande sviluppo dell’industria della droga in Afghanistan è il risultato del trentennio di guerre abbattutosi sul paese dopo l’ascesa al potere dei comunisti e l’intervento militare sovietico del 1979. È stata infatti la brutale campagna di controguerriglia dell’Armata Rossa a determinare negli anni Ottanta del Novecento la distruzione dei sistemi d’irrigazione che avevano consentito la conduzione delle attività agricole tradizionali di una parte significativa del territorio afghano[5].

Fu infatti proprio la guerra degli anni ottanta che sconvolse totalmente l’agricoltura afghana, dirottando molti coltivatori verso la produzione di oppio e favorendo quindi la nascita di un contesto criminogeno di eccezionale importanza a livello internazionale. Non si può comunque negare che l’Afghanistan avesse già tradizionalmente una produzione propria. Come tutti i Paesi della regione, tanto per via della conformazione territoriale, quanto per via della scarsità delle risorse per il sostentamento dei suoi abitanti, esso aveva anche prima della sopracitata guerra una produzione annuale che variava dalle 200 alle 400 tonnellate di oppio e all’incirca 500 tonnellate di cannabis[6].

Una produzione importante, anche se il primato regionale in questa attività era da sempre toccato ai vicini Iran e Pakistan. Il primo infatti, sotto il regime dello Scià, destinava più di 33.000 ettari alla coltivazione del papavero da oppio [7]; coltivazioni che vennero poi sradicate con l’avvento della rivoluzione islamica di Komeini proprio negli anni ottanta. Mentre il secondo era da ritenersi tra i maggiori produttori mondiali di oppio, insieme con i Paesi del sud-est asiatico (il cosiddetto “Triangolo d’oro”). Furono inoltre proprio i produttori e trafficanti pakistani che videro per primi nell’instabilità afghana, anche precedente al conflitto e all’invasione sovietica, un’eccellente opportunità per potervi esportare le coltivazioni di papavero; date anche le pressioni che essi stavano subendo dal proprio governo, costretto da sollecitazioni internazionali. Tanto più che, come si è detto, la presenza di etnie comuni ai due Paesi (i Pashtun) favoriva il trasferimento di una coltivazione da uno Stato all’altro quasi senza essere visto come tale, dato che si restava sempre sul territorio popolato dalla stessa “gente”.

Certamente però, prima della guerra, la produzione di oppio afghana non poteva certo foraggiare una rete criminale volta al traffico internazionale di droga o ad altre attività, come invece avvenne in seguito. Vi erano infatti soltanto una serie di contadini o produttori che coltivavano papavero da oppio per i mercati tradizionali della regione, oppure per essere esportati e mercanteggiati da trafficanti pakistani; ma comunque sempre in certe limitate quantità. È stata perciò proprio l’invasione sovietica del Paese e la lunga guerra che ne è seguita (dal 1979 al 1989), con le sue devastazioni, a portare alla situazione che oggi conosciamo.

Sono state infatti le caratteristiche legate all'assenza di forti istituzioni statuali ed il prolungato conflitto che hanno promosso un’evoluzione delle peculiarità criminali; le quali prosperano al meglio in situazioni di caos ed assenza di un qualsivoglia determinato controllo. Così, quando l’invasione sovietica e la devastazione della guerra resero impraticabile l’agricoltura, insostituibile fonte di sostentamento per la popolazione, quest’ultima, per garantirsi al sopravvivenza, dovette necessariamente ripiegare su un tipo di coltura che fosse tanto redditizia, quanto bisognosa poche attenzioni (dato che spesso i contadini erano costretti a fuggire per nascondersi in zone sicure).

Questa scelta cadde sul papavero da oppio. Esso ha iniziato quindi ad essere coltivato un po’ ovunque in Afghanistan, ma i territori in cui era, ed è tutt’ora, più presente sono certamente quelli del sud, del sud – est e del nord – est [8]. Divenendo importante già fin dalle prime fasi del conflitto, ma accrescendo la sua incisività nel corso degli anni ottanta. Infatti proprio quel periodo fu caratterizzato anche dal contemporaneo inizio di un calo della centralità del “Triangolo d’oro” nella produzione e nel commercio dell’oppio e dei suoi derivati; permettendo così alla “Mezzaluna d’oro” di divenire sempre più centrale nei traffici internazionali. Insomma, precedentemente il conflitto la produzione, come detto, si aggirava introno alle 200 – 400 tonnellate; mentre al termine dell’occupazione sovietica essa si era già attestata intorno alle 1.500 tonnellate, per poi impennare ulteriormente negli anni di guerra civile ad essa successivi, così come sotto il regime dei Talebani e durante la guerra e l’occupazione degli anni duemila.

Questo aumento della produzione di oppiacei, per lo meno agli inizi degli anni ’80, dipese da diversi fattori: le distruzioni belliche, “l’uscita dal mercato” dei tradizionali produttori dell’area (Iran e Pakistan), le carestie nel “Triangolo d’oro” sul finire degli anni settanta e infine l’aumento della domanda, soprattutto in Europa, che favorì inevitabilmente la merce proveniente da quella regione, poiché già esistevano collaudate reti commerciali da poter sfruttare. Infatti da sempre l’Afghanistan è stato passaggio cruciale fra Cina, India, Asia centrale ed Europa, grazie alla “via della seta” ed alle sue diramazioni, che per secoli hanno permesso il transito di oro, argento, tessuti, pietre preziose, cotone, spezie e, in seguito, anche armi e droghe.

La criminalità

Queste ultime tipologie di traffici venivano condotte dapprima da faccendieri pakistani; mentre, con l’inizio del conflitto, durante gli anni ottanta subentrarono loro vari “contrabbandieri”, “signori della guerra” o “signori della droga”, appartenenti alle varie etnie, tribù e clan presenti sul territorio afghano, che erano in grado di gestire e proteggere con scorte ben armate le spedizioni e le vie di transito [9]. Inoltre, proprio grazie alle solidarietà tribali, i traffici delle varie merci e soprattutto della droga potevano viaggiare senza difficoltà in tutta l’area. In aggiunta, con l’avvento della guerra e dell’invasione russa, tutti questi mercimoni illeciti rientrarono all’interno della logica del jihad antirusso, rendendo ancora più semplici e rapidi gli scambi. Tutto ciò favorì il transito della droga verso il Pakistan, dove erano situati molti dei laboratori che servivano alla trasformazione dell’oppio in morfina base ed eventualmente già in eroina; poiché, come detto, il territorio dell'etnia Pashtun si estende sui due Stati.

Questa presenza di strutture in territorio pakistano fece altresì in modo che anche gli stessi “drug lords” pakistani fossero direttamente coinvolti nell’organizzare un network integrato. Questa rete è strutturata all’incirca nello stesso modo ancora oggi e porta dal contadino, primo anello della “catena della morte” [10], ai laboratori di raffinazione e trasformazione, fino alle rotte di traffico e distribuzione. E persino le medesime autorità civili e militari, tanto locali quanto di Islamabad, sono talvolta in combutta con queste organizzazioni della droga [11]; così come i servizi segreti pakistani e statunitensi, per lo meno durante la guerra [12].

Infatti il conflitto diede modo a questi trafficanti di agire praticamente indisturbati su un territorio sconvolto e disastrato, favoriti sia dalla corruzione dilagante, sia dall’assenza di controlli e di frontiere, sia dal fatto che, con i loro mercimoni, essi in parte contribuivano a favorire la lotta dei mujaheddin, a cui talvolta erano appartenenti. Infatti molti guerriglieri, afghani e non, entrarono, com’era inevitabile date le circostanze, in contatto con la droga. Ciò fece sì che si venisse a costituire una sorta di “criminalità ibrida”, che esiste ancora oggi; cioè alcuni soggetti sono al contempo guerriglieri impegnati nella lotta armata e trafficanti di droga. Alcuni di questi mujaheddin, durante il conflitto con i sovietici, agirono talvolta persino come una sorta di “governatori locali” o comunque come personalità di riferimento per la popolazione, riscuotendo tasse ed amministrando la giustizia nelle loro aree [13].

Tutto questo ha fatto sì che il contesto si presenti ancora oggi come variegato. Infatti le organizzazioni criminali che continuano ad operare nelle attività illecite sono diverse. Ci sono quelle afghane, per lo più rientranti nella definizione di “ibride”, di carattere tribale e composte solitamente da una decina di persone che, con il supporto però dell’intera comunità, gestiscono la filiera, dalla raccolta presso i contadini alla consegna ai laboratori. Questi ultimi invece sono di norma gestiti da altri gruppi, molti di origine pakistana, che si mantengono in stretto contatto con i diversi “signori della droga” o, più raramente, con le autorità militari corrotte, che garantiscono loro protezione. Questi gruppi sono talvolta persino in rapporti anche con le organizzazioni internazionali, legali e illegali, che operano sul territorio pakistano, alle quali consegnano il prodotto finito perché sia trasportato nei vari mercati. Inoltre all’interno di questa lunga catena sono presenti anche le organizzazioni del crimine iraniane, le quali però hanno ruoli non ben definiti, che possono variare dal controllo diretto dei passaggi sul proprio territorio, da cui transitano alcune delle rotte, alla semplice supervisione. Insomma l’estrema frammentazione dei gruppi coinvolti in questa serie di passaggi rende particolarmente difficile il tracciarne una chiara mappatura [14].

La filiera della droga e le rotte

Tratto da Limes “La droga ha vinto”, in “Afghanistan addio!”, n.2, 2010

Allo stesso modo il tragitto compiuto per esportare all'estero la droga poteva e può essere vario e con svariati passaggi, e seguire differenti rotte. Esse erano e sono innestate per lo più sulla tradizionale “via della seta”, ma con una serie di altre ramificazioni, in modo da coprire mercati in aree disparate ed abbattere i rischi di sequestri.

Tutte queste diverse variabili e l’ampissimo ventaglio di possibilità non permettono quindi di esporre completamente e nitidamente un percorso preciso; si è quindi voluto tracciare quella che può essere definita come una sorta di “tipica filiera” della droga in Afghanistan. In essa il primo anello è ovviamente il coltivatore, il quale, dopo il raccolto, vende il proprio prodotto al gruppo criminale afghano “ibrido” che controlla il suo territorio. Ad essi va solo una piccola quota dei proventi. Questa banda afghana farà certamente parte di un’etnia e, grazie ad essa, supererà senza troppa difficoltà i confini tra Afghanistan e Pakistan. Qui la merce sarà scambiata con delle armi dal gruppo “ibrido” con un intermediario, che può essere un agente dei servizi segreti o più genericamente un intrallazzatore pakistano; il quale girerà la merce ad un altro gruppo che gestisce un laboratorio o provvederà lui stesso direttamente a preparare il trasporto. Una volta uscito dai laboratori il prodotto sarà probabilmente consegnato ad un “signore della droga”, il quale apparterrà anch’esso ad una qualche etnia, e condurrà la merce in Iran e da lì farà sì che essa continui il suo viaggio verso l’Europa.

Questo percorso, come detto, può essere anch'esso diversificato, ma le principali direttrici del traffico internazionale di stupefacenti provenienti dall’Afghanistan erano, e restano tutt’ora, principalmente tre. La prima attraversa l’Iran, ed è infatti detta “Rotta iraniana”, per poi giungere in Europa ed in seguito anche in U.S.A. sia attraverso la Turchia ed i Balcani (“Rotta balcanica”), sia attraverso il Caucaso e ed il mar Nero (“Rotta caucasica”); quest’ultima, attraversato il mar Nero, in parte si congiunge anche con la “Rotta balcanica”. Essa si suddivide anch'essa in tre vie diverse: quella principale, a sud, attraverso la provincia autonoma del Sistan e Balucistan, fa sì che la droga transiti dall’Afghanistan all’Iran tramite il territorio del gruppo etnico minoritario dei Baluci, i quali ne favoriscono il passaggio; vi è poi un tragitto a nord, che entra in Iran passando per l’odierno Turkmenistan, ed uno più a sud ancora di quello principale, che costeggia il Golfo Persico ed è utilizzato per trasferimenti via mare. La seconda attraversa il Pakistan, “Rotta pakistana”, per poi raggiungere il porto di Karachi, in cui la merce viene imbarcata sia direttamente verso l’Europa e gli Stati Uniti, sia verso l’Africa, da cui segue altre rotte, ma sempre per raggiungere l’America e l’Europa. La terza, “Rotta centrasiatica e russa”, prende invece la via del nord e si dirige verso il cuore dei territori dell'ex U.R.S.S. ed in parte verso la Cina. Queste ultime due si sono sviluppate maggiormente in anni più recenti, una volta che l’aumento esponenziale della produzione ha richiesto nuove vie di transito [15].

Il traffico di armi

Parallelamente al traffico della droga ed in legame simbiotico con esso, si è sviluppato in Afghanistan fin dall’invasione sovietica anche un secondo importante traffico che perdura ancora oggi: quello delle armi. Fondamentali in questo mercimonio sono alcune cittadine del Pakistan, come Darra Adam Khel [16], situata nel nord vicino a Peshawar e vicino al confine afghano; quella è infatti una regione in cui “le armi contano così tanto e il governo così poco” [17] ed è appunto tra i centri principali degli scambi criminali. In città come Darra vengono riprodotte a mano da tempo copie perfette di armi moderne di vario tipo, fabbricate in dozzine di officine rudimentali. Qui gli artigiani smontano le armi, riproducono i singoli pezzi centinaia di volte e riassemblano copie identiche all’originale.

Dopo il 1989

Dopo la cacciata dei russi, la situazione e la sua caoticità si aggravò ulteriormente. Infatti il sostentamento delle varie milizie che si trovavano sul territorio afghano e che furono poi protagoniste della guerra civile dei primi anni Novanta non poteva che derivare dal denaro proveniente dal traffico di droga. Fu così che le coltivazioni si estesero ulteriormente e nemmeno la presa del potere da parte dei Talebani su circa il 90% del Paese (la parte Nord era invece controllata dalla cosiddetta “Alleanza del Nord”) la eliminò. Anzi, lo stesso regime dei Turbanti Neri fissò persino una tassa sul narcotraffico, esigendo all'incirca un quinto del valore di ogni camion di oppio in transito [18]. Proprio questa “mafia dei contrabbandieri e dei trasportatori” [19], che si occupava anche di contrabbando di merci di vario genere, fu una delle colonne portanti del successo dei Taliban, poiché mise in crisi le economie di tutti gli Stati confinanti e persino le “loro” bande criminali. Il controllo del territorio da parte dei Talebani, la sicurezza garantita e l'accondiscendenza portarono quindi alla creazione di un nuovo clima, che permise la crescita e la diffusione ulteriore delle coltivazioni: nel 1997 la produzione di oppio raggiunse all'incirca le 2.800 tonnellate, superando poi nel 1999 le 4.500.

Il controllo era tale che anche l'apparente calo del 2001 nella produzione non dipese dalla pressione degli organismi internazionali come l'Undcp (United Nations Drugs Control Program); ma piuttosto da una manovra voluta dal regime che prospettava un duplice risultato: da una parte stoccare nei depositi (tanto in Afghanistan, quanto in Turkmenistan e Tagikistan) e gli eccessi del raccolto straordinario degli anni immediatamente precedenti ('99 e 2000) per raffinarlo gradualmente e re-immetterlo nel mercato non appena i prezzi fossero risaliti per una scarsità d'offerta, dall'altra guadagnarsi il plauso della comunità internazionale e ottenere denaro per la lotta alla droga.

“Enduring Freedom”

Dopo l'inizio dell'operazione “Enduring Freedom” del 2001, promossa dagli USA per combattere il terrorismo ed il regime dei Talebani, l'instabilità è tornata a farla da padrone in Afghanistan. In questa situazione però i mercanti della droga hanno avuto la capacità di attrezzarsi meglio, dirottando in altri Paesi dell'area i loro laboratori e adeguandosi alle contingenze. Hanno però mantenuto l'Afghanistan come fulcro nevralgico, soprattutto per quanto riguarda la produzione. Infatti, come dice Antonio Maria Costa, ex direttore dell'Unodc, “quando un regime sparisce in poche settimane (…) e non viene creata rapidamente una struttura forte, la criminalità prende il sopravvento” [20]. E così è stato ed in parte continua ad essere tutt’oggi.

Il controllo dei narcotrafficanti sul territorio diviene fortissimo dopo il 2001, già a partire dai contadini. Infatti i primi fanno credito a questi ultimi, acquistando l'oppio prima che venga raccolto sulla base del prezzo dell'anno precedente. Se il raccolto nuovo non arriva a coprire il debito, la differenza viene lasciata; mentre se supera quanto pagato in base al quantitativo dell’anno passato, i compratori pagano la differenza. Così facendo il coltivatore rimane “fidelizzato”.

Inoltre l'intensificarsi della produzione porta anche ad un aumento degli scambi; cosicché nuove rotte o anche rotte poco utilizzate fino a quel momento iniziano ad essere decisamente sfruttate, come ad esempio la rotta che attraverso l'Africa ha come principale destinazione sempre l'Europa.

L'inizio dell'invasione americana porta quindi ad un impennarsi tanto della produzione di oppio, che torna a circa 3.400 tonnellate nel 2002, quanto del prezzo, che cresce di circa dieci volte. Il Pentagono aveva infatti da subito dichiarato di non voler promuovere, almeno inizialmente, una guerra all'oppio, anche perché era la principale fonte di sostentamento per la popolazione. Inoltre la cosiddetta Alleanza del Nord, principale alleato degli americani contro i Talebani, gestiva una grande fetta del mercato della droga, tra piantagioni, raffinerie e controllo di parte delle rotte.

La lotta al “terrorismo”, definito secondo i canoni USA, ha fatto inoltre sì che questo si associasse al traffico di narcotici, anche perché, come visto, erano gli stessi Talebani a gestirlo in parte. Diviene così importante il “narco-terrorismo” o, in particolare, il “narco-jihadismo”; cioè quelle forme di lotta parallela ed irregolare e terroristica che si procaccia i fondi grazie al traffico delle sostanze stupefacenti.

Il problema della droga e del terrorismo ad essa legato è tanto radicato e centrale nello stato afghano che il suo contrasto viene persino citato nella Carta Costituzionale, all'articolo VII, che recita “(...) lo Stato previene ogni tipo di attività terroristica, di coltivazione e di spaccio di sostanze stupefacenti e di consumo di sostanze inebrianti[21]. Però c'è stato un forte limite in coloro che hanno promosso o monitorato la nascita dello Stato post-talebano: quello di non cogliere, o di non voler cogliere, il livello di penetrazione nelle nascenti strutture statuali di poteri forti consolidatisi nel corso del conflitto e delle potenti lobby legate al narcotraffico. “Di fato oggi in Afghanistan l'impunità regna sovrana, accompagnata da un altissimo livello di corruzione che riguarda tutte le sfere dell'attività pubblica”; in cui, a trarre vantaggio, sono i vari signori della guerra e della droga, “il cui potere è stato tutt'altro che ridotto in questi anni, ma si è al contrario rafforzato con la politica di coinvolgimento avviata fin dalla guerra ai taliban (…) e perseguita con sistematicità dal governo Karzai[22].

Più recentemente, secondo il rapporto dell'Unodc del 2013, la coltivazione di oppio in Afghanistan si estende per 209.000 ettari, un record superiore persino a quello del 2007 di 193.000 ettari. Quindi anche le tonnellate di oppio prodotte sono aumentate, mantenendo sempre la parte meridionale del Paese, con le sue nove province, come la principale area produttiva (circa l'89% del totale). Ovunque ci siano coltivazioni l'insicurezza aumenta, ma senza aiuti è difficile per la popolazione rinunciare alle piantagioni, per lo meno secondo un'ottica strettamente economica.

In tutto ciò anche l'azione repressiva condotta dal debole e corrotto Stato afghano è controproducente. L'estirpazione è infatti anch'essa veicolo di corruzione: gli agricoltori devono pagare per non vedersi distrutto il raccolto e persino la droga confiscata viene rivenduta dalla polizia agli stessi trafficanti, con favoritismi di alcuni funzionari verso questi ultimi. L'azione di repressione tende poi a colpire solo i coltivatori più poveri, quelli che non possono ricorrere alla corruzione o non hanno protezioni dall'alto; facendo anche sì che chi perde tutto si arruoli fra i Taliban. In questo modo la produzione si è ulteriormente concentrata in poche mani, di uomini potenti a tutti i livelli: creando una sorta di struttura mafiosa, “intesa come organizzazione per la protezione della produzione di droga in un ambiente criminale[23].

Note

  1. Aldo Musci, Tutte le mafie del mondo, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo, 2011, p.56
  2. Eugenio Turri, l’Afghanistan è la sua geografia, in Nel mondo di Bin Laden, Limes, Quaderni Speciali, 2001, p. 55
  3. Anthony Hyman, Afghanistan under soviet domination, 1964 – 83, MacMillan Press, Londra, 1984
  4. Conrad Schetter, “Benvenuti nel medioevo”. Il fallimento coloniale in Afghanistan, in L’impero dei pasdaran, Limes, n.5, 2006, p.214
  5. Germano Dottori, Tutte le strade dell’oppio portano a Kabul, in Il circuito delle mafie, Limes, Novembre, 2013, p.155
  6. Anthony Lake & co., After the wars. Reconstruction in Afghanistan, Indochina, Central America, Southern Africa and the Horn of Africa, Transaction Publishers, New Brunswick, 1990, p.59
  7. Ramita Navai, Le vie della droga, in L’Iran tra maschera e volto, Limes, n.5, 2005
  8. Eugenio Turri, l’Afghanistan è la sua geografia, in Nel mondo di Bin Laden, Limes, Quaderni Speciali, 2001
  9. Pina Cusano, Dalla via della seta alle vie della droga, in Nel mondo di Bin Laden, Limes, Quaderni Speciali, 2001
  10. Anthony Hyman, Afghanistan under soviet domination, 1964 – 83, MacMillan Press, Londra, 1984
  11. Anthony Lake & co., After the wars. Reconstruction in Afghanistan, Indochina, Central America, Southern Africa and the Horn of Africa, Transaction Publishers, New Brunswick, 1990
  12. Giulietto Chiesa, Vauro, “Afghanistan. Anno zero”, Emergency - Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2001
  13. Hassan Kakar, Afghanistan. Tha Soviet invasion and the afghan response, 1979 – 1982, University of California Press, Los Angeles, 1995
  14. Rosario Aitala, Cristiano Congiu, La droga ha vinto, in Afghanistan addio!, Limes, n.2, 2010
  15. Rosario Aitala, Cristiano Congiu, La droga ha vinto, in Afghanistan addio!, Limes, n.2, 2010
  16. Docherty Paddy, Khyber Pass, Il Saggiatore, Milano, 2010
  17. Docherty Paddy, Khyber Pass, Il Saggiatore, Milano, 2010, p.248
  18. Aldo Musci, Tutte le mafie del mondo, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo, 2011
  19. Aldo Musci, Tutte le mafie del mondo, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo, 2011, p.58
  20. Aldo Musci, Tutte le mafie del mondo, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo, 2011, p.64
  21. Aldo Musci, Tutte le mafie del mondo, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo, 2011, p.65
  22. Antonella Deledda, Gli stati nello stato: perché stiamo perdendo la guerra afghana, in L'impero dei pasdaran, Limes, n.5, 2006
  23. Giuliano A. Finetto, Perché non funziona la guerra all'oppio, in Mai dire guerra, Limes, n.3, 2007

Bibliografia

  • Anthony Hyman, Afghanistan under soviet domination, 1964 – 83, MacMillan Press, Londra, 1984
  • Limes, n.5, 2006
  • Aldo Musci, Tutte le mafie del mondo, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo, 2011