Cesare Terranova

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"Oggi si parla di quarta mafia, la terza, la quinta, ma la realtà è che la mafia è sempre una, ha una sua continuità; si succedono naturalmente i capi, i personaggi, cambiano i sistemi operativi, cambiano gli obiettivi di lucro, ma la mafia è sempre quella."
(Cesare Terranova)

Cesare Terranova (Petralia Sottana, 15 agosto 1921 - Palermo, 25 settembre 1979) è stato un magistrato e un politico italiano, vittima di un agguato mafioso di Cosa Nostra, insieme alla sua fedele guardia del corpo Lenin Mancuso.

Cesare Terranova

Biografia

Entrato in magistratura nel 1946, subito dopo la fine della guerra, esercitò prima come pretore a Messina e poi a Rometta. Nel 1958 si trasferì dal Tribunale di Patti a quello di Palermo, dove avviò i primi grandi processi di mafia contro Luciano Leggio e gli altri boss mafiosi di Corleone. Da palermitano, infatti, Terranova, aveva capito la crescente pericolosità della nuova leva di "viddani" che avevano sterminato Michele Navarra e i suoi fedelissimi, prendendone il posto; capì anche la trasformazione della mafia siciliana, che dal feudo si spostava sulle opportunità di speculazione edilizia offerte dalle città. Fu il primo magistrato a mettere per iscritto nella sentenza istruttoria per la strage di viale Lazio del 10 dicembre 1969 che gli amministratori comunali di allora rappresentavano in centro propulsore della nuova mafia[1].

Procuratore d'accusa nel processo di Bari contro Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Calogero Bagarella, nel 1969 venne sconfitto da una sentenza di assoluzione per quasi tutti gli imputati: la forza della repressione giudiziaria dello Stato esplosa dopo la Strage di Ciaculli era già finita.

Deputato del PCI

Eletto come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano alla Camera dei Deputati nel 1972, vi restò fino al 1979; membro della Commissione Parlamentare Antimafia della VI legislatura, firmò insieme a Pio La Torre la relazione critica di minoranza in cui venivano evidenziati i rapporti tra mafia, politica e imprenditoria, in particolare con esponenti di spicco della Democrazia Cristiana, come Giovanni Gioia, Vito Ciancimino e Salvo Lima.

Dopo l'esperienza parlamentare, Terranova tornò in magistratura per essere nominato Consigliere presso la Corte di appello di Palermo.

L'omicidio

Cesare Terranova, dopo l'agguato

La mattina del 25 settembre, verso le 8:30 del mattino, il magistrato si mise alla guida della sua Fiat 131, con a fianco la sua guardia del corpo, il maresciallo Lenin Mancuso. Imboccando la solita strada secondaria per giungere al tribunale, la trovarono chiusa per lavori in corso: fu in quel momento che l'auto venne affiancata dai killer che aprirono il fuoco con una carabina Winchester e pistole. Il magistrato ingranò la retromarcia nel tentativo di sottrarsi ai proiettili, mentre il Maresciallo Mancuso estrasse la Beretta di ordinanza per rispondere al fuoco. Terranova morì sul colpo, Mancuso poche ore dopo in ospedale.

Il Cardinale Salvatore Pappalardo, nell'omelia durante i solenni funerali, disse: "Sappiamo bene che non sono possibili soluzioni semplicistiche e immediate. Il male è talmente profondo e incarnato che le sue velenose radici affondano in un terreno dove si intrecciano da secoli... torbidi interessi, espressioni dell'egoismo e della prepotenza umana, disancorata da ogni visione morale e religiosa della vita"[2].

Le indagini e i processi

Alle 9:15 il duplice omicidio venne rivendicato dall'organizzazione fascista Ordine nuovo, con una telefonata anonima a un quotidiano romano, ma gli inquirenti rimasero convinti della matrice mafiosa dell'attentato. Secondo l'amico e scrittore Leonardo Sciascia, Terranova fu ucciso perché "stava occupandosi di qualcosa per cui qualcuno ha sentito incombente o immediato il pericolo"[3]. Ciononostante, dalle carte e dai dossier presenti nell'Archivio del magistrato messi a disposizione della moglie, Giovanna Giaconia Terranova, non emerse nulla.

Le prime importanti dichiarazioni sull'omicidio del magistrato arrivarono nel 1984 con la collaborazione di Tommaso Buscetta, che rivelò a Giovanni Falcone come il magistrato fosse diventato un obiettivo già nel 1975 per essere riuscito ad ottenere la condanna all'ergastolo di Liggio e per il suo attivismo in Commissione Antimafia.

Anche Francesco Di Carlo, esponente del mandamento di San Giuseppe Jato e uomo di fiducia di Bernardo Brusca, riconobbe Liggio come mandante dell’omicidio e come esecutori materiali: Giuseppe Giacomo Gambino, Vincenzo Puccio, Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia. Nel 1997 venne riaperto il procedimento contro altre sette persone, esponenti della cupola palermitana, che diedero il permesso di eliminare il giudice che stava per diventare giudice istruttore nella commissione antimafia: Michele Greco, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Antonino Geraci, Francesco Madonia, Totò Riina e Bernardo Provenzano[4].

Memoria

Di lui scrisse il Presidente della Repubblica Sandro Pertini: Cesare Terranova fu uomo di alto sentire e di grande cultura: amava profondamente la sua Sicilia e viveva con angoscia la fase di trapasso che l'isola attraversava, dall'economia del feudo e rurale all'economia industriale e collegata con le grandi correnti di traffico europeo e mediterraneo. Ma egli era anche animato, oltre che da un virile coraggio, anche da infinita speranza, che scaturiva dalla sua profonda bontà d'animo: speranza nel futuro dell'Italia e della Sicilia migliori, per le quali il sacrificio della sua vita, fervida, integra ed operosa non è stato vano. Ancora una volta così la violenza omicida della delinquenza organizzata ha colpito uno degli uomini migliori, uno dei figli più degni della terra di Sicilia.

Note

  1. Lodato, p. 23
  2. Lodato, p.25
  3. In Ricordo di Cesare Terranova
  4. Ecco chi uccise Terranova. Corriere della sera. Archivio storico. 4 giugno 1997.

Bibliografia

  • Camera dei Deputati, Archivio Storico
  • Lodato, Saverio. Quarant'anni di mafia, Milano, Bur, 2013