Cosa Nostra: differenze tra le versioni

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Inaugurando poi la lunga sequenza delle condanne a boss e politici mafiosi annullate per vizio di forma, la Cassazione annullò il processo perché un testimone non aveva giurato in una sua deposizione. Ad ormai dieci anni dalla morte del marchese l’opinione pubblica si era stancata del caso e il mutato clima politico fecero cadere la vicenda nel dimenticatoio. Il nuovo processo svoltosi a Firenze nel [[1904]] produsse l’assoluzione degli imputati. Già quindi all'inizio del XX Secolo lo Stato italiano aveva tutti gli elementi per contrastare l'organizzazione mafiosa siciliana e riconoscerla come tale, con i suoi rapporti organici con la politica, ma proprio in virtù di questi si rifiutò di combatterla, delegando la cosa a pochi valorosi uomini delle istituzioni.
Inaugurando poi la lunga sequenza delle condanne a boss e politici mafiosi annullate per vizio di forma, la Cassazione annullò il processo perché un testimone non aveva giurato in una sua deposizione. Ad ormai dieci anni dalla morte del marchese l’opinione pubblica si era stancata del caso e il mutato clima politico fecero cadere la vicenda nel dimenticatoio. Il nuovo processo svoltosi a Firenze nel [[1904]] produsse l’assoluzione degli imputati. Già quindi all'inizio del XX Secolo lo Stato italiano aveva tutti gli elementi per contrastare l'organizzazione mafiosa siciliana e riconoscerla come tale, con i suoi rapporti organici con la politica, ma proprio in virtù di questi si rifiutò di combatterla, delegando la cosa a pochi valorosi uomini delle istituzioni.
==== Mafia e Socialismo: Bernardino Verro e i fasci siciliani ====
Nell'ultimo decennio del XIX secolo le condizioni di vita dei contadini siciliani erano diventate insostenibili, a causa del sistema di intermediazione gestito dai c.d. gabelloti. Fu per questo motivo che nacquero '''i Fasci Siciliani''', leghe di coltivatori organizzate dal corleonese [[Bernardino Verro]]
Il movimento, di chiara ispirazione socialista, chiedeva nuovi contratti che stipulassero una ripartizione paritaria del prodotto tra i proprietari e i contadini di piccoli fondi. I mafiosi, visto il clima di incertezza politica, offrirono allora a Verro la possibilità di essere iniziato: il leader socialista accettò in parte per ingenuità (pochi sapevano cosa fosse veramente la mafia, i più la ritenevano una semplice associazione segreta), in parte per ottenere la loro protezione contro le numerose minacce di morte che gli erano arrivate. Le cose però precipitarono quasi subito: i mafiosi, avendo capito che lo Stato avrebbe represso i Fasci, decisero di appoggiare i proprietari terrieri, declinando le richieste dei movimenti contadini, cosa che portò Verro a pentirsi amaramente di avervi fatto accordi. Nel [[1894]] il fascio fu represso definitivamente con la legge marziale: l’esercito giunse in Sicilia e sedò le rivolte.
Bernardino Verro venne condannato a dodici anni per aver cercato di fare la rivoluzione in Sicilia (ne sconterà solo un paio grazie all'amnistia). Ciononostante, le cose per i contadini migliorarono: fu varata una legge che permetteva alle cooperative di accendere prestiti presso il Banco di Sicilia  per affittare la terra direttamente dai proprietari. Verro nel [[1907]] assunse la guida di una cooperativa fondata appositamente per usufruire dei benefici della nuova legge e al tempo stesso espellere dall’economia rurale siciliana gli intermediari (in particolare i gabelloti mafiosi).
Lo scontro fu violento e dalla parte dei mafiosi si schierò anche la Chiesa Cattolica, in funzione anti-socialista: fu creato un fondo cattolico, la Cassa Agricola San Leoluca, per fare concorrenza alla cooperativa di Verro, che aveva già acquisito nove tenute. Nel [[1913]] il leader socialista fu accusato di truffa, anche se poi si scoprì che il suo tesoriere era stato corrotto da alcuni mafiosi appositamente per compiere reati che screditassero la sua immagine. Nonostante le accuse, Verro riuscì a diventare sindaco di Corleone con una maggioranza schiacciante. La mafia corleonese decise allora di ucciderlo, non essendo riuscita a fermarlo "con le buone" e temendo tra l'altro che in tribunale potesse rivelare informazioni sulla cosca corleonese di cui aveva fatto parte. Nel [[1915]] venne colpito da cinque pallottole, il volto sfigurato come monito per chiunque altro volesse opporsi al potere mafioso locale.
Il processo per il suo assassinio si concluse con la richiesta del pubblico ministero, il commendatore Wancolle, di assolvere tutti gli imputati per non aver commesso il fatto, che il tribunale immediatamente accolse. Gli esecutori materiali del delitto non furono mai condannati.


==== Lo sbarco negli USA ====
==== Lo sbarco negli USA ====

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«La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione».
(Giovanni Falcone)[1]


Con il termine Cosa Nostra si intende l'organizzazione criminale di stampo mafioso nata in Sicilia, la più famosa e fino agli inizi degli anni '90 la più potente tra le organizzazioni mafiose a livello internazionale. A lungo identificata con la parola di origine siciliana "Mafia", Cosa Nostra ha giocato un ruolo e ha avuto un peso nelle vicende politiche dell'Italia unita, sin dalle origini che nessun'altra organizzazione mafiosa può vantare.

Origine del nome

La prima volta che comparve la parola «mafia» in Italia fu nel 1863, durante lo spettacolo teatrale “I mafiusi della Vicaria” di Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca. La piéce teatrale ebbe molto successo all’epoca, con oltre trecento repliche nella sola Palermo e addirittura Re Umberto I tra gli spettatori a Napoli: il protagonista, Gioacchino Funciazza, dominava sugli altri mafiusi, facendosi pagare “u pizzu” per dormire su un giaciglio, ma al tempo stesso difendeva gli oppressi dal nuovo Stato e tutti quelli che chiedevano la sua protezione. Non solo, il boss rispettava i morti, battezzava i nuovi affiliati, promuoveva i migliori della banda. Tutte cose considerate all’epoca «onorevoli», ma il mafioso non era ancora «uomo d’onore» come sarebbe stato inteso decenni dopo. L’aggettivo «mafioso» era piuttosto sinonimo di «uomo coraggioso», mentre diventava «bella donna» se declinato al femminile.

Tant’è che Rizzotto fu aspramente criticato, in primo luogo dall’etnologo Giuseppe Pitrè, che lo accusava di aver attribuito valore negativo alla parola. «La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti.», sosteneva lo studioso, «Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata applicata al ladro, ed al malandrino, ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui»[2].

La concezione di Pitrè piaceva particolarmente anche a Luciano Leggio[3], che la riprese durante una famosa intervista a Enzo Biagi[4]:

Biagi: «Che cos’è la Mafia secondo lei, è una cosa riprovevole?»
Leggio: «[…] Leggendo vari autori che hanno parlato su ‘sta parola, mafia, e rifacendomi al Pitrè che è uno dei grandi cultori della lingua antica siciliana, mafia doveva essere una parola di bellezza. Bellezza non solo fisica, ma anche bellezza come spiritualità, nel senso che se incontro una bella donna diciamo “Mafiusa sta fimmina” […]. Era un complimento e un fenomeno di bellezza. »
Biagi: «Se è così lei non si offende se io dico che è mafioso.»
Leggio: «No, non mi offendo, non solo. Semplicemente mi duole perché credo che non ho tutta quella ricchezza spirituale e fisica di esserlo, un mafioso»

Una ricchezza spirituale e fisica che evidentemente non mancava a un illustre cittadino palermitano come era Vittorio Emanuele Orlando, già presidente del Consiglio dei Ministri (1917-1919) e Ministro degli Interni (1916-1919), che in un comizio al Teatro Massimo di Palermo arrivò a dichiarare che «se per mafia si intende il senso dell'onore portato fino all'esagerazione, l'insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell'anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!»[5].

Cesare Terranova, capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, dichiarò nel 1965: «La mafia non è un concetto astratto, non è uno stato d’animo, ma è criminalità organizzata, efficiente e pericolosa, articolata in aggregati o gruppi o “famiglie” o meglio ancora “cosche”. […] Esiste una sola mafia, né vecchia né giovane, né buona né cattiva, esiste la mafia che è associazione delinquenziale»[6]

Questa dichiarazione metteva in luce chiaramente l’importanza della cellula organizzativa base mafiosa, la famiglia, oltre a sottolineare l’infondatezza della suddivisione tra vecchia e nuova mafia. Tale distinzione (vecchia mafia, portatrice di valori tradizionali e in un certo senso positivi, contrapposta ad una nuova mafia degenerata e traditrice di quegli stessi principi) ritrae in modo erroneo l’organizzazione criminale, che va forse vista come un continuum di vicende criminali in cui raramente si può trovare qualcosa di positivo (Moiraghi, 2013).

«E’ una società, un’organizzazione, a modo suo, giuridica»[7], affermò più tardi Giovanni Falcone. Eppure l’organizzazione venne riconosciuta tale solo con la sentenza di Cassazione del Maxiprocesso del 30 gennaio 1992.

Il termine “Cosa Nostra” entrò definitivamente nel dibattito pubblico italiano solo in seguito alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta rese al Maxiprocesso e alla già citata sentenza di Cassazione che ne confermò la validità e veridicità. Prima di lui, già negli anni '60 il pentito italo-americano Joe Valachi aveva parlato di “Cosa Nostra” in riferimento all’organizzazione mafiosa americana di derivazione siciliana, ma il termine stentò ad affermarsi in Italia e fu duramente contestato anche negli USA.

Storia ed evoluzione

Le origini

Nel 1860 Giuseppe Garibaldi con le sue camicie rosse invase la Sicilia per annetterla al regno d’Italia, sconfiggendo l’esercito borbonico. La spedizione ebbe un rapido successo poiché lo sbarco innescò una rivolta interna che non lasciò scampo ai Borboni. Ma quale fu la causa del disagio che spinse i siciliani ad appoggiare i garibaldini? Con la legge del 4 agosto 1812, il Parlamento siciliano aveva formalmente abolito il sistema feudale, che, però, continuò ancora per oltre un secolo ad essere la struttura socio-economica portante della Sicilia. I baroni che prima gestivano immensi feudi in quanto vassalli del re continuarono lo stesso a spadroneggiarvi in quanto proprietari. Questo modello basato sul latifondo aveva favorito la miseria della popolazione e la debolezza delle classi sociali diverse da quella possidente, unitamente alla diffusione del particolarismo (la tendenza a curarsi solo dei propri interessi, spesso a danno degli interessi altrui), del familismo (concezione che assolutizza i legami familiari arrivando all'estraniamento dalle responsabilità sociali) e del clientelismo (sistema di relazioni tra persone che, accomunate da motivi di interesse, si scambiano favori, spesso a danno di altri).

Il popolo siciliano che sperava in un cambiamento sociale con l’annessione al regno d’Italia rimase però deluso. I primi governi italiani (quelli della Destra storica, aventi ministri solo settentrionali) vollero la sottomissione senza condizioni al nuovo Stato, imponendo il servizio di leva obbligatoria (che privò le famiglie contadine di braccia giovani) e insaprendo le tasse (tra cui quella odiosa sul macinato). Nei primi dieci anni le politiche governative fecero nascere la questione meridionale: investimenti pubblici vennero concessi quasi eslusivamente a industrie del nord; la redistrubuzione delle terre fu iniqua; fu ritirato il denaro metallico e sostituito con cartamoneta, il che consentì l’avvio di una spirale inflazionistica; Fu emarginato e poi smembrato il Banco delle Due Sicilie.

Il risultato fu il peggioramento socio-economico dell’intero Meridione. Anche sul fronte politico l’integrazione fu problematica: si voleva inserire siciliani fra i ministri del re, ma gli uomini politici locali praticavano l’omicidio e il sequestro contro i loro avversari. In Sicilia c’erano, inoltre, i rivoluzionari repubblicani che avevano legami con bande semi-criminali, mentre gli aristocratici e il clero erano ancora fedeli ai Borboni o sposavano la linea indipendentista. L’insieme di tutti questi fattori fece si che i primi quindici anni dell’unità furono contrassegnati da numerose rivolte in Sicilia.

La prima nel 1862 per mano dello stesso Garibaldi che, preoccupato della situazione del nuovo regno, scelse la Sicilia come piattaforma per una nuova invasione della penisola. L’obiettivo era Roma, governata dal Papa, ma un esercito italiano lo fermò sull'Aspromonte. Il governo italiano allora instaurò la legge marziale in tutta l’isola, diventando un precedente importante per gli anni a venire. Non volendo o non potendo trovare l’appoggio per pacificare la Sicilia con mezzi politici, si fece ricorso alla soluzione militare (assedi di città, arresti di massa, incarcerazioni senza processo). La situazione non migliorò, tanto che nel 1866 ci fu un’altra rivolta a Palermo, simile a quella del 1860 contro i Borboni. I tumulti e le repressioni si attenuarono solo nel 1876, quando politici siciliani entrarono nella compagine del governo.

Fu in questo periodo che va dal 1860 al 1876 si affermò la Mafia, agraria e incardinata sul latifondo, dove spiccava la figura del gabelloto mafioso, che svolgeva un ruolo di intermediazione tra comunità locale e Stato centrale, tra manodopera contadina e proprietari terrieri. Ottenuti in gabella gli ex feudi dei baroni, poco interessati a operarvi trasformazioni produttive, i primi mafiosi li dividevano in piccoli lotti, subaffittandoli ai contadini poveri e ricavando consistenti guadagni. I gabelloti divennero potenti e in assenza dello Stato gestirono da soli il monopolio della violenza (i piccoli criminali sparirono, c’era spazio solo per i mafiosi), creando proprie forze armate, i cosiddetti campieri.

Differenze col brigantaggio

Parallelamente in Sicilia si sviluppò il fenomeno del brigantaggio che però si distingueva dalla mafia per il fatto che puntava al cambiamento sociale e di conseguenza attentavano alla proprietà privata e alla sicurezza dei baroni, mentre i mafiosi invece offrivano loro “protezione”. Brigantaggio e mafia erano fenomeni antagonisti che però finirono per entrare in un rapporto simbiotico: i briganti concorrevano a creare tra le vittime una forte domanda di protezione sul territorio e i mafiosi approfittavano di questa circostanza per offrire la loro ”sicurezza”, prestandola a condizioni a prima vista accettabili. La violenza del mafioso per quanto costosa non era assolutamente da paragonare da paragonare a quella del brigante. Il brigantaggio, fenomeno delle classi subalterne, è stato tollerato e strumentalizzato dalle classi dominanti fino a quando tornò utile, per poi essere represso duramente (ciò avvenne quando la borghesia mafiosa andò al potere nel 1876).

La mafia invece, espressione delle classi dirigenti, tanto che continua ad esistere ancora oggi, seppe costruire e mantenere un rapporto organico e di connivenza col potere politico. La mafia in principio adottò una strategia di boicottaggio nei confronti dello Stato, ma ben presto però i mafiosi capirono che la politica cercava di usarli come strumento di governo locale: prima la Destra, che li usò per ripristinare l’ordine; poi la Sinistra dal 1876, quando il governo Minghetti perse la fiducia dei politici siciliani a causa della proposta di una commissione parlamentare su mafia e banditismo che venne considerata un oltraggio alla Sicilia. La Sinistra storica da questo punto di vista si rassegnò alla collaborazione con i politici mafiosi, pur di formare un governo. Da quel momento la mafia cominciò quindi ad affondare le mani nel mercato romano dei favori elettorali. Da una strategia di boicottaggio, quindi, si passò ad una forma di sfruttamento dello Stato. Entrambi gli schieramenti politici usarono la mafia come strumento di governo locale, solo in maniera differente. Il modello introdotto dalla Sinistra persiste ancora oggi. L’analisi più lucida sulla nascita della mafia ce la dà Leopoldo Franchetti, intellettuale toscano: "la mafia nacque con la caduta del feudalesimo e l’arrivo del capitalismo che necessitava di uno Stato che garantisse ai vari imprenditori sicurezza attraverso il monopolio della violenza. Il regno d’Italia fallì e così i baroni e i loro scagnozzi cominciarono a prendere il controllo dell’economia (racket estorsione/protezione) e della politica (corruzione)"[8].

Il caso Galati e la mafia dell'Uditore

Il primo caso di mafia riguardò la vicenda del chirurgo Gaspare Galati che, ereditando nel 1872 il fondo Riella (un limoneto) appena fuori Palermo, dovette fare i conti con il guardiano della tenuta, Benedetto Carollo. Mafioso di primo rango, l'uomo praticava la prima forma di racket della mafia siciliana: rubava limoni affinché le rendite si abbassassero, così facendo avrebbe potuto comprare a basso costo il terreno. Iniziava poi con una serie di intimidazioni nei confronti dell'ex-proprietario, il quale per paura gli concedeva il 25-30% della rendita.

Galati decise di licenziare il guardiano, che per vendetta uccise il suo sostituto, ma il chirurgo non cedette alle intimidazioni anche quando gli arrivarono lettere minatorie contro la sua famiglia. La polizia non era troppo zelante e sembrava non voler catturare Carollo e i suoi scagnozzi. La mafia all'epoca agiva sotto la copertura di un’organizzazione religiosa comandata da Antonino Giammona (boss dell’Uditore, piccolo villaggio dove era situato il fondo Riella). Quest’uomo di umili origini fece fortuna durante le rivolte del ’48 e del ’60. La mafia dell’Uditore basava la sua economia sul racket della protezione dei limoneti. Poteva costringere i proprietari ad assumere i suoi uomini come guardiani e la sua rete di contatti con carrettieri, grossisti e portuali era in grado di minacciare la produzione di un’azienda agricola o di assicurarne l’arrivo sul mercato. Utilizzando la violenza si poteva fare cartello. Una volta assunto il controllo di un fondo, i mafiosi potevano rubare puntando ad un’economia parassitaria o ad acquistarlo ad un prezzo più basso del suo reale valore.

Alla fine Galati fuggì a Napoli incapace di ottenere giustizia a causa dell’omertà degli abitanti e della collusione di parte delle istituzioni[9]. La mafia acquisì i caratteri tipici dell’associazione segreta, mutuandoli dalla massoneria e dalla carboneria che andavano per la maggiore in quel periodo, oltre al fatto che conveniva. Usare una sinistra cerimonia di iniziazione e una tavola di leggi la cui prima regola era quella del castigo ai traditori, contribuiva a creare unità interna e senso di appartenenza.

Il rapporto Sangiorgi

* Per approfondire, vedi Rapporto Sangiorgi

Le indagini sulla "Mafia dell'Uditore" ebbero una svolta quando nel marzo 1875 venne chiamato a dirigere il distretto di polizia di Castel Molo (che comprendeva la Conca d'Oro, la Piana dei Colli e anche i limoneti di Passo di Rigano e dell'Uditore) l'ispettore Ermanno Sangiorgi, che cominciò a far la guerra alla politica di cogestione della criminalità con i mafiosi portata avanti dallo stesso distretto di polizia. Il suo primo atto fu quello di revocare il porto d'armi ai capimafia e di diramare ammonizioni nei loro confronti: questa prima e inedita guerra aperta alla mafia ottenne brillanti successi, nonostante l'opposizione e le proteste di Senatori, Deputati, Magistrati Superiori e "altre notabilità", come le definì lui, che cercarono di difendere il "buon nome" dei capimafia.

Otto mesi dopo il suo insediamento a Palermo, nel novembre 1875, Sangiorgi ricevette nel suo ufficio Calogero Gambino, apparentemente un vecchio sciancato in realtà mafioso di primo rango legato a Salvatore Licata, uno dei capimafia più temuti e rispettati della Conca d'Oro. Gambino denunciò un complotto ai suoi danni da parte di Giovanni Cusimano, capomafia di San Lorenzo detto il Nero per via della sua carnagione, morto poco prima nell'ambito di una guerra di mafia tra fazioni rivali per il controllo dei limoneti. L'uccisione di suo figlio Antonino, caduto in un agguato il 18 giugno 1874, non era responsabilità dell'altro suo figlio Calogero, bensì di Cusimano, ed era l'epilogo di una faccenda risalente a 14 anni prima, quando Giuseppe Biundi, nipote del sottocapo del "Nero", aveva rapito e stuprato la figlia di Gambino per costringerla a sposarlo. Pochi mesi dopo il matrimonio, il genero aveva rubato migliaia di lire dalla casa del suocero, che non aveva denunciato per timore della ritorsione del clan di San Lorenzo. Quando però nel 1863 venne ucciso il fratello di Gambino, questi fece arrivare alla polizia una soffiata che portò all'arresto di Biundi. Tre anni dopo Cusimano sfruttò la rivolta palermitana del '66 per tentare lo sterminio dei Gambino, che però vennero avvertiti e si rifugiarono dai Licata: qui Salvatore sposò la figlia del capomafia. Il "Nero" fu costretto quindi a offrire una tregua, che durò però fino al 17 dicembre 1872 quando i fratelli Gambino furono vittima dell'ennesimo agguato da parte degli uomini del "Nero", da cui riuscirono a salvarsi. A questo agguato aveva partecipato anche il mafioso Giuseppe Riccobono detto Dorazia, genero di Antonino Giammona, capomafia dell'Uditore.

Quando poi finalmente riuscirono ad uccidere Antonino, il predecessore di Sangiorgi, Matteo Ferro, che aveva pubblicamente elogiato Cusimano, indirizzò le indagini sul fratello Calogero, che fu arrestato e accusato dell'omicidio, sulla base della testimonianza di un soldato che era giunto poco dopo aver udito gli spari sul luogo del delitto. Le indagini di Sangiorgi riuscirono a dimostrare la falsità della dichiarazione, ma anche il rituale di iniziazione segreto alla c.d. Onorata Società. Quando nel marzo 1876 la Destra storica fu spodestata e si insediò il primo governo di Sinistra, il clima politico attorno a Sangiorgi cambiò e questi fece domanda di trasferimento, subito accolta, trasferendosi a Siracusa. Senza Sangiorgi, il sistema di potere e di connivenze precedentemente scardinato tornò in auge e il processo Gambino prese un'altra piega.

All'inizio del 1877, tuttavia, Sangiorgi venne spedito ad Agrigento per occuparsi di un mafioso in particolare, Pietro De Michele, il boss di Burgio, detto anche il barone benché non avesse alcun titolo nobiliare. Benché fosse il proprietario terriero più ricco della città e avesse in mano l'intero consiglio comunale, Sangiorgi gli revocò il porto d'armi, lo mise sotto sorveglianza e ne ordinò l'arresto quando si diede alla latitanza.

Nel frattempo, il 28 agosto dello stesso anno arrivò la sentenza del caso Gambino: la corte non aveva creduto alla versione del padre e aveva condannato l'altro figlio ai lavori forzati a vita. In tutto ciò, nella sentenza i giudici mettevano nero su bianco accuse alla condotta di Sangiorgi, colpevole a loro dire di aver "ingannato, mistificato, illuso la giustizia"[10]. Il caso Gambino divenne quindi il Caso Sangiorgi, con il Ministero dell'Interno che chiese a quello della Giustizia di aprire un'indagine, il cui verdetto fu dato il 12 ottobre, confermando la veridicità delle accuse. Il principale testimone contro Sangiorgi era il procuratore generale Carlo Morena, lo stesso che aveva negato la possibilità che le diverse famiglie mafiose potessero essere collegate tra loro, ma anche l'uomo che aveva difeso il boss De Michele e grazie al quale questi era stato scarcerato.

Ciononostante, il prefetto di Agrigento esortò il ministro ad ascoltare anche l'altra versione dei fatti, ma nonostante la mole di prove che produsse a sua discolpa, il Ministro della Giustizia che era intenzionato a prendere provvedimenti perse il posto poco dopo e il suo successore non avviò alcuna iniziativa né sollecitò alcuna inchiesta sulle infiltrazioni nella magistratura e nelle forze dell'ordine. Il "Barone" De Michele diventò sindaco di Burgio nel 1878 e suo figlio venne eletto in Parlamento. Nel frattempo i procedimenti giudiziari messi in moto dalla scoperta del rituale di iniziazione della mafia da parte di Sangiorgi andarono avanti, ma con risultati altalenanti: venivano condannati solamente gli esponenti delle fazioni perdenti delle varie guerre di mafia.

Sangiorgi tornò tuttavia a Palermo come questore nel 1898 e cominciò a redarre una serie di rapporti per il Procuratore Generale del capoluogo siciliano nel quadro della preparazione di un processo. Quei rapporti vennero poi raccolti in un unico volume di 485 pagine che offriva il primo quadro completo della mafia siciliana dell'epoca: dalla mappa dell'organizzazione delle otto cosche mafiose che dominavano i sobborghi e i paesi satelliti situati a nord e a ovest di Palermo, fino ai profili di 218 uomini d'onore e al rituale di iniziazione e del codice di comportamento dell'organizzazione. Illustrava i metodi imprenditoriali e la strategia di infiltrazione nelle istituzioni. Nonostante questo, il Maxiprocesso che ne scaturì finì nel nulla, a causa della caduta del governo presieduto da Luigi Pelloux, generale dell'esercito che aveva fortemente voluto Sangiorgi a Palermo. Mutato il clima politico, mutò anche l'esito, prima di allora scontato, del processo.

L'omicidio Notarbartolo

Nel frattempo, il 1° febbraio 1893 venne ucciso il marchese Emanuele Notarbartolo, politico e banchiere siciliano, ad oggi considerato la prima vittima eccellente di mafia. Già sindaco di Palermo, il marchese si era inimicato il deputato nazionale Raffaele Palizzolo, per la sua inflessibilità nel risanamento dei conti del Banco di Sicilia da direttore generale che andava contro gli interessi del sistema di potere politico-mafioso costruito da Palizzolo, in qualità di membro del Consiglio Direttivo dell'ente.

In particolare, Notarbartolo finì immischiato nella guerra di potere a livello nazionale che vedeva contrapposti il gruppo di potere legato a Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio in carica, e Francesco Crispi, che gli sarebbe succeduto dopo lo scoppio dello scandalo della Banca Romana. Il marchese firmò la propria condanna a morte quando espresse la sua volontà nel gennaio 1893 di rendere spontanee dichiarazioni alla Commissione Parlamentare d'Inchiesta in merito alle malversazioni attorno al Banco di Sicilia, legati al gruppo di potere crispino: il 1° febbraio, mentre si trovava su una carrozza di prima classe del treno della linea Termini Imerese - Palermo, l'ex-sindaco di Palermo venne ucciso con 27 coltellate e scaraventato giù dal finestrino, all'altezza di Trabia.

L'omicidio scandalizzò l'opinione pubblica non solo siciliana e assunse un'eco nazionale, accendendo i riflettori sulla criminalità organizzata in Sicilia. Ci vollero però quasi sette anni prima dell’inizio delle udienze e sul banco degli imputati finirono due addetti del treno su cui viaggiava il marchese, che avevano però un ruolo marginale nella vicenda. Il figlio di Notarbartolo, Leopoldo, si costituì parte civile al processo e, tra lo stupore del pubblico, accusò pubblicamente Raffaele Palizzolo di essere il mandante dell’omicidio del padre. Inoltre riuscì ad avere l’appoggio politico del presidente del consiglio dell'epoca, Luigi Pelloux, amico di famiglia, che si diede da fare affinché si spostasse il processo da Palermo a Milano per evitare intimidazioni nei confronti dei testimoni, e fece in modo che la camera votasse a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Palizzolo.

Un prezioso aiuto per fare luce sul caso la diede il questore Sangiorgi partecipando alle indagini. La situazione per don Raffaele si complicò poiché emersero questioni inerenti alla cattiva gestione del Banco di Sicilia, attirando ancora di più l’attenzione dell’opinione pubblica. Molti politici lo abbandonarono dato che ormai era troppo compromesso. Dopo undici mesi di udienza la Corte d’Assise di Bologna (nel frattempo il processo era stato spostato nel capoluogo emiliano) condannò Palizzolo e uno dei killer a trent’anni di carcere.

Fu in quel momento che il gruppo di potere politico-mafioso mise in moto una prodigiosa "macchina del fango" per disinnescare la mina mediatica rappresentata dal processo: Palizzolo fu dipinto da intellettuali siciliani vicini al suo gruppo di potere come un perseguitato politico, vittima di un complotto ordito dai settentrionali per delegittimare l'intero popolo siciliano; la protesta sfociò anche nella costituzione di movimenti in difesa della sicilianità.

Inaugurando poi la lunga sequenza delle condanne a boss e politici mafiosi annullate per vizio di forma, la Cassazione annullò il processo perché un testimone non aveva giurato in una sua deposizione. Ad ormai dieci anni dalla morte del marchese l’opinione pubblica si era stancata del caso e il mutato clima politico fecero cadere la vicenda nel dimenticatoio. Il nuovo processo svoltosi a Firenze nel 1904 produsse l’assoluzione degli imputati. Già quindi all'inizio del XX Secolo lo Stato italiano aveva tutti gli elementi per contrastare l'organizzazione mafiosa siciliana e riconoscerla come tale, con i suoi rapporti organici con la politica, ma proprio in virtù di questi si rifiutò di combatterla, delegando la cosa a pochi valorosi uomini delle istituzioni.

Mafia e Socialismo: Bernardino Verro e i fasci siciliani

Nell'ultimo decennio del XIX secolo le condizioni di vita dei contadini siciliani erano diventate insostenibili, a causa del sistema di intermediazione gestito dai c.d. gabelloti. Fu per questo motivo che nacquero i Fasci Siciliani, leghe di coltivatori organizzate dal corleonese Bernardino Verro

Il movimento, di chiara ispirazione socialista, chiedeva nuovi contratti che stipulassero una ripartizione paritaria del prodotto tra i proprietari e i contadini di piccoli fondi. I mafiosi, visto il clima di incertezza politica, offrirono allora a Verro la possibilità di essere iniziato: il leader socialista accettò in parte per ingenuità (pochi sapevano cosa fosse veramente la mafia, i più la ritenevano una semplice associazione segreta), in parte per ottenere la loro protezione contro le numerose minacce di morte che gli erano arrivate. Le cose però precipitarono quasi subito: i mafiosi, avendo capito che lo Stato avrebbe represso i Fasci, decisero di appoggiare i proprietari terrieri, declinando le richieste dei movimenti contadini, cosa che portò Verro a pentirsi amaramente di avervi fatto accordi. Nel 1894 il fascio fu represso definitivamente con la legge marziale: l’esercito giunse in Sicilia e sedò le rivolte.

Bernardino Verro venne condannato a dodici anni per aver cercato di fare la rivoluzione in Sicilia (ne sconterà solo un paio grazie all'amnistia). Ciononostante, le cose per i contadini migliorarono: fu varata una legge che permetteva alle cooperative di accendere prestiti presso il Banco di Sicilia per affittare la terra direttamente dai proprietari. Verro nel 1907 assunse la guida di una cooperativa fondata appositamente per usufruire dei benefici della nuova legge e al tempo stesso espellere dall’economia rurale siciliana gli intermediari (in particolare i gabelloti mafiosi).

Lo scontro fu violento e dalla parte dei mafiosi si schierò anche la Chiesa Cattolica, in funzione anti-socialista: fu creato un fondo cattolico, la Cassa Agricola San Leoluca, per fare concorrenza alla cooperativa di Verro, che aveva già acquisito nove tenute. Nel 1913 il leader socialista fu accusato di truffa, anche se poi si scoprì che il suo tesoriere era stato corrotto da alcuni mafiosi appositamente per compiere reati che screditassero la sua immagine. Nonostante le accuse, Verro riuscì a diventare sindaco di Corleone con una maggioranza schiacciante. La mafia corleonese decise allora di ucciderlo, non essendo riuscita a fermarlo "con le buone" e temendo tra l'altro che in tribunale potesse rivelare informazioni sulla cosca corleonese di cui aveva fatto parte. Nel 1915 venne colpito da cinque pallottole, il volto sfigurato come monito per chiunque altro volesse opporsi al potere mafioso locale.

Il processo per il suo assassinio si concluse con la richiesta del pubblico ministero, il commendatore Wancolle, di assolvere tutti gli imputati per non aver commesso il fatto, che il tribunale immediatamente accolse. Gli esecutori materiali del delitto non furono mai condannati.

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Bibliografia

Note

  1. Giovanni Falcone, Cose di Cosa nostra, in collaborazione con M. Padovani, Milano 1991, p.93
  2. Citato da Leonardo Sciascia in La Storia della Mafia, pubblicato in “Quaderni Radicali” n. 30 e 31 – Anno XV Gennaio/Giugno 1991
  3. Si ricorda che Luciano Leggio è noto alle cronache come “Liggio”, a causa di un errore di trascrizione nel primo verbale di fermo negli anni ’50.
  4. Intervista di Enzo Biagi a Luciano Leggio, Linea diretta 20 marzo 1989, citato in MOIRAGHI Francesco, Cosa Nostra, pubblicato in Strutture: Cosa Nostra e ‘ndrangheta a confronto, WikiMafia – Libera Enciclopedia sulle Mafie, pag.5
  5. Discorso al Teatro Massimo di Palermo del 28 giugno 1925
  6. Tribunale di Palermo. Sentenza di rinvio a giudizio contro L. Leggio + 115, 14 agosto 1965, in Commissione parlamentare Antimafia 1972, IV, t. XVI, pp. 208-9
  7. G. Falcone, Cose di Cosa nostra, in collaborazione con M. Padovani, Milano 1991, p.37
  8. Leopoldo Franchetti, La Sicilia nel 1876 (2 voll., con Sidney Sonnino), Barbera, Firenze, 1877, vol. I: Condizioni politiche e amministrative della Sicilia
  9. Per conoscere nel dettaglio l'intera vicenda Galati, si rimanda a Dickie, Cosa Nostra, pp.12-20
  10. Dickie (2005), p.120