Intervista di Enzo Biagi al Generale dalla Chiesa: differenze tra le versioni

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Il 28 febbraio 1981, il periodico Epoca pubblicò la trascrizione di un'intervista di Enzo Biagi al generale Carlo Albero dalla Chiesa, registrata negli studi Telemond e che sarebbe stata trasmessa in due puntate da 24 emittenti private.  
Il 28 febbraio 1981, il periodico Epoca pubblicò la trascrizione di un'intervista di Enzo Biagi al generale [[Carlo Alberto dalla Chiesa]], registrata negli studi Telemond e che sarebbe stata trasmessa in due puntate da 24 emittenti private.  


== L'intervista ==
== L'intervista ==

Versione delle 17:55, 1 set 2016


Il 28 febbraio 1981, il periodico Epoca pubblicò la trascrizione di un'intervista di Enzo Biagi al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, registrata negli studi Telemond e che sarebbe stata trasmessa in due puntate da 24 emittenti private.

L'intervista

Generale Dalla Chiesa, perché un giovane decide di diventare ufficiale dei carabinieri? Perché crede e ha bisogno di continuare a credere.

C’è qualche altro mestiere che le sarebbe piaciuto fare? Da piccolo il tranviere, poi mia madre voleva farmi intraprendere la carriera diplomatica, qualcuno mi suggeriva di fare il direttore d’orchestra.

Quali sono i fatti che hanno contato di più nella sua vita? Almeno un paio: sotto il profilo militare quando ufficiale dell’Arma durante la resistenza, mi trovai alla testa di bande di patrioti e responsabile di intere popolazioni. Sotto il profilo umano, l’incontro con mia moglie.

E suo padre, è per lei una figura che ha significato qualcosa? Certamente, è compreso tra i maestri ai quali mi sono ispirato.

Lei è religioso? Sì credo in Dio, nell’Immenso, anche se su questa terra forse perché siamo piccini piccini, qualche volta diventa difficile credere.

È praticante? Anche. Nei limiti che posso.

Ci sono stati momenti nei quali ha avuto paura? Sì. Sono stati forse più frequenti di quanto non si pensi: come quando ho dovuto impiegare dei collaboratori, sapendo che andavano a rischiare la vita; come quando sono in ufficio e, sentendo il suono del telefono, guardo il Cristo perché non so mai che cosa può arrivare.

Paura per sé? No, direi più rassegnazione.

Io l’ho vista girare un giorno in galleria a Milano, ed era, almeno mi pareva, da solo, perché? Giro da solo. Non vedo perché se ne meravigli. In definitiva la situazione me lo consente ho la coscienza di poterlo fare, penso che dia nello stesso tempo, a chi mi vede, la tranquillità, la sensazione che tutto è normale.

Lei ha combattuto contro la mafia. Chi è un mafioso? Facciamo un ritrattino? Un mafioso è uno che lucra per avere prestigio e poi goderne in tutti i settori. E chi lucra è pure capace di uccidere. E, prima di uccidere, intendo assassinio anche come morte civile, è anche capace di usare delle espressioni come: “paternamente, affettuosamente ti consiglio…”

Che cosa le è rimasto dentro di quella esperienza? È stata una grande esperienza, una soddisfazione, direi tutta interiore, per avere conosciuto da vicino risvolti, pieghe, di una società, di un mondo del quale è difficile, molto difficile dire “conosco”.

Perché allora dichiarò “il nostro rapporto alla magistratura non aveva avuto fortuna. Noi tuttavia siamo radicati nella nostra convinzione”, quale convinzione? Lei certamente si riferisce alla scomparsa del povero Mauro De Mauro, il giornalista palermitano, quando cioè gli investigatori concentrarono i loro sforzi su due distinte strade di investigazione. Dissi: “Se avesse avuto più fortuna”. Non ricordo a chi lo dissi, ma certamente lo dissi di un nostro rapporto, perché ritengo ancora oggi che molte cose mi diano ragione. Se quel nostro rapporto avesse avuto più fortuna molto probabilmente le stesse vite del dottor Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo, di un bravo funzionario di PS e di un nostro ufficiale dell’Arma, non sarebbero state compromesse. In via definitiva, voglio dire che tra i primi nomi indicati nel rapporto, c’era quello del boss mafioso Gerlando Alberti che, unitamente ad altri troviamo poi nel famoso rapporto dei 114. Quasi tutti arrestati contemporaneamente in ogni parte d’Italia, mentre io ero al comando della Legione di Palermo.

Perché è morto Mauro De Mauro, secondo lei? Secondo me perché aveva appreso molto sui traffici della droga e si riprometteva di fare uno scoop giornalistico.

Quante volte lei si è sentito sconfitto? Quando avevo ragione e ho dovuto sacrificarla.

Dicono che le sue inchieste sono minuziose, precise, che lei si fiderebbe poco dei giudici. A proposito di una sentenza di Genova, lei ha detto “una giustizia che assolve!” Se minuzioso è inteso per scrupolo, sta bene. Bisogna essere scrupolosi e bisogna pretendere che lo siano anche gli ufficiali di polizia giudiziaria che lavorano alle tue dipendenze. Per raccogliere una messe di dati, di notizie che aiutino il magistrato e perché egli possa essere confortato laddove deve condannare e anche laddove deve assolvere per insufficienza di prove. Perché quando lo scrupolo si spinge a scartare le circostanze fortuite e esaltare le circostanze sintomatiche, si può sempre arrivare ad una insufficienza di prove. Per quanto riguarda la seconda parte della sua domanda le dirò che io ho sempre considerato la magistratura un altare. Come cittadino posso anche ammettere che il sacerdote sbagli la liturgia. Come comandante di uomini devo sempre considerare le fatiche, le amarezze, i sacrifici e i rischi che hanno affrontato.

In un discorso, riferendosi alla battaglia che i carabinieri conducono contro il terrorismo, lei ha accennato, riferisco tra virgolette alla lotta con i denti, “alla rabbia del resistere alla gioia di dare, di donare senza chiedere, alla rinuncia per tutta la vita agli affetti più cari”. Lei si riferisce al discorso celebrativo che io tenni il 5 giugno scorso in occasione della festa dell’Arma. Lei non deve dimenticare che nei mesi precedenti erano stati barbaramente assassinati il maresciallo Battaglini e il carabiniere Tosa, il tenente colonnello Tuttobene, l’appuntato Casu e che erano stati feriti altrettanto barbaramente il tenente colonnello Ramundo, il maresciallo Bea. Io dopo questi gravissimi fatti non ho avvertito la minima flessione in nessun reparto e tantomeno in quelli più direttamente interessati. Non ho udito neanche un gemito uscire dalle sale operatorie. E ho visto esaltarsi la dignità sulla pelle delle vedove. Io ritengo che fosse doveroso in quella circostanza di fronte ad una prova così virile ed edificante, dare un riconoscimento a quegli uomini.

Senta generale, lei ha mai incontrato Curcio o altri terroristi? Curcio non l’ho mai incontrato. Qualche altro sì.

Veniamo all’argomento che preme, chi è un terrorista? Io vorrei azzardare una distinzione iniziale tra terrorista ed eversore. Terrorista può essere anche un caso isolato, un anarchico. Certamente non iscritto in un processo che abbia alle sue spalle un retroterra culturale e davanti una strategia da condurre in porto. L’eversore invece lo vedo inserito non solo in una retroterra, chiamiamolo ideologico, ma anche innestato in una strategia che con la violenza, vuole affrontare, distruggere le istituzioni dello Stato.

Chi sono i terroristi che ha incontrato? Ho conosciuto Peci e Barbone: perché mi hanno mandato a chiamare.

Sono loro che hanno convocato lei? Non è che mi sia fatto convocare, ma la chiamata di Peci è stata certamente un fatto anomalo, un fatto assolutamente nuovo che mi ha spinto a soppesare per alcuni giorni la sua richiesta; poi, dietro alle insistenze…

Si può fare una specie di radiografia dei terroristi per vedere se si tratta di figli del sottoproletariato, di delusi del ’68, dei rampolli della borghesia o dei virgulti di una pseudocultura cattolico- marxista? Se si dovesse fare quella radiografia che lei chiede piccola o grande che sia verrebbero ad emergere più marcatamente delle ombre per quanto riguarda gli ultimi tre gruppi da lei indicati.

Lei ha qualche dato, qualche statistica in proposito? Posso dire che ho compiuto un’analisi in questo senso, di carattere sociologico, nel periodo in cui fui a capo di quel particolare organismo preposto dal settembre ’68 al dicembre 1979 alla lotta contro il terrorismo. In quell’arco di tempo (una quindicina di mesi) vennero arrestati 197 eversori. Di questi 197 eversori soltanto 11 risultavano disoccupati . Oltre 70 erano docenti o studenti universitari. Poi c’erano 33 operai, 9 casalinghe, 19 impiegati, 5 laureati… Insomma un’immagine dell’eversione forse un po’ diversa da quella che normalmente uno si fa.

Il ’68 è stato o no una fabbrica di terroristi? Sono molti quelli che provengono dal mondo universitario? Ritengo che il ’68 non sia stato né una fabbrica né l’unica matrice del terrorismo. E certo però che molti docenti universitari degli anni successivi, sono nati, provenivano dal ’68 e indubbiamente abbiamo avuto dei docenti che hanno insegnato, hanno prodotto compendi imposti ai loro studenti col consenso anche se tacito, della scala gerarchica. E in quelli si insegnava la guerriglia, si insegnava a rubare e mentre questo accadeva, le aule magna delle università di Stato venivano usate dagli apologeti della forza, della violenza, per istigare contro le istituzioni dello Stato che concedeva le aule.

La stampa ha delle responsabilità su questo tema? Penso di sì. Penso di sì senza voler fare il polemico a tutti i costi. Penso di sì da un punto di vista professionale. Nel senso che, così come un corteo è preceduto da un megafono altrimenti dietro non sentirebbero, altrettanto l’eversore, i gruppi eversivi si propongono di ottenere dalla stampa quella cassa di risonanza che, da soli, per la loro organizzazione logistica e strutturale, non riuscirebbero ad ottenere sull’intero territorio del paese.

Lei fece accerchiare l’università della Calabria. Ripeterebbe oggi quella operazione? E quali risultati diede? Accerchiare per modo di dire perché se si considera che in poche ore si risolsero 25 perquisizioni che si riferivano all’abitato di Cosenza, all’abitato di Renda e all’intero complesso universitario, io credo che non si possa parlare di accerchiamento. Per quanto riguarda i risultati essi sono ancora al vaglio della magistratura che allora soppesò e diede l’autorizzazione preventiva per quelle 25 perquisizioni. Ripeterei l’operazione se la magistratura confermasse di essere d’accordo.

Perché il terrorismo è così "italiano"? Non è italiano soltanto, perché lo hanno anche altri paesi. Noi aggiungiamo un condimento che è l’emotività: è una specie di droga che ci portiamo dentro, una droga leggera, ma c’è.

Lei pensa che la centrale, il cervello del terrorismo sia l’estero? E’ un argomento che è stato sottoposto a valutazione ben più autorevoli della mia. E quindi mi astengo dal rispondere se non per dire che, quando esistono delle potenze o dei mondi contrapposti sarebbe assurdo pensare che i relativi servizi non siano impegnati nella ricerca di un teatro in cui determinate strategie economico e militare non abbiano da essere raggiunte.

Si è parlato ad un certo momento e con insistenza del grande vecchio. Lei come lo immagina? Potrebbe anche esistere, però io, con le conoscenze che ho acquisito, non sono in condizioni di farmene oggi un’immagine né di prestarne una a lei.

C’è una figura misteriosa, inafferrabile: Mario Moretti. Ritiene davvero che sia il capo dell’eversione? E perché non ce la fate a prenderlo? È certamente un capo, del fronte esterno, ma oggi condizionato dal fronte interno (che sarebbe il carcerario) e della stessa accidentalità del terreno sul quale muove. Mi auguro che la fortuna qualche volta non l’assista!

Perché qualcuno si "pente"? Come giudica questo fenomeno che si sta tanto intensificando? Ci sono le norme politico-legislative che hanno certamente contribuito molto a rendere più attuale il fenomeno del pentimento. Ma non dobbiamo dimenticare che sotto un profilo psicologico, tutto nacque con la confessione di Patrizio Peci. E ciò che più stupisce, ciò che più emerge in un contesto del genere, è quasi il riaffiorare di valori che sembra siano stati a lungo compromessi, contenuti. Fino a porre le forze dell’ordine - e la stessa giustizia - nelle condizioni di prevenire molti omicidi, molti ferimenti, molte altre rapine. E questo, credo, debba essere valutato nella misura più esatta.

Lei pensa dunque che Peci abbia parlato per una “crisi di coscienza”? Una crisi di coscienza che lo ha visto di fronte ad una valutazione, direi onesta, di quello che in quel momento era la disarticolazione che noi avevamo creato in seno all’organizzazione eversiva.

Senta generale, dicono che una delle sue qualità più spiccate è il segreto. È vero che neppure i suoi figli conoscono il suo numero di telefono diretto? È proprio così.

E le pesa sapere i rischi che corrono i suoi famigliari? Molto.

Lei crede che i brigatisti che confessano siano sinceri? Io non ho motivi né ho avuto motivi per pensare diversamente.

C’è qualcuno di quelli che lei ha conosciuto che l’ha impressionata favorevolmente, da un punto di vista umano? Per esempio, Peci, che impressione le ha fatto? Entrambi quelli che ho avuto occasione di contattare, sia Peci, sia Barbone, mi hanno impressionato sotto il profilo umano.

In che senso? Per lealtà nel parlare? Per una progressione nella liberazione di qualche cosa che dentro premeva. Questa gente parte con un volantinaggio, una volta reclutata. Parte andando a rilevare le targhe di qualche auto. Parte perché gli viene ordinato di fare l’inchiesta nei confronti di una persona. Tutti comportamenti che non costituiscono reato, se non inquadrati in un’associazione. Ma quando a uno, ad un certo momento, si richiede di fare l’autista per andare a compiere qualche cosa, ed assiste materialmente e funge da trasporto per queste persone, già è coinvolto. Allora lo si usa immediatamente per sparare. La seconda volta deve sparare e colpire. La terza finisce… Insomma è un progredire nel quale qualcuno, ad un certo momento, può desiderare di liberarsi. Di salvare. Di espiare. Di salvare altre vite umane che potrebbero essere coinvolte.

Senta generale, non ne parliamo da un punto di vista processuale ma da un punto di vista psicologico: che differenza c’è fra un Curcio e un Toni Negri? Beh, Curcio andava. Negri invece mandava… ad espropriare. E nello stesso tempo cercava il finanziamento dal Centro nazionale delle ricerche!

Che differenza c’è fra terrorismo di destra e terrorismo di sinistra? Per me nessuna differenza. C’è una differenza in questo senso: che, mentre nel terrorismo di destra noi troviamo un retroterra culturale quasi dai contenuti asmatici, non bene assimilato, tanto che porta a una pericolosità forse più avvertita, quella della estemporaneità e dell’immediatezza, in quello di sinistra c’è invece un filone ideologico. C’è un qualche cosa che viene coltivato, viene intensamente anche insegnato. E quindi si propone come strategia di usare la violenza contro le istituzioni dello Stato.

Dicono di lei che è poco portato a collaborare. Che tende ad agire da solo. È vero? No. Non è vero. È vero nella misura, in cui preferisco lavorare con chi, da persona responsabile, ama il suo lavoro ed ama soprattutto il suo riserbo.

Qual è stato il momento più difficile della sua carriera? Quando ho visto pagare in silenzio, da parte della mia famiglia, quattro trasferimenti di sede in uno stesso anno.

Come affronta la sconfitta? Quand’ero più giovane, con rabbia. Da qualche anno, invece, con maggiore serenità e anche andando ad analizzare gli errori compiuti. Però mi è capitato, mi capita talvolta, di mettermi tranquillo, in riva ad un fiume, ad attendere.

Hanno scritto che quando considererà esaurito il fenomeno del terrorismo, lei se ne andrà? Prima di tutto non vedo il perché. Poi, me ne dovrei andare troppo presto. E poi perché? Non si vive di solo terrorismo, no?

Ha dei rimpianti? C’è qualche cosa che avrebbe voluto fare e che non ha potuto fare? Non ho rimpianti. Avrei voluto soltanto che il mio lavoro non fosse costato tanto ai miei affetti.

Chi sono i suoi amici? Personalmente amo i miei giovani. Li amo perché sono semplici, sono di pasta buona, hanno gli occhi puliti e ne sono spesso ricambiato. Ma amo anche i contadini di “terre lontane”, amo soprattutto i “miei” carabinieri! Di oggi, di ieri, di ogni ordine, di ogni grado, anche quelli che non sono più. E dico miei, nel senso usato nel suo testamento morale dall’amico generale Galvaligi.

Ha mai provato ad immaginare la sua vita senza divisa? È una domanda che potrebbe apparire cattiva.

Ma non ho queste intenzioni… Bene, io, in divisa, ho vissuto tutta la mia vita, con l’unico scopo di servire lo Stato, le sue istituzioni, la collettività che mi circonda. Penso però che non mi abbia mai fatto dimenticare di essere un cittadino come tutti gli altri.

Ma, volevo dire, come può supporre la sua esistenza il giorno che non sarà più in servizio? Beh, potrò coltivare gli hobbies più tranquillamente e avrò anche tempo da destinare ad una lettura che fino ad oggi è stata un po’ frammentaria e soprattutto incentrata sull’attualità.

Quali sono le accusa che l’hanno particolarmente ferita? Quelle che, nate da problemi contingenti, relativi al mio incarico o al mio lavoro, sono state poi strumentalizzate e sono scese così in basso da ledere la mia dignità di uomo, la mia dignità di soldato, la mia fede di vecchio democratico.

Lei parlava di hobbies. Ne ha? Sì, quello dei francobolli e, quando ho tempo, quello dei campi, della terra.

Quando ha un’ora libera, come la passa? Mi piace discorrere. Amo soprattutto essere un uomo come tutti gli altri.

Si parla di un gruppo di 60 uomini (ma c’è chi dice 200) e lei fedelissimi, devotissimi, che vivono al di fuori delle caserme che si muovono in mezzo alla gente, direi quasi misteriosamente. In tema di devozione, arrivato al grado che rivesto, potrei presumere di più di 60 o di 200! Ma, a parte l’immodestia, lei si riferisce certamente ad un periodo che non è più. Cioè si riferisce al periodo che ho detto prima. Quando nacque quell’organismo, voluto dal ministero degli Interni nell’agosto-settembre 1978 per la lotta al terrorismo, ebbi effettivamente a disposizione 220-230 persone che venivano da ogni parte d’Italia. In mezzo a loro vi erano certamente alcune decine (20 o 30) provenienti dal famoso nucleo che era stato creato a Torino nel ’74-75 e alla cui esperienza e alla cui cultura attinsi a piene mani. Ma questi 220 elementi, tra i quali anche una quarantina di bravi appartenenti al corpo della Ps, ivi comprese delle validissime assistenti e ispettrici, direi anche coraggiose, vissero una parentesi talmente intensa, talmente inserita nella realtà, che, direi, non avevano una ragione geografica. Non avevano un affetto a cui dedicarsi. Non avevano un terreno a cui ancorarsi ed effettivamente li ho portati a vivere (così come ai tempi delle squadriglie in Sicilia si viveva accanto alla realtà del banditismo) la realtà dell’eversore, cioè mimetizzati, inseriti in modo diverso nella società. E questi uomini, questo gruppo di valorosi, perché tali sono stati hanno condotto a dei risultati che certamente erano nelle attese, soprattutto in un momento delicato, di transizione dei nostri servizi e di una opinione pubblica che non poteva non essere esasperata. Questi uomini si ritrovavano a Milano, magari provenienti da Bari o da Catanzaro; oppure quelli di Genova, di Torino dovevano catapultarsi a Roma o a Catania; questo amalgama è durato pochi mesi: ma già dai primi tempi ha dato la sensazione di essere un magma umano veramente efficiente, entusiasta. Non è che abbia speculato sul loro entusiasmo. Certamente l’ho usato molto. A loro sono molto grato e sono orgoglioso di averli avuti alle mie dipendenze. Quando i risultati venivano raggiunti, non ho mai dimenticato però che parte del merito andava sempre alla struttura dell’Arma. La struttura territoriale che effettivamente mi è stata sempre vicina dando un contributo del massimo rilievo; non soltanto quei 220, quindi, devono essere portati in superficie. È certo, tuttavia, che quando ci lasciammo, nel dicembre ’79, ci siamo sentiti uniti da una esperienza irripetibile; e da una medaglietta che io feci coniare per tutti, in metallo piuttosto vile.

Lei crede che un terrorista pentito un giorno possa rientrare nella vita normalmente? Io penso di sì. Soprattutto se lo Stato lo aiuta a dimenticare e a farsi dimenticare.

La chiamano il “piemontese di ferro”. Perché? Se si tratta di attingere alla coerenza, all’amore per l’ordine e per lo Stato, io sono lieto di essere definito “piemontese”. Per quanto riguarda il “ferro”, sarei presuntuoso pensare ad un collegamento con un famoso duca del 1500. Però è anche vero che, di tanto in tanto, vengono in superficie la estemporaneità, l’impulsività, la fantasia, la trasparenza, anche un po’ di humour, che tradiscono le mie origini emiliane, alle quali sono molto attaccato.

La capisco! C’è qualche definizione che le piace di più? Non è che mi piaccia… Mi chiamano “UFO”, ma non come una sigla che sta per “ufficiale fuori ordinanza”! Proprio come Ufo!

Che cosa pensa di dovere ai suoi collaboratori? Tutto.

Quando racconterà la sua vita ai suoi nipotini, che cosa dirà? Beh, ai bambini si raccontano le favole, le belle favole. E le racconterò anch’io ai miei nipotini. Ma se si riferisce alla mia vita, io penso che la mia vita non sia stata una favola! E se è, come è, una esperienza duramente vissuta, ambisco solo raccontarla ai giovani della mia Arma.