Mafia a Varese

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Mafie a Varese

'ndrangheta

Giacomo Zagari

Nel 1954 Giacomo Zagari lascia San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro, per stabilirsi a Galliate Lombardo, piccolo comune in provincia di Varese. Sin dal suo arrivo a Galliate, Zagari diviene un punto di riferimento per i calabresi della zona. Nella campagna del varesotto trova subito lavoro nell'edilizia, ma le sue attività principali sono altre, dal contrabbando alle rapine, nonché i delitti su commissione. Il figlio Antonio, ‘ndranghetista pentito, scrive nella sua biografia “Mio padre apparteneva già a una categoria di persone che cominciarono ben presto a dare altri motivi per cui lamentarsi. Non a caso poco tempo dopo si fece raggiungere da un suo fratello, smise di lavorare e assieme iniziarono a frequentare gente poco raccomandabile -come loro-, così come già facevano in Calabria”[1].

Zagari poi decide di trasferirsi a Buguggiate. Tra i numerosi presunti mafiosi inviati al soggiorno obbligato in Lombardia, vi sono numerose vecchie conoscenze di Giacomo Zagari; tra questi Savino Pesce, che viene assegnato per un periodo di cinque anni proprio a Buguggiate e riceve, ogni tanto, visite di suo fratello Peppino. Furono proprio Peppino Pesce e altri mafiosi di Rosarno, tra i quali Bellocco, ad ampliare le conoscenze di Antonio Zagari e ad affiliarlo ufficialmente all'organizzazione nel 1971.

Anni '70: l'era dei sequestri

All’inizio degli anni ’70 il contrabbando cede il passo gradualmente sequestro di persona. Antonio Zagari, divenuto poi collaboratore di giustizia, racconta che soltanto del varesotto, sono stati opera dell'Anonima calabrese i sequestri di Emanuele Riboli (mai rilasciato), Tullio De Micheli (mai rilasciato) e Cristina Mazzotti (morta durante la prigionia). E poi ancora il figlio del re degli amaretti Paolo Lazzaroni, di Antonio Parma, Giovanni Piazzalunga, Giorgio Vartolotti e Andrea Cortellezzi, anche lui mai rilasciato.

Gli ostaggi infatti vengono perlopiù inviati in Aspromonte, attraverso una mirata suddivisione dei ruoli da svolgere per ogni appartenente al clan. Lo Zagari descrive l'avversione che ha provato per i sequestri di persona, acuita in particolare dopo la tragica fine di Emanuele Riboli, giovane figlio di un industriale di Buguggiate, rapito nell'ottobre 1974 e mai più rilasciato nonostante il pagamento per il riscatto di duecentodieci milioni: i rapitori pretendevano un miliardo.

Nel 1975, gli stessi che avevano organizzato il rapimento del giovane, ne compiono un altro che desta molto clamore: quello di Cristina Mazzotti, studentessa del comasco che, imbottita di psicofarmaci, muore la sera stessa in cui la sua famiglia versa ai rapitori oltre un miliardo di lire.

Cosa nostra

Per ripercorrere la storia delle prime presenze della mafia siciliana sul territorio bisogna arrivare al febbraio 1990, quando a Bodio, sulle rive del lago di Varese, viene ucciso Francesco Viola. Il mandante sarebbe stato Sebastiano Allia, zio omonimo del nipote arrestato, boss della mafia risiedente a Venegono Superiore e rappresentante della famiglia degli Iocolano nel varesotto.

Le radici del movente si trovano nella madrepatria di Cosa Nostra, la Sicilia. Francesco Viola era di Niscemi in provincia di Caltanissetta, dove le guerre fra clan sono piuttosto accese. Sospettato di aver ucciso, un mese prima, un fratello del boss, Antonino Allia, e appartenente al clan rivale di Modica, doveva pagare. Francesco Viola viene prelevato da una pizzeria di Paderno Dugnano nella quale si trova e trasportato nel Varesotto, dove viene giustiziato con un colpo di pistola.

Camorra

Nuova Camorra organizzata

L'omicidio di Roberto Cutolo

Il 19 dicembre 1990, avviene l'omicidio di Roberto Cutolo, figlio del boss della Nuova camorra organizzata. Abitava da qualche anno con la giovane moglie a Tradate, dove era stato inviato in soggiorno obbligato, quando viene freddato davanti al bar “Bartolora”, vicino al centro della frazione di Abbiate Guazzone. Condannato per l'omicidio è Mario Fabbrocino, personaggio di spessore della Nuova Famiglia di quegli anni.


Operazioni e processi

Anni '90: pentitismo e rivelazioni di Zagari

Nella seconda metà del 1990, subito dopo il fallito sequestro Dellea a Germignaga, è possibile ricostruire la storia criminale dell'inserimento della ‘ndrangheta nel varesotto per effetto della trentennale presenza in zona del capo locale, Giacomo Zagari. Da tali indagini scaturiscono, oltre ai processi Isola Felice e Isola Felice 2, il processo Terminus ovvero Isola Felice 3.

Il processo per reati associativi contro più di 100 imputati, quello cosiddetto Isola Felice 2, aveva fatto seguito ad un altro, quello Isola Felice 1 con 125 imputati, conclusosi nel novembre 1997 dopo circa due anni e mezzo di dibattimento. A Varese, tali processi, vengono trattati con notevole impegno da un solo Sostituto Procuratore, il Dottor Agostino Abate [2].

Con l' operazione Isola felice viene stroncata dai carabinieri un’organizzazione che in realtà infesta la Lombardia già da trent'anni.: fra i 78 arresti nella branca lombarda dell' operazione Isola felice ben 42 interessano il Varesotto. Per Varese Isola felice è una sorta di maxiprocesso scaturito e sviluppatosi essenzialmente dalle dichiarazioni di Antonio Zagari, che ha ammesso la propria partecipazione a numerosi omicidi, tentati omicidi, nel sequestro di persona di Emanuele Riboli, a molteplici episodi di rapine, incendi, estorsioni, detenzione e cessione di armi e traffico di stupefacenti. Ha maturato la scelta di voler collaborare dopo l’arresto del 17 luglio 1990 –in relazione alla imputazione di omicidio di Lucchetta Mauro e di tentato omicidio di Bruzzese Vincenzo-, iniziando, quindi, una vera e leale collaborazione con l’Autorità giudiziaria di Milano l’ 11 novembre 1992, con il primo interrogatorio reso nel carcere di Varese al Pubblico ministero della Procura distrettuale antimafia di Milano.

Le sue dichiarazioni sono state confermate da numerosi altri collaboratori che hanno dato un fondamentale contributo alla magistratura nel districare la matassa di delitti e relazioni tra criminali. Tra loro troviamo Leonardo Messina, Liborio Trainito, Franco Brunero, Saverio Morabito, Francesco Staffa.

L’attendibilità delle dichiarazioni di Zagari ha reso possibile non solo l’arresto di centinaia di criminali, ma ha anche portato alla luce sulla struttura dell’organizzazione calabrese presente nel Nord Italia. Il padre lo accusa: “Mio figlio accusa persone innocenti, rovina famiglie per bene, è una fabbrica di menzogne”[3] . Il pentito fornisce dei dettagli importanti sulla struttura dell’organizzazione, che ha operato a Varese, Malnate, Buguggiate, Venegono, Tradate, Casale Litta, Milano, Corsico, Limbiate, Saronno, Pavia, Verbania ed altre zone limitrofe della Lombardia, dall'inizio degli anni '80, con stabili collegamenti con altri affiliati operanti in Calabria.

1997: la fine dei processi

Nel 1997 si concludono diversi processi. Sono 1500 gli anni di reclusione per i 132 imputati del processo relativo all’operazione I fiori della notte di San Vito, che si svolge tra Milano, Como e Varese. Traffici di armi e stupefacenti e associazione a delinquere i reati principalmente contestati. Il 15 ottobre si conclude l’operazione Terminus. Un’imponente operazione antidroga condotta dal sostituto procuratore Abate ha portato all’arresto di 41 persone collegate a Cosa Nostra. Tra gli arrestati, il pentito Totuccio Contorno e Gaetano Grado, cugino di Contorno e uomo d’onore della famiglia di Santa Maria del Gesù.

Il 13 novembre 1997 si conclude il processo Isola Felice. La Corte di Assise di Varese pronuncia la sua sentenza: vengono comminati 7 ergastoli ed oltre 600 anni di carcere a 52 imputati.

I giudici si pronunciano nell’aula bunker collocata negli stabilimenti dell’ex Aermacchi, luogo simbolo della città, a poche centinaia di metri dal centro e dal comune. Pubblico Ministero di quel processo è Agostino Abate che poco dopo commenta: “E’ una sentenza storica per Varese. E’ stata riconosciuta l’esistenza di un’associazione per delinquere di stampo mafioso ben radicata nel Varesotto che ha operato anche nel Comasco e nell’Alto Milanese”[4].

Il “Locale di Varese” della ‘ndrangheta dell’Aspromonte, rappresentato dagli Zagari, perde la sua influenza colpito dal pentitismo. Conseguentemente, il clan Mazzaferro della ‘ndrangheta della Piana, capeggiato del Responsabile Regionale Giuseppe Mazzaferro, dopo aver verificato che in tale zona non vi fossero “locali” di altri clan o strutture riconducibili ad altre organizzazioni criminose, decideva di insediarsi a Varese costituendo un “locale” a Varese affidato, con il ruolo di capo, a Calogero Marcenò, preferendolo, nonostante le sue origini siciliane, a Francesco Patamia. La nuova struttura, molto eterogenea per l’origine delle persone -calabresi, siciliane e sarde-, composta da personaggi già radicati nel territorio varesino e già facenti parte della cosca Zagari, viene integrata con altri personaggi provenienti dal “locale di Como”.

Bad boys

Lonate Pozzolo e Malpensa

Busto Arsizio

Note

  1. A.Zagari, Ammazzare stanca, Reggio Emilia, Aliberti, 2008, pp. 17-18
  2. Cfr. Relazione del Consiglio Superiore della Magistratura del 22 febbraio 2001 sui problemi posti all’Amministrazione della Giustizia dalla criminalità organizzata in Milano.
  3. G. Pinasi, Mio figlio, l’infame, «Corriere della sera», 25 gennaio 1994
  4. R. Brivio, Giustizia per vent’anni di crimini, «Corriere della Sera», 14 novembre 1997

Bibliografia

  • A.Zagari, Ammazzare stanca, Reggio Emilia, Aliberti, 2008