Operazione San Valentino

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L'Operazione San Valentino è stata un'inchiesta coordinata dai giudici Francesco Di Maggio e Percamillo Davigo sulle attività di Cosa Nostra a Milano negli anni '70 e nei primi anni '80.

L'operazione, scattata dopo due anni di indagini nella notte tra il 14 e il 15 febbraio 1983, portò all'arresto di 37 persone e un altro centinaio ricevette comunicazioni giudiziarie su tutto il territorio nazionale, principalmente con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso.

Antefatti

L'ufficio di Via Larga 13 a Milano

L'epicentro delle attività mafiose venne individuato in Via Larga 13, a pochi passi dal Duomo di Milano e dall'Università Statale. Ufficialmente sede di diverse società a responsabilità limitata (come la Datra, la Citam, la Prodalit, la Maprial e altre), in realtà tutte queste erano scatole, spesso vuote, dietro a cui agivano boss, commercialisti e uomini della finanza legati a Cosa Nostra, socio di maggioranza occulto di tutte le varie attività economiche legate a quelle società.

Dopo mesi di intercettazioni telefoniche, gli inquirenti tentarono un primo blitz il 25 giugno 1980, ma dalla portineria partì un tempestivo segnale d'allarme che fece trovare loro solamente degli impiegati, che confermarono il calibro dei frequentatori dell'ufficio.

Nell'elenco, oltre a conclamati mafiosi, vi era anche Antonio Virgilio, pugliese di Andria (paese in provincia di Bari), immobiliarista con diverse proprietà a Milano, tra cui quattro prestigiosi hotel del centro (Plaza, Bristol, Virgilio e Napoleon, oltre a beni immobili a Stresa, Forte dei Marmi e Sestri Levante, dove controllava un parco enorme e un complesso alberghiero da 100 miliardi di lire. Virgilio era in affari anche con l'immobiliarista Giuseppe Cabassi, il "re del nichel" Guido Angelo Terruzzi e anche con il chiacchierato Filippo Alberto Rapisarda[1].

Altra figura abitudinaria dell'ufficio era il finanziere Luigi Monti, concessionario per l'Italia della Panasonic e della Sanyo: vent'anni prima Monti vendeva porta a porta gli aspirapolvere della Folletto, poi la frequentazione con Joe Adonis lo portò a maturare un tale senso degli affari che all'epoca dell'inchiesta era proprietario di uno yacht con 20 uomini d'equipaggio e titolare di una quarantina di società. Un uomo talmente potente che riuscì addirittura a far rimuovere dall'incarico un ufficiale della Guardia di Finanza che aveva fermato alla dogana un carico di 80mila radio[2].

La Criminalpol cominciò a seguire le mosse di Virgilio e Monti per arrivare al "Tanino" di cui si parlava nelle intercettazioni telefoniche e con cui era in contatto anche il mafioso Vittorio Mangano. Gli inquirenti scoprirono che quel "Tanino" era proprio il boss di Cosa Nostra Ugo Martello, membro della famiglia palermitana della Bolognetta, latitante dal 1965.

Alla fine del periodo di osservazione, la Criminalpol trasmise alla procura della Repubblica di Milano un rapporto di 500 pagine in cui metteva nero su bianco il traffico di stupefacenti organizzato da Cosa Nostra, i cui proventi venivano riciclati da attività finanziarie pulite. Tutto sotto il controllo della grande centrale del narcotraffico diretta da Cosa Nostra americana.

Secondo l'accusa, Monti e Virgilio erano la dirigenza finanziaria dell'associazione che riciclava i proventi del narcotraffico a Milano. Ugo Martello, loro socio in una catena di Srl con sede legale in via Larga 13, era alle dirette dipendenze di Alfredo Bono, che aveva mandato suo fratello Giuseppe Bono su incarico della Commissione di Cosa Nostra americana con l'obiettivo di controllare i flussi di denaro e di raggiungere accordi per la spartizione dei mercati con gli uomini della camorra napoletana, interessati ad acquisire quote di mercato sotto la Madonnina.

Il collegamento con la Pizza Connection

Contemporaneamente alle indagini della Procura di Milano, anche l'Fbi statunitense progettava la sua controffensiva alla rete del narcotraffico di Cosa Nostra americana, che sarebbe sfociata nell'operazione, e poi nel ben più celebre processo, Pizza Connection.

Mettendo sotto controllo i telefoni di New York, di San Paolo del brasile, di Caracas, di parigi e di diverse città svizzere e italiane, gli investigatori americani riuscirono a ricostruire la pista dei soldi sporchi verso e in uscita dalla Svizzera. Si scoprì quindi che molte delle Srl che avevano sede in Via Larga 13 (come la Prodalit e la Maprial) erano intestatarie dei conti correnti svizzeri su cui finiva parte dei soldi del narcotraffico e dove il padrone di casa era Ugo Martello.

Gli arresti

Nella notte tra il 14 e il 15 febbraio 1983 scattò l'Operazione su tutto il territorio nazionale. Tra i 37 arrestati vi erano nomi destinati a far discutere, come Luigi Monti, Antonio Virgilio (preso sul tetto dell'Hotel Plaza mentre cercava di fuggire), Carmelo Gaeta, Giuseppe Bono, Nicola Capuano, Romano Conte, Nicolò Salamone, il cantante Giulio Di Dio e Carmelo Quattrone, segretario dell'attore Walter Chiari[3]. Tra i capi storici di Cosa Nostra al Nord risultavano Gerlando Alberti, Gaetano e Antonino Fidanzati, Alfredo Bono, Ugo Martello, Vittorio Mangano e Salvatore Enea.

Il ruolo di Carmelo Gaeta

Dopo gli arresti, gli inquirenti scoprirono che Carmelo Gaeta, l'ex-presidente della Borgosesia Lane arrestato nell'Operazione San Valentino, era stato anche il coordinatore di una manovra di compensazione finanziaria su scala internazionale che aveva fatto leva sui risparmi di una ventina di piccoli industriali brianzoli. In una borsa che Gaeta cercò di buttare via prima dell'arresto vennero rinvenuti mazzi di certificati patrimoniali emessi da società americane con sede nelle Antille olandesi per un valore nominale di alcune centinaia di milioni di lire. Attraverso un complesso meccanismo di rimesse internazionali Gaeta, che poteva contare di una certa credibilità manageriale, aveva rastrellato soldi per gli investimenti di Cosa Nostra[4].

La Banca Rasini

Nello scandalo venne coinvolta anche la Banca Rasini, il cui direttore generale, Antonio Vecchione, venne rinviato a giudizio per "violazione dei doveri inerenti al pubblico servizio nell'esercizio del credito". Una delle classiche operazioni della banca era infatti quella di emettere assegni circolari fittizi in occasione di rogiti o altri contratti, che poi venivano annullati una volta che erano stati esibiti come garanzia.

Il processo

Nell'aprile 1985 iniziò il processo di primo grado e il 24 dello stesso mese venne arrestato Salvatore Enea, in via Plinio 38, da solo e senza armi.

A dibattimento concluso, la sentenza di primo grado inflisse 13 anni a Ugo Martello e 11 ad Antonio Virgilio (la richiesta della procura era stata di 16 anni), 8 a Luigi Monti (contro i 13 chiesti), mentre tutti gli altri imputati vennero condannati con pene dai 3 ai 6 anni. Oltre alle forti riduzioni di pena rispetto alle richieste dell'accusa, i giudici di primo grado disposero anche il dissequestro di tutti i beni per i quali era stata chiesta la confisca. Le assoluzioni furono 15 e l'accusa di associazione mafiosa venne ritenuta valida solo per Martello e Virgilio, non per gli altri imputati.

Ulteriori gradi di giudizio

Appello

Il 24 febbraio 1988, cinque anni dopo il blitz, il processo d'appello si concluse con ulteriori riduzioni di pena, come ad esempio 6 anni a Virgilio, 5 a Monti, 9 anni e 6 mesi a Ugo Martello.

Cassazione

Il 21 agosto 1991 la prima sezione della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale detto l'Ammazzasentenze, annullò la condanna di Monti e Virgilio, disarticolando quindi tutto l'impianto accusatorio. Nelle 233 pagine di motivazione, il presidente affermò che il fatto che gli imputati "si frequentassero, concludessero affari con boss del calibro dei fratelli Bono, Salvatore Enea o con società del gruppo Inzerillo, e che questi legami non fossero né privati né occasionali o sporadici, bensì per motivi e ragioni di comuni interessi, assistenza e finanziamenti e operazioni speculative" non costituiva garanzia e certezza di illegalità e nemmeno indizio di mafiosità[5].

Bibliografia

Note

  1. Citato in Portanova, Rossi, Stefanoni, p.164
  2. Ibidem
  3. Ivi, p.166
  4. Ivi, p.169
  5. Ivi, p.172