Salvatore Riina

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Salvatore "Totò" Riina (Corleone, 16 novembre 1930), è stato boss del Clan dei Corleonesi e "Capo dei capi" di Cosa Nostra dal 1982 fino al suo arresto, avvenuto il 15 gennaio 1993. E' soprannominato anche U curtu, con riferimento alla sua statura e La Bestia, per via della spietata ferocia mostrata sia durante la Seconda Guerra di Mafia sia durante l'attacco frontale allo Stato.

Salvatore "Totò" Riina

Biografia

L'infanzia contadina

Nato in una famiglia di contadini, il giovane Totò si ritrovò orfano di padre all'età di 13 anni, mentre questi tentava di estrarre della polvere da sparo da una bomba americana inesplosa trovata nelle campagna della Venere del Poggio, l'11 settembre 1943. Nell'esplosione morì anche il fratellino di 7 anni Francesco, mentre il fratello Gaetano rimase gravemente ferito. L'unico uscito incolume dall'incidente fu il giovane Totò, che si ritrovò ad essere il capofamiglia.

Il 13 settembre si svolsero i funerali del padre e del fratello, nella chiesa di Santa Rosalia, a Corleone: dai racconti dell'epoca fu l'unica volta in cui Totò Riina venne visto piangere in pubblico. Da quel momento si sarebbe occupato lui delle terre di famiglia, ma non ci volle molto perché la vita contadina gli andasse stretta.

La nuova vita: mafioso nel clan dei Corleonesi

Nei campi, Totò Riina conobbe un altro ragazzo come lui, figlio di contadini: Bernardo Provenzano, detto Binnu. A differenza dei Riina, che avevano degli appezzamenti di terreno, i Provenzano erano braccianti e lavoravano alla giornata: ogni giorno si mettevano in marcia, alla ricerca di un campiere che gli facesse "la cortesia" di farli lavorare 12 ore con la zappa in mano.

La nuova vita di Totò Riina iniziò quando il dottor Michele Navarra divenne il nuovo capo mafia di Corleone, prendendo il posto del vecchio campiere del bosco Ficuzza, Vicenzo Catanzaro, detto il Borbone. Da quel momento, il giovane Riina non avrebbe più passato le proprie giornate nei campi, ma nelle vie di Corleone, in particolare al Caffè Alaimo, in compagnia del protetto del dottore, Luciano "Lucianeddu" Leggio. Era oramai un masculiddu, reclutato assieme ad un'altra ventina di giovani da Navarra tra piazza Garibaldi e corso Bentivegna. Totò, con Calogero Bagarella, Bernardo Provenzano e gli altri, sotto la guida di Lucianeddu, erano diventati l'elite criminale del capomafia corleonese, dedita a furti di bestiame, viti tagliate, macellazione clandestina, nonché all'incendio di masserie.

L'omicidio di Placido Rizzotto

Nella notte tra il 10 e l'11 marzo 1948 venne ucciso Placido Rizzotto, sindacalista e segretario della Camera del Lavoro di Corleone. Per tre volte fu accusato dell'omicidio Luciano Leggio, ma per tre volte fu assolto per insufficienza di prove. Il nome del giovane Totò sarebbe comparso parecchie volte nelle migliaia di pagine del processo, ma non venne mai formalmente accusato di nulla. Fu in un rapporto dei servizi segreti che si sosteneva come: "Il primo delitto eclatante che vede coinvolto il giovane Riin risale al 1948 quando viene ucciso Placido Rizzotto [...] l'azione è compiuta da Luciano Liggio con la collaborazione del giovane Riina..."

La prima condanna

Le porte del carcere dell'Ucciardone, a Palermo, si aprirono però per Riina a causa di un altro delitto, quello di Domenico Di Matteo, un contadino del paese che venne ucciso alla costa di San Giovanni per futili motivi, il 13 maggio 1949. All'età di 19 anni, Salvatore Riina veniva condannato a 12 anni di carcere, ma ne avrebbe scontati appena la metà, uscendo in libertà provvisoria il 19 settembre 1955.

La presa del potere a Corleone

I rapporti tra Navarra e i suoi scagnozzi erano nel frattempo peggiorati: alle elezioni politiche del 1958, i Corleonesi di Leggio puntarono tutto sul candidato numero 1 del PLI, il principe di Giardinelli, già presidente del Consorzio di bonifica del medio e alto Belice che prometteva la costruzione di un'immensa diga con i 37 miliardi e 854 milioni di finanziamenti già assicurati dalla Società Generale Elettrica. Leggio e i suoi avevano fiutato l'affare e non volevano farselo sfuggire. Ma Navarra era contrario alla costruzione della diga e usò tutto il suo peso politico per far eleggere tre candidati democristiani: Bernardo Mattarella, Franco Restivo e Calogero Volpe. La DC a quella tornata raddoppiò i suoi voti e i primi due candidati di Navarra diventarono ministri, mentre il terzo sottosegretario.

Ad avvelenare il clima furono anche i ripetuti furti e danneggiamenti di Leggio e i suoi ad un possidente terriero protetto di Navarra, Angelo Vintaloro, le cui terre confinavano con quelle di Leggio e di Giacomo Riina, zio di Salvatore. Navarra decise così di far eliminare Leggio proprio durante una delle sue scorribande nelle terre del Vintaloro, ma l'attentato fallì. Nessuno seppe della sparatoria nel feudo di Piano della Scala, se non molto tempo dopo, in piena guerra tra la cosca di Navarra (soprannominata la vecchia mafia) e quella di Leggio (detta la mafia delle nuove leve). Approssimativamente, lo scontro a fuoco fu tra il 20 e il 30 giugno 1958.

L'uccisione di Navarra

La risposta di Leggio e degli altri non si fece attendere: il 2 agosto 1958, verso le tre del pomeriggio, nella contrada Portella Imbriaca, agro di Palazzo Adriano, al quindicesimo chilometro della Provinciale Prizzi-Corleone sette killer armati di un fucile mitragliatore americano Thompson, un mitra italiano Breda calibro 6.35 e tre pistole automatiche crivellarono con 124 colpi la Fiat 1100 sulla quale viaggiava Navarra con il medico Giovanni Russo. Novantadue dei colpi sparati furono ritrovati nel corpo del Navarra: Giovanni Russo, colpevole solo di aver offerto un passaggio al potente capomafia, fu ucciso perché aveva visto in faccia gli assassini. Ai funerali, svoltisi due giorni dopo nella parrocchia di San Martino, partecipò tutta Corleone.

La Strage del bastione San Rocco

Fingendo di voler siglare un armistizio con gli uomini di Navarra, rimasti senza capo, Riina diede appuntamento a Pietro Mauri e ai fratelli Giovanni e Marco Marino, con l'unico obiettivo di eliminarli. Al tramonto del 6 settembre 1958, presso il bastione San Rocco di Corleone, mentre Totò intratteneva i navarriani, Bernardo Provenzano e Calogero Bagarella erano appostati in attesa di tendergli un agguato. Fu l'inizio dell'epurazione di Corleone di tutti quelli che erano stati fedeli a Michele Navarra, nonché dei cosiddetti neutrali, che non avevano intenzione di prendere parte alla disputa (fu il caso di Carmelo Lo Bue, anziano mafioso i cui figli erano emigrati negli USA, che proprio poco prima della partenza fu ucciso per non aver voluto fare da intermediatore tra Leggio e i resti della cosca navarriana). Quelli che venivano considerati spie, infami o traditori furono vittime della lupara bianca.

Ascesa in Cosa Nostra

Riina, Leggio, Provenzano e Bagarella si diedero alla latitanza e sbarcarono a Palermo, per presentarsi ai capimafia della città. Il primo ad accogliere i viddani (così erano chiamati i mafiosi di provincia) fu Salvatore La Barbera, rappresentante della famiglia Palermo-centro. La Barbera e il fratello Angelo erano mafiosi imprenditori, dediti all'edilizia: sfruttando i legami con Salvo Lima, sindaco di Palermo dal 1958 e figlio di Don Vincenzo, uomo d'onore della cosca Palermo-centro, e Vito Ciancimino, figlio del barbiere di Corleone e assessore ai lavori pubblici, i fratelli La Barbera prosperavano grazie al cemento. Mentre Leggio girava il mondo e si buttava nel traffico di droga con il siculo-americano Frank "Tre Dita", i viddani di Corleone Riina, Provenzano e Bagarella eseguivano per conto dei La Barbera piccole cose, in cambio della copertura per la latitanza.

La prima guerra di mafia

Il 17 gennaio 1963 Salvatore La Barbera sparì improvvisamente a Palermo: la sua Giulietta color ghiaccio fu ritrovata sei giorni dopo nelle campagne della provincia di Agrigento, con le chiavi nel cruscotto, le portiere aperte e la carrozzeria senza un graffio. Si trattava di lupara bianca. Fu questo il primo atto di quella che passò alla storia come "La prima guerra di mafia". Anni dopo si seppe che a mettere l'una contro l'altra le famiglie palermitane era stato Michele Cavataio. I Corleonesi di Totò Riina restarono prudentemente fuori dallo scontro, ma alla fine anche il futuro Capo dei Capi fu tra gli 855 sospetti mafiosi arrestati nelle quattro province della Sicilia occidentale, in risposta alla Strage di Ciaculli.

Il 15 dicembre 1963 fu arrestato per un caso fortuito dai poliziotti del commissariato di pubblica sicurezza di Corleone, terza pattuglia di servizio esterno, alle 21:15, lungo la statale Palermo-Agrigento, in località San Michele Arcangelo. Le forze dell'ordine avevano ricevuto una soffiata, ma si aspettavano di cogliere di sorpresa una banda di rapinatori, non certo un sicario ricercato per cinque omicidi "consumati dal settembre del 1958 al luglio del 1962 in concorso con Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella e altri ignoti...". Benché si fosse dichiarato all'arresto come Giovanni Grande, contadino di San Giuseppe Jato, come da carta di identità falsa, Riina fu riconosciuto al commissariato di Corleone dal brigadiere Biagio Melita, nell'ufficio del commissario Angelo Mangano. Il giorno successivo fu interrogato per sei ore di fila dal commissario e poi fu rinchiuso all'Ucciardone di Palermo.

Detenuto all'Ucciardone

Il carcere di Palermo scoppiava di uomini d'onore. La repressione dello Stato aveva funzionato e tra i detenuti eccellenti cominciò a circolare anche l'idea di sciogliere Cosa Nostra. A Corleone il 14 maggio 1964 venne arrestato dal commissario Mangano anche Luciano Leggio, nella camera da letto di Leoluchina Sorisi, la ex-fidanzata di Placido Rizzotto, che il giorno del ritrovamento del cadavere del suo compagno aveva giurato di mangiare il cuore degli assassini del suo amato. Lo sbandamento in Cosa Nostra durò poco: il processo per la Strage di Ciaculli, rinominato "Processo dei 114" (in realtà gli imputati erano 113), celebrato a Catanzaro, in Calabria, per legittima suspicione, si risolse con una raffica di assoluzioni e anche le uniche condanne inferte (27 anni per Pietro Torretta; 22 ad Angelo La Barbera; 10 anni per Salvatore Greco e Tommaso Buscetta, condannati in contumacia) non ebbero effetti, in quanto tutti già in libertà per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva.

L'Ucciardone si svuotò in tre settimane e nel settimo e nell'ottavo braccio restarono pochi mafiosi, quelli non imputati a Catanzaro, tra cui Totò Riina. Nella sua cella un giorno entrò un picciotto della borgata di Pallavicino, Gaspare Mutolo, che il futuro capo dei capi prese in simpatia. Fu in questo periodo che Totò si conquistò il rispetto degli altri detenuti, distribuendo consigli e diventando il confessore del carcere: durante l'ora d'aria i detenuti si mettevano uno dietro l'altro e in silenzio aspettavano il proprio turno per parlare con lui, che aveva sempre una parola per tutti. Il viddano di Corleone divenne celebre per il proprio carisma ed era temuto per le sue gesta fuori dal carcere. Sapeva tutto degli affari di Cosa Nostra palermitana, tanto da consigliare al suo compagno di cella di stare accanto a Saro Riccobono, una volta uscito di prigione, perché "tutti gli altri saliranno presto in cielo".

Fu il monopolio dell'informazione, anche dal carcere, lo strumento con cui Totò Riina costruì in quegli anni la sua leggenda, spianando la strada al suo grandioso futuro di Capo dei Capi.

Il 12 gennaio 1966 il mafioso Luciano Raia decise di pentirsi e rivelare al nuovo vicequestore Angelo Mangano e al giudice Cesare Terranova tutto quello che sapeva sugli omicidi di Corleone, accusando esplicitamente Leggio, Provenzano, Riina e gli altri. Terranova verificò una ad una le dichiarazioni del pentito ed era pronto a interrogare Riina, ma quando il 24 marzo 1966 il futuro Capo dei Capi vide nella sala colloqui il vicequestore Mangano con il giudice, si rifiutò di parlare, sostenendo di essere perseguitato come un ebreo.

L'assoluzione e la nuova latitanza

Nella Commissione

Seconda guerra di mafia

Capo dei Capi

L'attacco frontale allo Stato

La trattativa Stato - Mafia

L'arresto

Note

Bibliografia

Bolzoni A. - D'Avanzo Giuseppe, Il Capo dei Capi, BUR, 2007