Trattativa Stato-mafia

Da WikiMafia.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca


"Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L'iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia".[1]

Con il termine Trattativa Stato-Mafia si intende generalmente la negoziazione avvenuta tra alcuni rappresentanti delle istituzioni ed esponenti di Cosa Nostra, con il fine ultimo da parte dello Stato di far cessare la stagione stragista e da parte di Cosa Nostra di ottenere alcuni benefici in relazione ad alcuni istituti giuridici: il carcere duro, la legge sui collaboratori di giustizia, la revisione dei processi.

Antefatti

Il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione aveva confermato le condanne di primo grado del Maxiprocesso di Palermo, mandando all'ergastolo i principali boss di Cosa Nostra, tra cui Totò Riina. Fu a seguito di questa sentenza che la Commissione regionale di Cosa Nostra decise di iniziare la c.d. “stagione stragista”.

Nei primi giorni di febbraio l'allora ministro Calogero Mannino confidò all'amico Giuliano Guazzelli, maresciallo dei Carabinieri, "Ora o uccidono me, o uccidono Lima"[2]. L'intuizione di Mannino fu profetica, perché il 12 marzo 1992 alcuni sicari uccisero effettivamente Salvo Lima, all'epoca eurodeputato della DC e "vicerè" di Giulio Andreotti in Sicilia, con il duplice fine di vendicarsi di uno dei politici che aveva tradito la promessa di far saltare in Cassazione il Maxiprocesso e di lanciare un preciso messaggio all'allora Presidente del Consiglio che aveva firmato un decreto-legge che riportava in carcere i boss scarcerati per decorrenza dei termini.

Il primo annuncio della stagione delle stragi

La mattina del 6 marzo il giudice bolognese Leonardo Grassi, che si stava occupando delle stragi delliItalicus e della stazione di Bologna, ricevette una lettera da Elio Ciolini, il “depistatore” delle indagini della strage di Bologna. Il contenuto di tale lettera era il seguente:

Nuova strategia della tensione in Italia-periodo marzo-luglio 1992. Nel periodo marzo-luglio di quest’anno avverranno fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde intese a colpire quelle persone comuni in luoghi pubblici, sequestro ed eventuale omicidio di esponente politico Psi, Pci, Dc, sequestro ed eventuale omicidio del presidente della Repubblica.[3]

Il giudice Grassi inviò un'informativa al ministro dell'interno Vincenzo Scotti, che a sua volta informò tutti i prefetti pochi giorni dopo l'omicidio Lima. Il 16 marzo il capo della Polizia Vincenzo Parisi scrisse in una nota riservata che vi erano state minacce di morte al Presidente del Consiglio Andreotti e ai ministri Vizzini e Mannino[4].

Il 18 marzo il giudice Grassi ricevette un'altra lettera da Ciolini in cui venne esplicitato un futuro attentato terroristico diretto ai vertici del Psi e a personaggi di rilievo. Il giudice lo stesso giorno mostrò ad alcuni ufficiali della Sezione anticrimine del Ros di Bologna un foglio di appunti con il seguente contenuto:

Strategia della tensione marzo-luglio ‘92 Matrice masso-politico-Mafia=Siderno Group Montreal Cosa Nostra-Catania-Roma (DC-ANDREOTTI) -ANDREOTTI-VIA-D’ACQUISTO-LIMA Sissan- (…) Protezione Dc via Mr D’ACQUISTO e LIMA-previsto futuro Presidenza ANDREOTTI- Dc domanda voti alla Cupola per nuove elezioni. Corrente Dc sinistra no d’accordo con voti Cupola. ANDREOTTI, secondo gli sviluppi della politica di sinistra e destra, poco reticente. Si giustifica LIMA per pressioni a ANDREOTTI. È prevista anche, con l’accordo Psi, Repubblica Presidenziale ANDREOTTI. Cupole-Pressione a ANDREOTTI nuovi sviluppi, indirizzo politico, leghe ecc, mette la situazione della mafia in Sicilia in difficoltà Strategia Creare intimidazione nei confronti di quei soggetti e Istituzioni stato affinchè non abbiano la volontà di farlo e distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia.[5]

Il giorno dopo il ministro dell'interno Vincenzo Scotti davanti alla Commissione Affari costituzionali del Senato affermò "nascondere ai cittadini che siamo di fronte a un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo", conquistandosi le prime pagine di tutti i giornali (“Allarme complotto in Italia” (Corriere), “Scotti grida al colpo di Stato” (Unità), “Lo Stato è in pericolo” (Repubblica)) ma Andreotti minimizzò derubricando l'allarme a "una patacca", mentre Bettino Craxi sostenne che parlare di "minaccia al sistema" fosse esagerato.[6]

Il secondo annuncio delle stragi

Sempre il 19 marzo sull'agenzia giornalistica "Repubblica" venne pubblicato un articolo intitolato “Un’ira per Lima? Sicilia come Singapore del Mediterraneo” in cui venne ipotizzato un disegno politico-eversivo mirante a far collassare il vecchio sistema e a far divenire Cosa Nostra uno stato vero e proprio attraverso l’autonomia regionale e amministrativa della regione Sicilia.[7]

Secondo un'indagine della Dia il fondatore dell'Agenzia aveva militato nell'estrema destra, era legato al principe Borghese e fu coinvolto nella strage di Piazza Fontana. Inoltre nel 1993 vennero denunciati presunti finanziamenti da parte del Sisde proprio all'Agenzia di stampa, smentiti da quest'ultima. È quindi probabile che l'Agenzia fosse a conoscenza di quanto stava per accadere grazie a notizie occulte, ma che non potesse rivelarle esplicitamente.

Due articoli pubblicati dall’Agenzia rispettivamente 48 e 24 ore prima della strage di Capaci, scritti da Vittorio Sbardella (leader della Dc laziale e vicino all'onorevole Lima) anticiparono un “botto esterno” che avrebbe dovuto influire sulle elezioni del Presidente della Repubblica per bloccare la candidatura di Andreotti. È possibile ricondurre questo “botto esterno” alla strage di Capaci anche a seguito delle dichiarazioni di Giovanni Brusca e Vito Ciancimino:

  • Giovanni Brusca: “andando ad uccidere l’onorevole Lima in qualche modo per riflesso si andava ad additare l’onorevole Andreotti come mafioso. Con Salvatore Riina dicevamo quella frase poco felice, cioè: con una fava due piccioni, nel senso che avremmo ucciso da un lato il dottor Falcone e dall'altro per effetto l'onorevole Andreotti non sarebbe più stato eletto presidente della Repubblica” [8]
  • Vito Ciancimino: “l'attentato in pregiudizio del dottor Falcone è stato pilotato per impedire l’elezione dell’onorevole Andreotti a presidente della Repubblica.”[9]

Il 24 aprile il governo presieduto da Andreotti cadde.

La figura di Mannino

Come già detto, tra i politici che temevano per la propria vita vi era il ministro democristiano Calogero Mannino, il quale aveva confidato al maresciallo Guazzelli di aver ricevuto a casa una corona di fiori e temeva di essere colpito insieme a Lima. Dopo la morte dell'europarlamentare, Mannino confidò nuovamente al maresciallo: “il prossimo potrei essere io”. In realtà chi fu assassinato da Cosa Nostra fu proprio il maresciallo Guazzelli il 4 aprile 1992 sulla strada Agrigento-Porto Empedocle, con una sventagliata di mitra. Gli inquirenti sostennero che l'omicidio del maresciallo fosse un avvertimento proprio a Mannino.

Questi, tra l'aprile e il maggio del 1992, incontrò informalmente il capo della polizia Vincenzo Parisi, Bruno Contrada e il capo del Ros Antonio Subranni per avviare un contatto con Cosa Nostra ed evitare ulteriori assassinii tra gli uomini dello stato[10]. Nel maggio del 1992 inoltre in una lettera anonima del c.d. Corvo 2 si parlò di un presunto incontro avvenuto tra Mannino e Riina stesso in una chiesa a San Giuseppe Jato, ma la circostanza non è mai stata confermata in alcuna sede giudiziaria.

La posizione di Mannino nell'ambito della trattativa assunse tratti ancora più inquietanti quando il 21 dicembre 2011 una giornalista de "il Fatto Quotidiano", Sandra Amurri, ascoltò per caso tale affermazione di Mannino rivolta all'europarlamentare del Pdl Giuseppe Gargani: "Hai capito, questa volta ci fottono, questa volta ci incastrano. A Palermo hanno capito tutto. Perché quel cretino del figlio di Ciancimino ha raccontato tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Glielo devi dire a Ciriaco de Mita, dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione, perché lui ora i magistrati lo sentiranno.[11]

La strage di Capaci e la mancata elezione di Andreotti al Quirinale

Il 23 maggio alle 17:58 500 kg di tritolo uccisero Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Due giorni dopo Oscar Luigi Scalfaro venne eletto Presidente della Repubblica, al posto di Giulio Andreotti, confermando la tesi, avallata da alcuni pentiti, secondo cui la strage di Capaci avesse come fine trasversale quello di bloccare proprio l'elezione del sette volte Presidente del Consiglio ai vertici dello Stato italiano.

Il 28 maggio il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti candidò Paolo Borsellino a capo della Direzione Nazionale Antimafia, dicendosi disponibile a riaprire i termini del concorso per il posto a cui aveva fatto domanda Falcone prima di morire. L'ipotesi fu rifiutata subito dal diretto interessato, che in una lettera al ministro scrisse: “La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento.” Il giudice rinunciò alla candidatura temendo di venir accusato di aver fatto carriera sulla morte di Falcone, affermando che tale situazione fosse “come un osso gettato davanti ai cani.[12]

La prima trattativa: Paolo Bellini, la primula nera

Paolo Bellini, ex militante di Avanguardia Nazionale, coinvolto nella strage di Bologna e vicino ai Servizi segreti, rappresenta la prima traccia di una trattativa tra uomini dello Stato e Cosa Nostra[13]. Egli fu detenuto nel carcere di Sciacca intorno al 1981 e proprio nel carcere di Sciacca conobbe Antonino Gioè, con cui ebbe un'assidua frequentazione. L'interesse di Bellini per le opere d'arte era tale che nel 1991 venne contattato anche dall'ispettore Procaccia della Questura di Reggio Calabria per ritrovare alcuni quadri rubati alla Pinacoteca di Modena, per i quali chiese aiuto proprio a Gioè, facendo intendere che i quadri fossero in possesso della Mala del Brenta.

Tra il marzo-aprile del 1992 Bellini conobbe il maresciallo Roberto Tempesta, del Nucleo tutela del patrimonio artistico, anch'egli interessato alle opere della Pinacoteca di Modena. Bellini gli fece intendere di avere conoscenze in Sicilia e di poter infiltrarsi nella mafia siciliana per recuperare le opere. I contatti ripresero nei mesi successivi, durante i quali il maresciallo Tempesta diede a Bellini una busta gialla contenente le fotografie delle opere. Bellini contattò quindi Gioè, consegnandogli la suddetta busta ma quest’ultimo gli disse che per le opere di Modena non avrebbe potuto fare niente, ma che sarebbe stato in grado di recuperare opere di valore maggiore rispetto a tali quadri. In cambio chiese però dei benefici per alcuni detenuti, consegnando a Bellini le foto di opere più importanti e un biglietto nel quale erano segnati i nomi di alcuni soggetti per i quali chiese benefici. (alcuni di questi nomi: Luciano Leggio, Pippò Calò, Bernardo Brusca). Inoltre nei successivi incontri che avvennero tra Bellini e Gioè si ipotizzò di compiere attentati a monumenti di grande valore artistico, come la torre di Pisa proprio per trattare sul regime del carcere duro.

Il 12 agosto Bellini e il maresciallo Tempesta si incontrarono nuovamente e il Bellini gli consegnò il “piccolo papello” di Gioè. Il maresciallo disse però che non sarebbe stato in grado di gestire la trattativa da solo e che avrebbe sentito “altri personaggi”. Il 25 agosto Tempesta si recò quindi dal colonnello Mario Mori, comandante del Ros, dicendogli di essere entrato in contatto con questo soggetto come fonte informativa e gli consegnò il bigliettino contenente i nomi dei cinque mafiosi per i quali ottenere gli arresti domiciliari o il ricovero ospedaliero. Il colonnello Mori disse subito che l'ipotesi era impraticabile poiché questi soggetti rappresentavano il “ghota della mafia” e sarebbe stato impossibile scarcerarli ma comunque di mantenere i rapporti con Bellini. Tempesta rimase in contatto con Bellini e nel settembre del 1992 venne a sapere che quest’ultimo non era stato contattato da alcuno e solo successivamente seppe che la proposta era stata ritenuta impraticabile. Il 24 maggio 1993 Bellini venne arrestato per ricettazione di mobili e oggetti d’antiquariato.

Le dichiarazioni di Giovanni Brusca

Giovanni Brusca nel marzo-aprile del 1992 venne contattato da Antonino Gioè, il quale gli disse di essere stato avvicinato da Bellini, interessato al recupero di opere d’arte e in contatto con alcuni uomini dello Stato attraverso i quali sarebbe stato possibile ottenere benefici. Brusca quindi si attivò per recuperare gli oggetti d'arte utilizzabili come “merce di scambio” e contestualmente contattò Salvatore Riina, il quale gli diede un bigliettino con alcuni nomi di detenuti. È proprio su tali nomi che c’è divergenza tra le varie deposizioni: secondo Brusca infatti i nomi ivi contenuti erano anche quelli di Giuseppe Gambino, Bernardo Brusca e Giovan Battista Pullarà. Soltanto in relazione a Gambino e Brusca venne ipotizzata la possibilità di ottenere benefici.

Il suicido di Antonino Gioè

Il 19 marzo 1993 la Direzione Investigativa Antimafia arrestò Antonino Gioè e Gioacchino La Barbera nel covo di via Ughetti 17 a Palermo. Il 29 luglio Gioè venne trovato impiccato a una finestra dagli agenti di sorveglianza del carcere. Gioè nella sua cella ha lasciato una lettera rivolta agli uomini dello Stato, in cui venne citato per la prima volta Bellini: “(…) dimenticavo di dire che mio fratello Mario nell’andare a tentare di recuperare un credito ha consegnato al creditore una tessera dello stesso creditore il che adesso mi rendo conto che quest’ultimo fosse un infiltrato: mio fratello non lo ha incontrato e il figlio ha detto che il padre era ricercato. Supponendo che il signor Bellini fosse un infiltrato sarò lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo.[14]

La seconda trattativa: Mori-Ciancimino

Il 30 maggio 1992 Massimo Ciancimino, figlio di Vito, incontrò casualmente sul volo Roma-Palermo il capitano del Ros Giuseppe De Donno, il quale gli chiese di poter incontrare il padre per discutere di un possibile accordo riguardante alcuni benefici per i mafiosi detenuti. L'ex-sindaco di Palermo nei primi giorni del giugno 1992 contattò Bernardo Provenzano per riferire dell'avvicinamento, il quale gli diede il consenso per porsi da mediatore tra i Carabinieri e Riina.

Nello stesso periodo, mentre il ministro di Grazia e Giustizia Martelli l'8 giugno 1992 faceva approvare un decreto che inaspriva il carcere per i mafiosi, De Donno incontrava Vito Ciancimino in compagnia del generale Mario Mori nella seconda settimana di giugno.

Il 21 giugno Riina, venuto a conoscenza dell’incontro, disse a Brusca testuali parole: “si sono fatti sotto” e preparò il c.d. papello, cioè le richieste di Cosa Nostra allo Stato.

Il 23 giugno De Donno iniziò a cercare le coperture istituzionali e informò dell'incontro avvenuto con Ciancimino Liliana Ferrario, direttrice degli affari penali del ministero di giustizia, la quale ne diede notizia al ministro Martelli. Il 25 giugno De Donno in compagnia di Mario Mori incontrò Paolo Borsellino con il quale parlarono soltanto del rapporto mafia e appalti senza far alcun accenno all'incontro avvenuto con Ciancimino[15].

La sera stessa Borsellino durante l’ultimo convegno in pubblico affermò: “In questo momento io, oltre che magistrato sono testimone. Sono testimone perché avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto come amico di Giovanni tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico, anche delle opinioni e delle convinzioni che io mi sono fatto raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria, che è l'unica in grado valutare quando queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa tragedia ha fatto pensare a me , e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita".[16]

Prima della strage di via D’Amelio

Il 28 giugno si insediò il nuovo governo presieduto da Giuliano Amato. Il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti venne spostato agli Esteri, mentre Nicola Mancino lo sostituì al vertice del Viminale. Quest’ultimo disse di aver pregato il ministro Scotti di rimanere agli Interni ma venne smentito dallo stesso Scotti il quale affermò di “essere andato a dormire da Ministro dell’Interno e di essersi svegliato Ministro degli Esteri”.

L’ex ministro degli Interni Vincenzo Scotti venne interrogato nel corso del processo per la strage di via D’Amelio e in particolare gli fu chiesto come mai fosse uscito da un governo come ministro degli Interni per entrare in un nuovo governo come ministro degli Esteri. In risposta l'ex-ministro fece un sorriso indecifrabile, come se non potesse rispondere in maniera chiara alla domanda.

Il 29 giugno Liliana Ferrario informò Borsellino, all'aeroporto di Fiumicino, dell’incontro avvenuto tra Mori e Ciancimino e il magistrato disse che ci avrebbe pensato lui. Pochi giorni dopo lo stesso Borsellino però scoppiò in lacrime davanti a due giovani giudici, Massimo Russo e Alessandra Camassa, dicendo che un amico lo aveva tradito.

Il 1° luglio mentre Borsellino stava interrogando il mafioso Gaspare Mutolo alla Direzione Investigativa Antimafia di Roma, venne convocato al Viminale dove si stava insediando il nuovo ministro Mancino. Al ritorno il giudice parve visibilmente scosso, tanto che il pentito affermò che fumava due sigarette insieme. Il suo stato d’animo era dovuto all'incontro con Bruno Contrada, numero due del Sisde, il quale gli aveva fatto una battuta sul pentimento di Mutolo, informazione quest’ultima che sarebbe dovuta essere segreta.

Queste le dichiarazioni di Mutolo: “[…] Quindi manca qualche ora, 40 minuti, cioè all’incirca un’ora e mi ricordo che quando è venuto è venuto tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano. Io insomma non sapendo che cosa…Dottore, ma che cosa ha? E molto lui preoccupato e serio, mi fa che, viceversa del ministro si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada…mi dice di scrivere di mettere a verbale quello che gli avevo detto oralmente, cioè che il dottor Contrada diciamo era colluso con la mafia, che il giudice Signorino diciamo, era amico dei mafiosi…amico…insomma che tutto quel che sapeva gli diceva, ci ho detto guardi noi più di questo non possiamo verbalizzare niente, perché ci dissi io, io…insomma a me mi ammazzano e quindi a me interessa che prima io verbalizzo tutto quello che concerne l’organigramma mafioso. […] l’ultima sera che ci lasciamo con il dottor Borsellino è stato, mi sembra, il venerdì, dopo due giorni il giudice…salta in aria.[17]

La sera stessa il giudice Borsellino confidò alla moglie di aver respirato “aria di morte”[18].

Il “papello”

Durante la prima settimana di luglio Totò Riina fece arrivare nelle mani di Vito Ciancimino le richieste che avrebbe dovuto presentare alle istituzioni. Il foglio era composto da 12 punti, che Ciancimino giudicò subito impresentabili. Il foglio, mostrato da Massimo Ciancimino, conteneva tali punti[19]:

  1. Revisione sentenza Maxiprocesso
  2. Annullamento decreto legge 41-bis
  3. Revisione legge Rognoni-La Torre
  4. Riforma legge pentiti
  5. Riconoscimento benefici ai dissociati brigate rosse per condannati di mafia
  6. Arresti domiciliari dopo i 70 anni di età
  7. Chiusura supercarceri
  8. Carcerazione vicino le case dei familiari
  9. Niente censura posta familiari
  10. Misure prevenzione sequestro non fattibile
  11. Arresto solo flagranza di reato
  12. Levare tasse carburanti come Aosta

In fondo all'elenco l'annotazione: Consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei Ros.

Il 13 luglio 1992 Ciancimino mostrò il suddetto papello ai carabinieri, i quali giudicarono le richieste irricevibili. Alle proposte di Riina Vito Ciancimino contrappose un altro elenco con richieste considerate più ragionevoli:

  • allegati per mittente
  • Mancino Rognoni
  • Ministro Guardasigilli Giustizia
  • Abolizione 416 bis
  • Strasburgo Maxi processo
  • Sud Partito
  • Riforma Giustizia alla americana
  • Sistema elettivo con persone superiori ai 50 anni indipendentemente dal titolo di studio: (es. Leonardo Sciascia)
  • Abolizione carcere preventivo se non in flagranza di reato (in questo caso rito direttissimo)
  • Abolizione monopolio tabacchi (controllo stupefacenti non…)

Il secondo documento aveva un carattere più politico e le richieste sembravano rivolte a un soggetto più largo, cioè un nuovo soggetto politico in grado di gestire meglio la trattativa con Cosa Nostra.

La strage di via d’Amelio

Il 19 luglio alle 16:58 ci fu una violentissima esplosione in via Mariano D’Amelio a Palermo che provocò la morte del giudice Paolo Borsellino e degli agenti di scorta Claudio Traina, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Eddie Walter Cosina. La bomba, 90 kg di tritolo, era collocata nel vano di un'auto (una Fiat 126 rossa rubata il 10 luglio 1992) utilizzata come autobomba. Due mesi dopo, il 17 settembre 1992 un gruppo di killer capitanato da Leoluca Bagarella[20] uccise Ignazio Salvo, condannato per associazione mafiosa nel Maxiprocesso di Palermo.

Il 26 settembre 1992 venne arrestato Vincenzo Scarantino accusato di strage e furto aggravato. Tra il giugno e l’agosto del 1993 le dichiarazioni rese da Francesco Andriotta, compagno di cella di Scarantino, confermarono che Scarantino aveva rubato la Fiat 126 per ordine di Giuseppe Orofino, titolare di una carrozzeria in cui un’altra Fiat 126 era stata lasciata per riparazioni. Sulla base di questi elementi e sulle dichiarazioni di Scarantino stesso, divenuto nel frattempo dal 24 giugno 1994 collaboratore di giustizia, vennero rinviati a giudizio Scarantino, Giuseppe Orofino, Salvatore Profeta e Pietro Scotto.

Il 26 gennaio 1996 la Corte d’assise condannò all'ergastolo Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto e a 18 anni di reclusione Vincenzo Scarantino. La collaborazione di Scarantino fu però molto travagliata, poiché nel 1998 egli in aula ritrattò, dicendo di aver accusato solo innocenti e di essersi inventato tutto perché spinto da magistrati e investigatori. Il 1° febbraio 2002 nel corso del processo di appello detto Borsellino-bis Scarantino cambiò nuovamente versione, affermando di voler ritrattare perché minacciato e che la verità era quella raccontata nel primo processo.

La seconda fase della trattativa

Dalla consegna del papello iniziò la seconda fase della trattativa, il cui obiettivo era mutato: dalla cattura dei superlatitanti a quella di Totò Riina. Alla fine di agosto ci fu un ulteriore incontro tra Vito Ciancimino e i carabinieri del Ros durante il quale vennero consegnate delle mappe della zona di Palermo-Monreale fino all'area di Passo di Rignano da parte dei Carabinieri a Ciancimino, affinché indicasse dove fosse il covo di Riina. Tali cartine topografiche vennero a loro volta consegnate a Bernardo Provenzano, intorno al novembre del 1992, il quale fece dei segni in corrispondenza della residenza di Riina.

Contemporaneamente il 12 dicembre il ministro Mancino in un articolo sul Corriere della Sera considerò la cattura del superlatitante “obiettivo concretamente perseguibile”.[21] Il 19 dicembre Vito Ciancimino venne arrestato inaspettatamente, forse perché aveva chiesto un passaporto valido per l’espatrio. Quando Vito Ciancimino fu arrestato, ebbe la consapevolezza di essere stato tradito e di essere stato soltanto uno strumento per giungere alla cattura di Riina. La trattativa sarebbe continuata con Bernardo Provenzano, senza di lui.

L’arresto di Riina e la mancata perquisizione del covo

L'8 gennaio 1993 venne arrestato Baldassare Di Maggio, autista di Totò Riina, il quale diede importanti informazioni al generale dei carabinieri Francesco Delfino, utili alla cattura di Riina. Grazie a queste rivelazioni, Riina venne catturato il 15 gennaio dal Capitano Ultimo. Il covo di Riina non venne perquisito immediatamente dopo l’arresto e le riprese furono interrotte dal Ros alle 16 dello stesso giorno. Soltanto il 30 gennaio venne comunicato ai magistrati guidati da Gian Carlo Caselli che l’attività di controllo fu interrotta poche ore dopo l’arresto. Il 1° febbraio scattò la perquisizione ma era ormai troppo tardi: il covo era stato ripulito totalmente, con i mobili ammassati in una stanza e le pareti imbiancate. Secondo i magistrati, con l'arresto di Riina si aprì una terza fase della Trattativa Stato-Mafia con nuovi interlocutori e mediatori: Bernardo Provenzano e Marcello Dell'Utri. Il 10 febbraio il Ministro Martelli si dimise da Ministro della Giustizia, travolto dallo scandalo di Tangentopoli, e venne sostituito da Giovanni Conso, scelto personalmente da Luigi Scalfaro.

Le dichiarazioni di Leonardo Messina e le indagini sui movimenti leghisti meridionali

Il 4 dicembre 1992 la Commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Luciano Violante, interrogò Leonardo Messina, detto Narduzzo, uomo d'onore dal 1980 e capodecina del mandamento di San Cataldo, che aveva iniziato a collaborare nel giugno 1992 con Paolo Borsellino.

Secondo il racconto del pentito, Cosa Nostra aveva come scopo quello di crearsi un proprio Stato, attraverso un progetto separatista della Sicilia. Le spinte separatiste erano sostenute oltre che dalla massoneria, anche da settori delle istituzioni, dell'imprenditoria e della politica (da lui definite “forze esterne” o “formazioni nuove”). La Sicilia indipendente, staccata dal resto d’Italia, sarebbe diventata lo Stato di Cosa Nostra. In particolare, Messina affermò che i vertici di Cosa Nostra “Oggi possono arrivare al potere senza fare un colpo di stato”, e ancora “Cosa Nostra appoggerà una forza politica siciliana con un nome nuovo”.

In un successivo interrogatorio, reso il 6 febbraio 1996 davanti alla Procura di Palermo, Messina precisò le sue affermazioni, dichiarando che Provenzano, Riina, Madonia e Santapaola tra l’agosto del 1991 e l’inizio del 1992 discussero di un progetto politico volto a dividere l’Italia in tre Stati: uno del Nord uno del Centro e uno del Sud. Coinvolti erano non solo esponenti della criminalità organizzata ma anche della politica, della massoneria e alcune non precisate potenze straniere.

Secondo altri collaboratori di giustizia non solo siciliani ma anche calabresi e pugliesi, fin dal 1991 fu messo in moto un progetto politico-criminale tra Cosa Nostra, altre organizzazioni mafiose e ambienti della massoneria deviata con lo scopo di eliminare i vecchi referenti politici e creare le condizioni per la nascita di un nuovo soggetto politico, anche attraverso azioni terroristiche.

Le investigazioni della Dia successive alle dichiarazioni di Messina portarono ad individuare il ruolo trainante della massoneria deviata, tra cui quello di Licio Gelli (Gran maestro della loggia massonica P2) e della destra eversiva come Stefano Delle Chiaie (estremista di destra capo di Avanguardia Nazionale) nella nascita delle Leghe meridionali. Secondo le informative della Dia del 3 giugno 1997 e del 31 gennaio 1998[22], nel 1991 nacquero i seguenti movimenti leghisti legati a Licio Gelli:

  • Lega italiana del 7 maggio 1991;
  • Lega italiana-Lega delle leghe fondata il 31 gennaio 1992;
  • Lega Italia del marzo 1993;
  • Vari movimenti leghisti nelle regioni centrali e meridionali in particolare Lega meridionale Centro-Sud-Isole fondata 27 giugno 1989;
  • Sicilia Libera nata nel 1993;

In particolare le dichiarazioni di Tullio Cannella, rese il 28 maggio 1997, mettono in luce come il movimento secessionista Sicilia Libera facesse parte di una strategia politica più ampia che avrebbe costituito la soluzione finale per tutti i problemi di Cosa Nostra. Disse il pentito: “il movimento Sicilia Libera era solo uno dei movimenti di una complessa strategia politica e criminale della quale sono stato messo al corrente da Bagarella” e poi ancora “le stragi al Nord erano finalizzate a distrarre l’attenzione dal problema di Cosa Nostra in Sicilia, a creare un clima più propizio per addivenire in quel momento in tempi più brevi alla separazione dell’Italia fra Nord e Sud.[23]

Un altro collaboratore di giustizia, Massimo Pizza, facente parte del mondo della finanza e legato alla criminalità organizzata, durante un interrogatorio del 25 luglio 1996 dichiarò: “la Lega Meridionale è la longa manus di Cosa Nostra e deve attuare un progetto di rivoluzione politica, ispirato da Licio Gelli, che sarebbe sfociato in una nuova forma di Stato. Tale progetto si articolava in tre fasi: 1) una fase di infiltrazione nelle istituzioni e in particolare nell’arma dei Carabinieri e della Polizia 2) una seconda fase consistente nella delegittimazione della classe politica e della magistratura 3) una terza fase militare.[24] Pizza dichiarò inoltre il coinvolgimento non solo di Gelli ma anche del Senatore Andreotti, che in un primo tempo aveva appoggiato il progetto e successivamente si era tirato indietro. Da ciò si potrebbe ipotizzare anche una nuova lettura dell’omicidio Lima, e cioè quella di una pressione su Andreotti attraverso l’omicidio del suo referente politico in Sicilia, per aver ancora una volta tradito i vertici di Cosa Nostra.

La nuova ondata di stragi

Il fallito attentato di Via Fauro

Il 14 maggio 1993 alle 21:35 a Roma vi fu una potente esplosione tra Via Fauro e Via Boccioni. L’esplosione provocò il danneggiamento di edifici, alcuni feriti ma nessuna vittima. L’obiettivo dell’attentato era Maurizio Costanzo a causa del suo impegno giornalistico contro la mafia. Un'altra interpretazione avvallata fu che l’obiettivo non era il giornalista ma piuttosto un funzionario dei servizi civili, Lorenzo Narracci, che abitava in via Fauro e il cui nome fu rinvenuto nel luogo dell’attentato di Capaci.

La strage di via dei Georgofili a Firenze

Il 27 maggio 1993 qualche minuto dopo l’una di notte in via dei Georgofili a Firenze vi fu una violentissima esplosione che provocò la morte di cinque persone, il ferimento di quasi trenta, il crollo della Torre dei Pulci, sede dell’accademia dei Georgofili, e il danneggiamento della galleria degli Uffizi.

L’ipotesi che l’obiettivo non fosse un monumento o la galleria degli Uffizi venne avvallata durante il dibattimento per la strage, il 28 novembre 1996, durante il quale si ipotizzò che l’obiettivo fosse la stessa Accademia dei Georgofili, luogo di ritrovo di uomini politici di rilievo. Nel consiglio accademico erano presenti nomi di personaggi illustri, tra cui il Presidente del Senato Giovanni Spadolini. Inoltre l’Accademia poteva contare di un certo numero di membri autorevoli della loggia massonica Grande Oriente d’Italia.

Le dimissioni di Amato e la nascita di Forza italia

Il 4 giugno 1993 Nicolò Amato venne dimesso dalla guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dimostratosi negli ultimi mesi particolarmente intransigente sull'applicazione del 41 bis. Al suo posto venne nominato, su pressione del presidente Oscar Luigi Scalfaro, Adalberto Capriotti, un anziano magistrato di Trento con nessuna competenza nel settore carcerario. Il 29 giugno 1993 nacque Forza Italia, i cui fondatori erano oltre a Silvio Berlusconi anche Marcello Dell’Utri e Cesare Previti.

La strage di Via Palestro a Milano

Il 27 luglio verso le 23:00 esplose un’autobomba in Via Palestro a Milano, provando la morte di cinque persone e il ferimento di altre sei. L'onda d'urto dell'esplosione frantumò i vetri delle abitazioni circostanti, distrusse il muro del Padiglione d'Arte Contemporanea e danneggiò la vicina Galleria d'Arte Moderna. La deflagrazione provocò, nella notte, verso le 4 e mezzo del mattino, un'altra esplosione dovuta alla rottura di una tubatura sotterranea del gas, che provocò ulteriori danni al Padiglione, alle opere d'arte al suo interno e anche alla vicina Villa Reale.

Le autobombe di S.Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma

Pochi minuti dopo la bomba di Milano, alle 0:03 del 28 luglio 1993 scoppiò un’altra bomba a Roma in piazza S.Giovanni in Laterano. L’esplosione provocò danni ai palazzi circostanti ma miracolosamente non fece vittime. Cinque minuti dopo, alle 0:08 ne scoppiò un'altra in Via Velabro, anche questa senza fare vittime e danneggiando la chiesa di San Giorgio.

Ancora più allarmante fu quello che avvenne immediatamente dopo l’esplosione delle bombe: un misterioso guasto al centralino di Palazzo Chigi. I telefoni della presidenza del consiglio rimasero isolati per due ore, dalle 0.22 fino alle 3.02 del 28 luglio.

La mattina seguente il prefetto Angelo Finocchiaro rassegnò le dimissioni dalla direzione del Sisde e al suo posto venne nominato il prefetto Domenico Salazar. Mentre l’offensiva stragista di Cosa Nostra raggiungeva il culmine, la risposta dello Stato fu alquanto morbida. Nel novembre del 1993 non vennero rinnovati 343 provvedimenti di 41-bis a detenuti mafiosi.

Fallito Attentato dello stadio Olimpico di Roma

All’inizio del 1994 durante il derby Roma-Lazio sarebbe dovuta esplodere un’altra autobomba accanto ad alcune corriere che trasportavano i carabinieri per il servizio d’ordine pubblico. Se la bomba fosse esplosa avrebbe provocato più di duecento morti tra le forze di polizia e numerosi civili. Nel gennaio del 1994 una Lancia Thema venne attrezzata per esplodere e portata allo stadio Olimpico di Roma. L’ordigno era predisposto per esplodere con un telecomando. L’auto venne parcheggiata un’ora prima della fine della partita. L’esplosione però non avvenne a causa di un guasto del telecomando.

Dalle bombe ai decreti-legge

Il 27 febbraio 1994 vennero arrestati i fratelli Graviano a Milano e un mese dopo, il 28 marzo 1994 Silvio Berlusconi vinse le elezioni politiche con il neo partito Forza Italia. Secondo le dichiarazioni di Antonino Giuffrè rese il 7 gennaio del 2003, ci fu un contatto tra Cosa Nostra e Berlusconi già intorno agli anni Settanta. Ma ciò che preme sottolineare è il fatto che con l’omicidio di Salvo Lima Cosa Nostra volle chiudere i rapporti con la politica democristiana e aprirne altri con un nuovo soggetto politico, vale a dire Forza Italia. Questa formazione politica nacque quindi come effetto della trattativa, e avrebbe dovuto dare garanzie che la democrazia cristiana non era più in grado di offrire. Cosa Nostra invece avrebbe dovuto cercare e offrire voti a questa formazione politica. L’uomo cerniera capace di condurre le trattative venne individuato nella persona di Marcello Dell’Utri, vicino a Cosa Nostra e ottimo referente per Berlusconi. Il 13 luglio 1994 fu emanato il decreto Biondi, che consentiva per la maggior parte dei condannati per corruzione di beneficiare degli arresti domiciliari durante il giudizio. Il decreto modificava poi l’art 275 c.p.p. nella parte in cui la pericolosità di chi commetteva reati per mafia non fosse presunta ma valutata di volta in volta dal giudice, così da verificare se sussistessero esigenze cautelari. Il decreto venne poi ritirato. Il primo agosto 1996 venne presentato un progetto di legge dai senatori Melchiorre Cirami e Bruno Napoli, appartenenti al partito Centro Cristiano Democristiano, che prevedeva la c.d. dissociazione. Si prevedevano cioè una serie di benefici per quei mafiosi che avessero ripudiato Cosa Nostra senza accusare altri appartenenti all’organizzazione. È bene sottolineare come tale proposta di legge fosse una delle richieste avanzate da Cosa Nostra nel c.d. papello e che avrebbe significato un’apertura dello Stato nei confronti di tali soggetti.

L’infiltrato Luigi Ilardo

Nel giugno del 1993 il detenuto Luigi Ilardo, cugino del boss Piddu Madonia, chiese un incontro con la Dia dichiarando di riconoscere alcuni artificieri delle stragi del 1992-1993. Il capo della Dia, Gianni De Gennaro affidò l’incarico di incontrare Ilardo al colonello Michele Riccio. Ilardo decise di iniziare un processo di collaborazione, essendo disposto ad essere un infiltrato in Cosa Nostra. Il 31 ottobre 1995 il collaboratore riuscì ad ottenere la fiducia di Bernardo Provenzano con il quale era da tempo in contatto e riuscì a fissare un incontro con il boss. Il colonello Riccio comunicò subito ai superiori, tra cui Mori, la possibilità di catturare Provenzano ma questi sembravano disinteressati alla notizia. Durante l’incontro tra Ilardo e Provenzano infatti ci fu soltanto un servizio di osservazione dei luoghi ad una certa distanza dal casolare dove si teneva l’incontro. A seguito dell’incontro non avvenne alcun arresto, ma anzi il colonnello Mori e i colleghi Obinu e Ganzer dissero a Riccio di non predisporre alcuna relazione per i magistrati poiché riguardavano attività di latitanti. L’arresto di Provenzano avvenne l’11 aprile 2006, dopo 46 anni di latitanza. Trascorsi alcuni mesi l’autorità giudiziaria di Palermo manifestò l’idea che Ilardo dovesse iniziare una collaborazione formale con i magistrati. Il colonello Mori spinse affinchè Ilardo collaborasse esclusivamente con il magistrato Tinebra, mentre Ilardo espresse fermamente la volontà che ci fosse anche il dottor Caselli e che senza tale soggetto egli non avrebbe collaborato. Il colloquio non venne verbalizzato e il dottor Tinebra chiese che si proseguisse successivamente. Il dottor Caselli chiese quindi a Riccio di registrare le dichiarazioni di Ilardo in vista dei successivi interrogatori, ma ciò non avvenne perché il 10 maggio 1996 Ilardo fu ucciso perché scoperto collaboratore di giustizia. Il giorno stesso dell’uccisione di Ilardo, Riccio venne raggiunto dal capitano Damiano della procura di Caltanissetta, il quale visibilmente preoccupato gli riferì che era trapelata la notizia della collaborazione e che aveva già diramato la notizia al colonello Mori e al maggiore Obinu. Nei mesi successivi il colonello Mori e Obinu insistettero per non redigere un rapporto conclusivo su quanto era avvenuto, e in particolare sulle vicende connesse al mancato arresto di Provenzano. La stessa Procura di Caltanissetta chiese a Riccio di non inserire nel rapporto alcun riferimento al colloquio avvenuto tra Ilardo e i magistrati.

Il processo sulla Trattativa Stato-Mafia

Le dichiarazioni di Massimo Ciancimino

Il 19 dicembre 2007 il settimanale “Panorama” pubblicò un’intervista fatta a Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino ex sindaco di Palermo, nella quale vennero toccati argomenti “scottanti” del periodo delle stragi del 1992-1993 e di una “trattativa” tra Stato e Cosa Nostra a cui Massimo aveva assistito. La risposta dell’autorità giudiziaria non tardò ad arrivare e pochi giorni dopo le procure di Caltanissetta e di Palermo vollero interrogare Massimo Ciancimino. Il 29 gennaio 2008 Ciancimino venne sentito dalla procura di Caltanissetta di fronte al procuratore Renato di Natale e al sostituto Rocco Liguori. Il 7 aprile 2008 iniziò a collaborare con la Procura di Palermo nell’ambito delle coperture riguardanti la latitanza di Bernardo Provenzano, davanti ai sostituti procuratori Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. Massimo Ciancimino ha fornito uno dei contributi maggiori nell’analisi della trattativa stato-mafia attraverso la sua collaborazione. Durante l’interrogatorio del 9 novembre 2009 Massimo raccontò del rapporto tra suo padre e Bernardo Provenzano ricordando come Vito desse del tu a Provenzano chiamandolo “Binnu”, mentre il boss dava del lei a Ciancimino chiamandolo “ingegnere”. Il rapporto tra i due era infatti molto stretto poiché il boss, compaesano di Vito e più piccolo d’età aveva preso ripetizioni di matematica da questo. Durante l’interrogatorio dell’8 luglio 2009 Ciancimino jr. raccontò della nascita della trattativa e del ruolo assunto da suo padre e dal colonnello Mario Mori e dal capitano De Donno e le varie fasi di questo rapporto, sottolineando come a seguito dell’arresto del padre e di Totò Riina i rapporti fossero continuati tra Dell’Utri e Provenzano. Nel corso del processo Massimo Ciancimino fornì importanti documenti, che durante una perquisizione avvenuta il 17 febbraio del 2005 a casa sua non sono stati esaminati ma rimasti chiusi in una cassaforte che pare non essere stata vista. Proprio tale cassetta di sicurezza, a dire di Ciancimino, conteneva il papello, il contropapello e altri “pizzini”.

Il pentimento di Gaspare Spatuzza

Il 26 giugno 2008 Gaspare Spatuzza raccontò di essere stato proprio lui stesso a rubare la Fiat 126 usata come autobomba, sottolineando come i freni di quest’ultima fossero consumati e che aveva provveduto egli stesso a farli sistemare. Questo dettaglio, apparentemente irrilevante, ebbe grande importanza poiché i freni dell’autobomba di via d’Amelio erano nuovi e provarono quindi la versione del pentito. Venne dunque organizzato un confronto tra Gaspare Spatuzza e Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Salvatore Candura (autoaccusatosi del furto della macchina). Quest’ultimo ammise di essersi inventato tutto su pressione di poliziotti e scoppiò a piangere e anche Scarantino chiese di interrompere il confronto. La versione raccontata da Spatuzza risultò quindi attendibile.

19 dicembre 2007: Ciancimino rilascia un'intervista a Panorama. Poco dopo viene chiamato dalle Procure di Caltanissetta e Palermo. Inizia l'indagine sulla trattativa.

2008: si pente Gaspare Spatuzza, kiler dei Graviano. Si accusa del furto e della preparazione della fiat 126 che uccise Borsellino.

2009: Ciancimino rivela i particolari degli incontri tra il ros e suo padre

2010: le procure di palermo e caltanissetta sentono: Martelli, Conso, Ferraro, Violante, Scalfaro, Ciampi, Mancino, Nicolò Amato.

21 aprile 2011: la procura di palermo arresta ciancimino per calunnia verso de gennaro

25 novembre 2011: Mancino inizia a sentire Loris D'Ambrosio, consulente giuridico di Napolitano

21 dicembre 2011: Sandra Amurri ascolta per caso Mannino e Gargani: "a palermo hanno capito tutto, stavolta ci fottono. Quel cretino di ciancimino ha detto tante cazzate, ma su di noi ci ha azzeccato"

9 marzo 2012: la procura di Caltanissetta archivia le posizioni dei politici pur con pesanti giudizi su di loro.

16 marzo 2012: il pg di cassazione Vitaliano Esposito chiede le carte dell'inchiesta di caltanissetta. Mancino lo chiama subito per complimentarsi.

giugno 2012: si chiude l'indagine di Palermo, 12 indagati

Note

  1. Nicola Pisano, Sentenza 9043/10 contro Francesco Tagliavia, II Corte d’Assise di Firenze, 5 ottobre 2011
  2. Sandra Amurri, "Nel 1992 Mannino si salvò due volte", il Fatto Quotidiano, 31 marzo 2012
  3. Maurizio Torrealta, La Trattativa, Milano, BUR, 2010, p. 257
  4. Repubblica Inchieste, "Il documento del Viminale: Temiamo omicidi politici", 16 ottobre 2011
  5. Maurizio Torrealta, La trattiva, Milano, BUR, 2010 pp. 258-260
  6. Corriere della Sera, 20 marzo 1992
  7. Agenzia Giornalistica Repubblica, quotidiano politico economico finanziario, riservato agli abbonati, Anno XIII, n-65, 19 marzo 1992, riportato in Maurizio Torrealta, La Trattativa, Milano, BUR, 2010 p.634
  8. Ivi, p. 287
  9. interrogatorio del 3 aprile 1998 davanti a pm Palermo, Firenze, Caltanissetta
  10. Attilio Bolzoni, Quando il Palazzo tremava per le bombe di Cosa Nostra, la Repubblica, 22 giugno 2012
  11. Sandra Amurri, Mannino, “fuorionda” sulla trattativa: “Hanno capito tutto, stavolta ci fottono”, il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2012
  12. Citato in Enrico Deaglio, Il vile agguato, Feltrinelli, 2012
  13. La vicenda Bellini è raccontata nel dettaglio in Maurizio Torrealta, La Trattativa, Milano, BUR, 2012, p. 377 e ss.
  14. Maurizio Torrealta, La trattativa, Milano,BUR, 2010 p.380
  15. Torrealta, op.cit., p. 425
  16. Il video è disponibile su youtube
  17. udienza del 21 febbraio 1996 per il processo per la strage di via D’Amelio
  18. La circostanza fu riferita nella puntata del 6 dicembre 2012 da Agnese Borsellino, quando chiese all'ex-ministro degli Interni Nicola Mancino: "Perché Paolo rientrato la sera di quello stesso giorno da Roma, mi disse che aveva respirato aria di morte?"
  19. Torrealta, op.cit., p.74 e ss.
  20. Torrealta, op.cit., p.451
  21. Umberto Rosso, Una Cupola parallela nelle mani del Boss Riina, la Repubblica, 12 dicembre 1992
  22. Informative n. 17959/97 del 3 giugno 1997 e n. 3815/98 del 31 gennaio 1998 e allegati
  23. Torrealta, op.cit., p.358-359
  24. Ivi, p.314-315