Filadelfio Aparo

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Filadelfio Aparo
Filadelfio Aparo

Filadelfio Aparo (Lentini, 15 settembre 1935 – Palermo, 11 gennaio 1979) è stato un poliziotto italiano, vittima innocente di Cosa Nostra, vice-brigadiere della Squadra Mobile di Palermo diretta da Boris Giuliano.

Biografia

Filadelfio entrò a far parte della Polizia di Stato nel 1956, prestando servizio a Bari, Taranto, Nettuno, finché non arrivò in forze alla Questura di Palermo, dove inizialmente operò nella sezione antirapina, poi in quella che sarebbe diventata la squadra Catturandi.

Per il suo impegno e per la sua dedizione, Aparo si conquistò il soprannome di “Radar”, derivato alla sua capacità di scovare latitanti, capacità che gli valse anche numerosi riconoscimenti e premi. Già nel 1969 gli venne accordato l'avanzamento di grado per il coraggio dimostrato durante un'operazione di polizia, conclusasi con l'arresto di un rapinatore. Nel 1978 ricevette l'encomio solenne per aver individuato, bloccato e arrestato due latitanti con cui sostenne un duro scontro.

Proprio per via della sua capacità, Aparo godeva sia della stima personale di Boris Giuliano, sia di Bruno Contrada, i quali gli affidavano delicate indagini anche per via della sua memoria fotografica (veniva considerato il "cervello fotografico" della Squadra Mobile).

L’omicidio

La mattina dell’11 gennaio 1979, verso le 8:30, Aparo si trovava in Piazza Tenente Anelli, intento a raggiungere la sua auto, quando due commandi armati, uno a piedi l'altro a bordo di una Fiat 128 rossa, aprirono il fuoco contro di lui a colpi di lupara e calibro 38. Il vicebrigadiere non ebbe neanche il tempo di difendersi. La moglie Maria, di 36 anni, e uno dei suoi tre figli, Vincenzo, assistettero impotenti all'esecuzione mentre erano affacciati al balcone per salutarlo.[1]. Nell'agguato venne ferito anche un vicino di casa, Cosimo Tarantino, che Aparo aveva salutato poco prima di avviarsi verso la sua auto[2].

Indagini e processi

La mattina del 10 febbraio 1979 venne arrestato e recluso all’Ucciardone di Palermo Giuseppe Ferrante, uno “stigghiolaro"[3] di 23 anni, accusato di aver agito in concorso con ignoti al delitto.

Un testimone, che conosceva l'ambulante, aveva detto di averlo riconosciuto (con indosso un giubbotto scuro e la barba folta) vicino al luogo del delitto, poco prima di sentire gli spari. Un ragazzino di dieci anni, inoltre, diceva di aver visto un giovane con barba e baffi e un giubbotto scuro, nello stesso luogo indicato dal primo testimone [4].

Questo bastò per ritenere Ferrante (che non aveva barba e baffi e possedeva un giubbotto che il netturbino neppure riconobbe) il palo dell'agguato. Gli veniva inflitta, così, una condanna di 28 anni in primo grado, che in secondo grado sarebbe diventata ergastolo. Dopo quattro anni il caso veniva archiviato, gli “ignoti” rimasero tali e Ferrante venne spostato al penitenziario di Favignana. Ferrante scrisse a quel punto una lettera al quotidiano "la Repubblica": «mi trovo in carcere da 21 anni e ancora non so spiegarmi il perché. Gli apparati investigativi hanno voluto condannare un colpevole, ma non il colpevole»[5] .

Audito in commissione parlamentare antimafia, il collaboratore Gaspare Mutolo indicò Ferrante tra gli innocenti ingiustamente condannati per delitti che non avevano commesso:

«C'era tutto un complesso di cose. Quando si sapeva che c'era qualche personaggio scomodo, si cercava di eliminarlo, si eliminava. Non è che in polizia erano tutti bravi o tutti cattivi. In polizia purtroppo, l'ambiente di Palermo era quello: se c'era uno che accedeva nelle indagini e nella ricerca dei latitanti, si sapeva e si eliminava. Ci fu un certo Aparo che per esempio è stato ucciso perché lo chiamavano il "segugio" perché andava sempre cercando i latitanti. Ed è stato ucciso».[6].

Mutolo indicò come responsabili dell’uccisione del Vice brigadiere i ben noti killer corleonesi Pino Greco “scarpuzzedda” e Giuseppe Lucchese[7]. Dopo Mutolo, vi furono anche le dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia come Salvatore Cucuzza, Francesco Di Carlo, Francesco Marino Mannoia e Salvatore Contorno. Sulla base di queste dichiarazioni, gli avvocati di Ferrante presentarono un'istanza di revisione del processo, bocciata però dalla Corte d'Assise d'Appello con la motivazione che che non si poteva del tutto escludere la colpevolezza dello stigghiolaro.

Secondo Di Carlo, Aparo venne ucciso perché si era messo in testa di catturare Mario Prestifilippo e Pino Greco, riuscendoci quasi due volte incrociando i due ai giardini di Ciaculli. In un'occasione, Greco aveva dovuto abbandonare la sua auto, saltare su un tetto e fuggire dopo aver scavalcato un muro di cinta. A quel punto Greco e Prestifilippo chiesero a Stefano Bontate il permesso di sbarazzarsi del vicebrigadiere e, una volta ottenuto il via libera, lo eliminarono[8].

Note

  1. I Siciliani Giovani, 11 gennaio: nel 1979 fu ucciso il vice brigadiere Filadelfio Aparo e nel 1996 il piccolo Giuseppe Di Matteo, 11 gennaio 2014.
  2. Danilo Daquino, Aparo, 38 anni dopo killer mafiosi ancora senza nome. La figlia: «Il suo lavoro creava fastidio ai Corleonesi», MeridioNews, 11 gennaio 2017.
  3. Venditore ambulante di stigghiola - un tipico piatto della cucina siciliana e palermitana
  4. Enrico Bellavia, SOS dall’ergastolo, la Repubblica, 27 dicembre 2000[1]
  5. ibidem
  6. Commissione parlamentare antimafia (1993). Verbale della seduta di martedì 9 febbraio 1993 - Audizione del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, Roma, p. 1270[2].
  7. Bellavia, op.cit.
  8. Testimonianza di Di Carlo nel libro di Enrico Bellavia (2010). Un uomo d'onore, Milano, Rizzoli.

Bibliografia

  • Archivio Storico la Repubblica
  • Archivio i Siciliani Giovani
  • Bellavia, Enrico (2010). Un uomo d'onore, Milano, Rizzoli.
  • Commissione parlamentare antimafia (1993). Verbale della seduta di martedì 9 febbraio 1993 - Audizione del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, Roma[3].