Operazione Belgio 2

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L’Operazione Belgio 2, è un’inchiesta sulle presunte attività criminali della ‘ndrina Di Giovine e dei suoi alleati nell’area Nord di Milano il cui nucleo era collocato attorno a piazza Prealpi. Le indagini vennero condotte tra il 1985 e gli inizi del 1993. Durante questo periodo l’organizzazione capeggiata da Emilio Di Giovine esercitò su quest’area un vero e proprio controllo militare attuato tramite un sistema di vedette, scorte, intimidazioni e eliminazione fisica dei concorrenti.

L’operazione scattata il 3 maggio 1994 portò all’iscrizione nel registro degli indagati di 122 persone per vari reati tra cui associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione illecita e traffico di armi da fuoco e da guerra, evasione, omicidio, contraffazione di documenti, corruzione e corruzione di pubblico ufficiale.

Antefatti

Le confessioni dei collaboratori di giustizia furono vitali a far emergere il tessuto criminoso gestito dalle famiglie Serraino e Di Giovine. Tra i collaboratori risalta il nome di Margherita Di Giovine [1], figlia di Maria Serraino (soprannominata “Mamma Eroina”) e sorella del boss Emilio Di Giovine, il cui contributo fu centrale nel comprendere le dinamiche e i rapporti che intercorrevano tra i vari segmenti dell’organizzazione criminale. Hanno partecipato in qualità di collaboratori di giustizia tra gli altri anche Fabio Nistri (braccio destro di Di Giovine), Jaimes Gonzales Garcia, Maurizio Bosetto, Luigi Zolla, Vittorio Foschini, Marco Alessandri, Alberto Andreatta, Salvatore Annacondia, Filippo Barreca, Alfredo Girlando, Alessandro Franchetti.

Le loro dichiarazioni hanno offerto uno spaccato impressionante della realtà milanese, evidenziando come, tra gli anni ’70 e gli inizi degli anni ‘90, il capoluogo lombardo fosse sede elettiva del traffico internazionale di stupefacenti (hashish, cocaina, eroina e exstasy principalmente) nonché del tirocinio dei giovani appartenenti alla ‘Ndrangheta. [2] Lo stesso Emilio Di Giovine divenne successivamente collaboratore di giustizia. La sua organizzazione fu attiva anche nel traffico di armi.


Traffico di stupefacenti internazionale: area Nord di Milano

Secondo le indagini quantomeno dai primi mesi del 1988 fino al 1992 l’appartamento e i box di via Belgioioso 2 (VII piano) nonché l’appartamento di via Alberti 2, di proprietà di Alfredo Girlandi, e il box di Via Mac Mahon 50, di proprietà di Marco Boni, sarebbero stati utilizzati dal gruppo criminale capeggiato da Emilio Di Giovine come deposito di ingenti sostanze stupefacenti. [3].

Secondo gli inquirenti presso questi recapiti tra Marzo e Maggio 1992 sarebbe stata depositata tra il quintale e la tonnellata e mezzo di hashish, con arrivi di 1000 kg ogni 15 giorni, prima di essere venduta e smistata sul territorio milanese e nelle principali piazze italiane. Peculiare è il caso riguardante l’appartamento di via Belgioso 2, la casa di Antonio Di Giovine. Dalle indagini è emerso che il fratello di Emilio riceveva in camera da letto i clienti e consegnava in loco la quantità di sostanze stupefacenti prestabilita. I collaboratori di giustizia hanno rivelato che in alcune occasioni si arrivava ad avere una ventina di persone in attesa di concludere affari con Antonio nel salotto dell’appartamento. [4]

Secondo le indagini l’approvvigionamento di hashish proveniva dal Marocco. La procedura era semplice: il carico di droga veniva raccolto e smistato in Spagna e Portogallo per mezzo di natanti e successivamente importato in Italia via terra tramite camion frigorifero, pullman turistici, T.I.R., autovetture e furgoni. [5] Secondo le indagini, dal 1989 le forniture di hashish si sarebbero attestate tra il quintale e le decine di tonnellate per volta fino a 25000 kg. Emilio Di Giovine dichiarò quale fosse il suo modo di operare nel traffico dell’hashish. Inizialmente quando acquistava lo stupefacente proveniente dal Marocco, ne pagava metà subito e metà dopo la vendita; quando i fornitori iniziarono a conoscerlo e a entrare in buoni rapporti, acquistava l’intero quantitativo a credito, pagandolo dopo lo smercio. Di Giovine faceva caricare lo stupefacente su autovetture, le quali avevano una capienza fino a 350 kg e trasportavano l’hashish fino a un altro luogo, ancora in Spagna, dove vi era in attesa un pullman sul quale l’hashish veniva caricato e trasportato a Milano. All'arrivo c’era un uomo di fiducia di Di Giovine deputato a distribuire la merce ai vari clienti e a ricevere i pagamenti. Secondo le indagini e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, per la prima volta tra dicembre 1990 e gennaio 1991 per evitare i costi dei trasporti in Spagna e Portogallo l’organizzazione decise di utilizzare un trasporto diretto via nave dal Marocco a Lampedusa con il supporto di Jaime Gonzales Garcia e Tonino Sanguedolce. Questo tipo di trasporto venne poi ripetuto nel tempo traendo vantaggio della complicità di altre organizzazioni criminali. [6]

Per quanto riguarda il mercato dell’eroina fu gestito inizialmente da Maria Serraino e successivamente dai figli Emilio e Antonio Di Giovine. La merce proveniva da fornitori Turchi e Siriani e il gruppo criminale divenne leader di questo settore dalla fine degli anni ‘70 al 1993, periodo in cui terminano le indagini. Le forniture di eroina provenienti dal medio oriente variavano dai 10 kg al quintale l’una. Durante il periodo di latitanza di Emilio Di Giovine negli Stati Uniti il gruppo criminale aprì anche un canale Milano – New York per il traffico di questa sostanza stupefacente. [7]

Traffico e detenzione di armi

Il gruppo criminale di Di Giovine come precedentemente menzionato acquistava, contraffaceva e utilizzava un ingente quantitativo di armi. Vi entrò in possesso pagandole con denaro o scambiandole per importanti quantitativi di Hashish sin dal 1988. Il principale fornitore di armi fu Maurizio Bosetto (anche lui poi divenuto collaboratore di giustizia). [8] Il gruppo agì in questo settore non solo per supportare le proprie azioni ma anche per essere da sostegno alle famiglie Serraino, Simerti, Condello e i loro alleati. La famiglia Di Giovine fu preziosa nel reperire armi e denaro, diventando un fattore centrale nella guerra di mafia in atto in Calabria dal 1985 contro le famiglie De Stefano, Libri e Tegano. [9]

Fondamentale dopo l’acquisto era la contraffazione. Tutti i numeri di matricola venivano resi illeggibili tramite abrasione, fresatura e talvolta anche trapanatura affinché diventasse impossibile anche tramite l’uso di acidi risalire al numero originario identificativo. Di Giovine richiedeva pistole Sig Sauet, Smith & Wesson, Ruger, Glock; come armi automatiche le più piccole erano le micro-uzi e le più grosse erano dei treppiedi tedesco MG 43 e Kalashnikov calibro 5.56 o 5.52. Secondo le dichiarazioni di Bosetto, Emilio Di Giovine richiese anche una fornitura di Bazooka che però lui non fu in grado di reperire. Bosetto aveva appreso dallo stesso boss che la maggior parte delle armi erano destinate alla Calabria per essere utilizzate nella guerra di mafia in corso all'epoca. Tuttavia secondo le indagini Bosetto non era l’unico fornitore. Egli stesso infatti scoprì che Di Giovine riuscì ad acquisire la fornitura di bazooka che richiedeva, tramite Theodor Cranendonk fornitore olandese che viveva in Svizzera. Anche Attilio Milan fornì in più di una situazione kalashnikov e fucili a pompa trattando principalmente con Margherita Di Giovine. [10]

Evasione Emilio Di Giovine

Il 21 giugno 1991 Emilio Di Giovine grazie ad un’azione attutata da complici armati evase il mattino stesso del suo arrivo all'Ospedale Fate Bene Fratelli di Milano. La visita specialistica era stata prescritta con la complicità̀ del Dott. Piccolo, un medico del servizio sanitario della casa circondariale di S. Vittore in Milano, pagato profumatamente affinché predisponesse il trasferimento. Al momento dell’arrivo, l’ambulanza si recò nei sotterranei dell'ospedale, ed appena l’imputato venne fatto scendere, entrò in azione un gruppo di uomini vestiti con camici da infermieri, armati di pistole e bombolette a gas irritante, che, dopo avere immobilizzato i Carabinieri di scorta ed un infermiere del pronto soccorso, si fecero consegnare le chiavi delle manette del detenuto, rapinarono le pistole d'ordinanza in dotazione ai militari e quindi si dileguarono. Lungo il tragitto i fuggiaschi incrociarono un medico, il Dott. Iacini, il quale venne colpito violentemente al capo con una delle pistole. Il gruppo quindi scavalcò il cancello che sbocca su via Castelfidardo e rapinò due autovetture (una FIAT 164 ed una FIAT Uno), a bordo delle quali si diede alla fuga. [11]

Le successive dichiarazioni di Margherita Di Giovine, sorella dell’evaso, fecero luce sull’identità dei complici (Raimondo Di Napoli, Felice De Martino, Massimo De Nuzzo, Ezio Dorigatti, Maurizio Margiotta, Carmelo Casile e Fabio Nistri), nonché sull’identità del pianificatore: lo stesso Emilio Di Giovine. Secondo Rita, Emilio avrebbe pianificato dal carcere tutta l’operazione facendo arrivare ai suoi complici biglietti utili alla preparazione del piano di fuga tramite Raimondo Di Napoli, agente di polizia penitenziaria in servizio presso il centro clinico di San Vittore corrotto con 30 milioni di lire. Al fine di ricompensare i complici per l’operazione, Emilio Di Giovine stanziò complessivamente secondo la collaboratrice 500 milioni di lire. Le dichiarazioni vennero poi confermate da Fabio Nistri, uno dei partecipanti alla fuga che aggiunse che Di Napoli fornì in carcere a Di Giovine un cellulare, medicinali e cocaina per tenersi in contatto coi complici e simulare l’aggravamento delle sue condizioni di salute. [12] Sebbene il piano non andò esattamente come previsto Emilio Di Giovine riuscì ad evadere e venne caricato nel doppiofondo di un pullman che lo attendeva nei pressi di via Imbonati e che riuscì a portarlo in Spagna. [13]

Omicidio Giuseppe Amante

Giuseppe Amante venne assassinato il 7 marzo 1991 in piazza Prealpi, di fronte al civico 4, dove abitava. Secondo le ricostruzioni nelle immediate vicinanze del cadavere vennero trovati otto bossoli, un'ogiva proiettile e, una volta spostato il corpo, altre due ogive; sui bossoli era riportata la scritta "calibro 9 Luger". Giuseppe Amante era un pregiudicato, aveva subito numerosi arresti per traffico di stupefacenti, per tentato omicidio e per detenzione armi, tra cui nel 1972, un arresto insieme a Franco Coco Trovato. Dal 1988 al 26 dicembre 1990 fu detenuto per detenzione di armi e stupefacenti, venne scarcerato a seguito dell’applicazione del condono. [14]

Piazza Prealpi dagli anni ’70 fu sempre sotto il controllo della famiglia Serraino/Di Giovine. Come ha dichiarato Margherita Di Giovine: “perdere la piazza significava perdere la faccia” [15] Per questo negli anni il traffico nella piazza venne gestito prima da Maria Serraino, poi da sua figlia Margherita Di Giovine, quindi da Massimiliano Nostro figlio di Margherita e infine da Luigi Zolla, il marito di Natalina Di Giovine. I gruppi criminali che operarono nelle zone limitrofe rispettarono sempre questa esclusiva fatta eccezione del gruppo criminale di cui era parte Giuseppe Amante e che secondo le indagini, dopo la scarcerazione, comprava droga dalla ‘ndrina Mancuso.

Poiché le indagini riguardanti la morte di Amante terminarono senza trovare un colpevole, solo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia furono in grado di dare un volto al colpevole e a delineare il movente celatosi dietro l’assassinio. Secondo Fabio Nistri, Giuseppe Amante iniziò a vendere sostanze stupefacenti, in particolare eroina, in Piazza Prealpi senza l’approvazione della famiglia Serraino/Di Giovine, spacciando droga non comprata da loro, ma da gruppi criminali rivali. Il collaboratore affermò che, notata questa situazione, la decisione di uccidere Amante provenne dai livelli più alti dell’organizzazione e da coloro che gestivano il controllo su piazza Prealpi: Maria Serraino, Emilio Di Giovine e Luigi Zolla. Sempre secondo Nistri, l’interesse di Emilio, che non si occupava del controllo della piazza, era dovuto al fatto che il fratello di Amante, Alfonso, in un processo in cui era stato accusato dell’omicidio di Francesco Mafodda, non testimoniò in suo favore come da accordi presi con il fratello Giuseppe e fece cadere la possibilità di revisione della sentenza che al termine del processo lo condannò a 22 anni (Sentenza della Corte di Cassazione del 13 gennaio 1991). [16]

Come esecutore fu scelto Maurizio Margiotta e Nistri, scelto all’ultimo momento per sostituire Bruno Merico, persona inizialmente designata come autista prima e dopo l’assassinio. Lo stesso Nistri il 6 marzo incontrò Margiotta e gli fece scegliere l’arma da utilizzare tra un revolver calibro 44, una 7.65 con il silenziatore e due Sig Sauer calibro 9; quest’ultimo designò le Sig Sauer Calibro 9 come le armi adatte al compito che gli avevano assegnato. Secondo le dichiarazioni fornite da Zolla poi agli inquirenti, Margiotta come compenso per l’uccisione di Amante ricevette uno sconto di 100000 milioni di lire su una fornitura di cocaina. [17]

Omicidio Filippo Cilione

L’11 luglio 1991 Filippo Cilione è stato ucciso all’incrocio tra piazza Prealpi e via Grigna mediante l’esplosione di diversi colpi di arma da fuoco. Anche in questo caso le indagini non portarono all’individuazione degli autori dell’omicidio e il caso fu archiviato. Ancora una volta a fare luce furono le dichiarazioni della collaboratrice Margherita Di Giovine, di Fabio Nistri e Luigi Zolla che indicarono Mario Savio, personaggio noto della criminalità operante nei quartieri spagnoli attivo nel mercato degli stupefacenti [18], e Aldo Anaclerio, al quale Cilione aveva fatto esplodere il “Bar Mezzo Mondo” di via Campo dei Fiori due volte in ottobre 1990 e gennaio 1991 e che era anche la base di interessi illeciti comuni a Savio [19], come organizzatori dell’omicidio. Emilio Di Giovine e Maria Serraino diedero il loro consenso all’operazione avvenuta a bordo di una Honda 500 rubata sentenziata da Savio con colpi di arma da fuoco.

Secondo i collaboratori di giustizia, Filippo Cilione sin dagli anni ’80 aveva lavorato con la famiglia Di Giovine nel traffico di stupefacenti salvo poi lasciare il gruppo per andare a lavorare con un gruppo rivale venendo successivamente allontanato. Dalle dichiarazioni emerge che Cilione cominciò a fare estorsioni, a chiedere “il pizzo” e a svolgere azioni intimidatorie nei confronti degli inadempienti alle richieste. Tutto questo in piazza Prealpi senza il benestare del potere in controllo sulla piazza. La decisione presa dai vertici dell’organizzazione fu sofferta perché vi era il timore di scatenare ritorsioni in seno ai gruppi criminali avversi nelle zone circostanti piazza Prealpi.


Corruzione di pubblici ufficiali

Santino Di Iulio Chiacchia e Tammaro Barbato, poliziotti in servizio al Commissariato Musocco di Milano, furono accusati e poi condannati per essere stati sul libro paga della famiglia Serraino/Di Giovine. Secondo Margherita Di Giovine: "dicevano quando c'erano delle perquisizioni che dovevano farci o quando c'erano i Carabinieri o la Polizia fuori che ci curavano, quando avevamo i telefoni sotto controllo..." [20] Sempre secondo la collaboratrice, Maria Serraino si occupava dei pagamenti dei due poliziotti che venivano considerati “di famiglia” e che furono spesso ospiti della casa di via Belgioso 2. Secondo Luigi Zolla, Maria Serraino pagava 2 milioni e mezzo di lire al mese i due poliziotti corrotti per le informazioni che fornivano e la certezza di sapere come si muovesse il Commissariato di Musocco.

I due imputati facevano parte della squadra "U.I.G.O.S." del commissariato Musocco, il che significa che uscivano regolarmente sul territorio al fine del controllo anticrimine e in questo modo erano nelle condizioni ideali per lasciare che lo spaccio in piazza Prealpi non subisse intoppi. Furono anche responsabili anche di 190 autentiche per rinnovi di passaporti tra le quali tutte quelle relative alle pratiche amministrative riguardanti i membri della famiglia Di Giovine, provvedendo anche ad apporre la firma di ritiro, e ciò sta a significare che provvidero loro alla consegna dei documenti direttamente agli interessati. [21]


Processo

Il processo si sviluppò su tre procedimenti/giudizi distinti accomunati da vicende ascrivibili agli appartenenti delle famiglie Serraino/Di Giovine nonché a fiancheggiatori o antagonisti della famiglia stessa. Le tre sentenze di primo grado vennero emessa il 4 settembre 1997, il 13 ottobre 1998 e il 29 settembre 1998. [22]

Primo Grado

Dei 122 imputati solo 3 vennero dichiarati assolti e 1 non giudicato perché già imputato per gli stessi reati in un altro processo. Le pene comminate furono comprese tra 1 anno di detenzione e l’ergastolo. Furono condannati all’ergastolo 5 imputati: • Aldo Anaclerio, • Emilio Di Giovine, • Maurizio Margiotta, • Mario Savio, • Maria Serraino

Solo 13 imputati decisero di non impugnare la sentenza, gli altri iniziarono il procedimento d’appello conclusosi poi in un’unica sentenza d’appello il 14 febbraio 2000.

Cassazione

La Corte di Cassazione con sentenza emessa l’1 marzo 2002 di fatto non ha assolto nessuno degli imputati che hanno fatto ricorso. La maggior parte dei ricorsi è stata rigettata e non è nato nessun nuovo processo d’appello sancendo così l’irrevocabilità della sentenza. Nel caso di Emilio Di Giovine la corte ha dovuto annullare la sentenza impugnata dall’imputato riguardante l’omicidio di Giuseppe Amante, poiché vi fu la mancata estradizione e quindi la corte non ha potuto procedere all’azione legale. Ivi p.634


Bibliografia

Note

  1. Santo Belfiore, Sentenza Terza corte d’assise d’appello - Procedimento Penale n. 5/2000, Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, p.278
  2. Ivi, p.281
  3. Santo Belfiore, Relazione Introduttiva Sentenza Terza corte d’assise d’appello - Procedimento Penale n. 5/2000, Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, p.150 e p.168
  4. Santo Belfiore, Sentenza Terza corte d’assise d’appello - Procedimento Penale n. 5/2000, Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, p.141
  5. Santo Belfiore, Relazione Introduttiva Sentenza Terza corte d’assise d’appello - Procedimento Penale n. 5/2000, Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, p.183
  6. Santo Belfiore, Sentenza Terza corte d’assise d’appello - Procedimento Penale n. 5/2000, Tribunale di Milano, 14 febbraio 2000, p.393 e ss.
  7. Ivi, p.361
  8. Ivi, p.283
  9. Ivi p.323
  10. Ivi p.284 e ss.
  11. Ivi p.299 e ss.
  12. Ibidem
  13. Ibidem
  14. Ivi p.312
  15. Ivi p.327
  16. Ivi p.334
  17. Ivi p.312 e ss.
  18. Ivi p.365
  19. Ivi p.372
  20. Ivi p.392
  21. Ivi p.396
  22. Ivi p.235