Mafie in Piemonte

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mafie in piemonte

Il Piemonte è una regione storicamente interessata dal fenomeno mafioso, il cui panorama criminale estremamente complesso è caratterizzato dalla presenza di gruppi criminali autoctoni e stranieri[1]. La regione si caratterizza per essere una delle mete di principale interesse da parte della criminalità organizzata, nonostante la sua economia e il suo Pil non crescano tanto quanto quella di altre regioni del Nord Italia come Lombardia e Trentino-Alto Adige.

Le diverse forme di criminalità organizzata presenti sul territorio sono dedite a diverse attività, tra le quali spiccano il traffico di stupefacenti, racket, usura, nonché riciclaggio di denaro sporco e infiltrazione negli appalti pubblici. L'organizzazione mafiosa maggiormente presente è la 'ndrangheta, con le 'ndrine degli Agresta e dei Marando, tra le più influenti dell'Aspromonte, presenti anche in Lombardia.

Inoltre, non sembrano esserci frizioni rilevanti tra le diverse matrici etniche del crimine organizzato e ciò è probabilmente dovuto a una pacifica spartizione degli affari tra le diverse forme di criminalità[2] .

Le tappe dell’espansione mafiosa in Piemonte

Le prime presenze mafiose accertate in Piemonte risalgono intorno agli anni Sessanta del Novecento. Nel decennio successivo vennero compiuti numerosi sequestri di persona: tra il 1973 e il 1984 si registrarono nella regione 37 sequestri di persona. La loro realizzazione fu dovuta a soggetti residenti nel Nord che, avvalendosi del supporto e delle risorse fornite da 'ndranghetisti presenti nel territorio piemontese, agirono in collaborazione con le formazioni criminali radicate nella provincia di Reggio Calabria: gli ostaggi sequestrati in Piemonte vennero trasportati e custoditi in covi sulle alture dell’Aspromonte, in Calabria. Nei successivi anni Ottanta, invece, gli affiliati alla 'ndrangheta iniziarono a dedicarsi, come nel resto d'Italia, al traffico di stupefacenti, cui si affiancarono le attività estorsive e la gestione del gioco d’azzardo, principalmente a Torino[3].

Gli anni ‘60

Torino esercitò negli anni Sessanta una certa forza attrattiva poiché si rivelò essere una piazza importante per le strategie predatorie dei gruppi criminali. La grande città operaia del Nord contribuì, infatti, a costruire una rete di rapporti di connivenza e permise di fare affari senza rendersi troppo visibili riparandosi dai meccanismi di controllo sociale che caratterizzavano i centri di dimensioni minori. Le indagini di quel periodo rivelarono l’esistenza, a Torino, di due gruppi criminali: il “clan dei Calabresi” e il “clan dei Catanesi[4].

Per quanto riguarda il primo raggruppamento criminale, si trattava di uomini legati alla 'ndrangheta, ma all'epoca ancora la parola non era contemplata dalle istituzioni, soprattutto del Nord Italia. Proprio questa espressione linguistica permette una riflessione sulla sottovalutazione del fenomeno che ha avuto luogo negli anni '60, da parte sia dei magistrati sia delle forze dell’ordine. Pur individuando un modus operandi comune, all'epoca era diffusa la convinzione che soggetti, pur riconducibili a raggruppamenti criminali calabresi, fossero incapaci di strutturare un'organizzazione simile a quella dei territori di origine[5].

Tra i Catanesi un ruolo di primo piano fu ricoperto invece dai fratelli Miano, originari della Sicilia orientale. Si trattò di un gruppo autonomo da Cosa Nostra e riconducibile ai Cursoti, un’organizzazione criminale originaria di Catania[6].

Gli anni ‘70

Il nucleo da cui negli anni successivi si sviluppò il clan dei Catanesi era costituito da un gruppo di pregiudicati di origine catanese presente a Torino da metà degli anni Settanta. Fino a quel momento questi individui si erano resi protagonisti solo reati minori, soprattutto furti, ma riuscirono in seguito a compiere il salto di qualità. Per circa dieci anni, il clan dei Catanesi si occupò di traffici illeciti tra Catania, Torino e Milano. Di solito le strategie perseguite nelle grandi città del Nord furono il riflesso delle decisioni prese nelle riunioni che avvenivano a Catania, il centro strategico dei Cursoti[7].

Gli anni ‘80

A metà degli anni Ottanta si assistette a una prima importante azione di contrasto da parte della magistratura torinese, che colpì il clan dei Catanesi. Nel 1988 si concluse a Torino un maxi-processo nel quale vennero emesse 130 condanne tra cui 25 ergastoli, ai danni di appartenenti al clan. In conseguenza di questa prima importante campagna investigativa ai danni di un’associazione mafiosa presente sul territorio piemontese, i Catanesi scomparvero dalla scena criminale della regione. Il loro declino fu segnato anche da lotte interne e dai regolamenti di conti che si verificarono all'interno dell'organizzazione, soprattutto come conseguenza del fatto che alcuni membri del clan decisero di collaborare con la giustizia.

Tuttavia, come effetto collaterale di questa repressione, venne lasciato campo libero alla 'ndrangheta, le cui famiglie più importanti erano quelle degli Ursino e dei Belfiore, originarie di Gioiosa Jonica, in provincia di Reggio Calabria. I calabresi, dunque, riuscirono così a passare da una situazione caratterizzata da una difficile convivenza con i Catanesi a una posizione di predominio nel contesto della criminalità torinese. Furono diverse, infatti, le attività intraprese e controllate dagli 'ndranghetisti, soprattutto nel campo delle espropriazioni, dell’usura, del gioco d’azzardo e del traffico di stupefacenti. Il clan agiva nella maniera tipica di un’organizzazione criminale e contava numerosi affiliati che venivano gestiti attraverso una struttura di coordinamento.

In quegli anni il reticolo criminale risultava già esteso, essendo composto da diverse 'ndrine che concordavano regole e strategie comuni, pur mantenendo autonomia di azione. I Calabresi, inoltre, estesero la loro influenza collaborando con altri gruppi, da cui ottennero riconoscimento e cooperazione. Nonostante questa pervasività, negli anni Ottanta continuò comunque ad esistere una sola ed unica Locale di ‘ndrangheta con base a Torino[8].

Inoltre, il 16 giugno 1983, venne ucciso il procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia, per il quale venne condannato all'ergastolo come mandante dell'omicidio, Domenico Belfiore, capo dell'omonima 'ndrina operante a Torino.

Gli anni ‘90

Fu negli anni '90 che iniziarono ad essere aperte altre Locali nella regione. Inoltre, in quegli anni, gli inquirenti svelarono con l'Operazione Cartagine un cartello di 'ndrine operanti nel traffico di stupefacenti tra il Piemonte e la Lombardia le quali, a loro volta consorziate con le note famiglie mafiose dei Cuntrera e dei Caruana e i cartelli colombiani. Attraverso una società fittizia creata in Svizzera, tra il 1991 e il 1994 riuscirono a far arrivare in Italia, durante varie operazioni di importazione dal Brasile, dalla Colombia e da Panama, oltre 11mila chili di cocaina, poi distribuiti dalle 'ndrine calabresi.[9].

Gli anni Duemila

Fino a metà degli anni Duemila le indagini continuarono a essere condotte ma l’attenzione dei media per il tema era declinante, come del resto anche in Lombardia. Questo abbassamento dell’attenzione era dovuto principalmente all’assenza di storie eclatanti da raccontare all’opinione pubblica. Di conseguenza, per più di un decennio, non si ebbero notizie di attività delle organizzazioni mafiose nella regione, le quali scelsero in tutto il Nord Italia il basso profilo per riorganizzarsi. Nei primi anni Duemila, secondo il Ros dei Carabinieri di Torino, nel capoluogo piemontese e nel suo hinterland sarebbero stati attivi 33 gruppi mafiosi, 25 dei quali sarebbero stati collegati alla ‘ndrangheta, 5 a famiglie di Cosa Nostra siciliana e 3 a clan della camorra; tuttavia, continuò comunque a prevalere una lettura minimalista del problema[10].

Nel 2008 la relazione della Direzione Nazionale Antimafia evidenziò che «la regione è caratterizzata dall’assenza di fenomeni di particolare gravità», tuttavia la nomina a Procuratore Capo della Repubblica di Gian Carlo Caselli cambiò decisamente l'indirizzo della magistratura inquirente, dando impulso a indagini che sfociarono nelle operazioni Minotauro, del 6 giugno 2011, e Albachiara, del 15 giugno successivo.

Queste due operazioni confermarono la prevalenza della ‘ndrangheta nella regione, disegnando tuttavia una mappa degli insediamenti dell'organizzazione diversa dal passato, con una serie di Locali strutturate sul territorio come era emerso un anno prima nell'Operazione Infinito in Lombardia.

Questa forte strutturazione della ‘ndrangheta piemontese le permise di condizionare agilmente tanto le dinamiche economiche quanto quelle politiche nella regione. Le indagini più recenti hanno infatti evidenziato una preoccupante tendenza a condizionare le competizioni elettorali amministrative, nella consapevolezza che i soggetti “sponsorizzati”, una volta eletti, sarebbero stati disponibili a realizzare le aspettative degli appartenenti al sodalizio. Ovviamente, in aggiunta all’interesse per l’economia legale e per la politica, il crimine organizzato si occupò nel territorio piemontese anche di tutte quelle attività più tradizionali di cui è solita occuparsi la mafia: estorsioni, usura, sfruttamento della prostituzione[11].

L’espansione mafiosa, dai grandi centri alle piccole città

Le ragioni dell’espansione e del radicamento delle mafie in Piemonte

Come è riuscito ad attecchire in maniera così profonda il fenomeno mafioso in una regione come il Piemonte? Inizialmente, come già detto, i mafiosi operavano soprattutto nella città di Torino e nel suo hinterland metropolitano. L'espansione in tutta la regione del fenomeno può essere ricondotta a tre fattori, che bene o male ricalcano quelli di altre regioni del Nord Italia:

  1. Provvedimenti di soggiorno obbligato: tra i primi anni Sessanta e i primi anni Settanta del Novecento la legge sul c.d. soggiorno obbligato portò nella sola Torino 54 indiziati di appartenere a un'organizzazione mafiosa, per un totale di 288 nell'intera regione (l'11% del totale nazionale), registrando una percentuale inferiore solo a quella della Lombardia (che ne ospitò il 15%)[12];
  2. Alta migrazione dalle regioni ad originaria presenza mafiosa: negli anni '80, il Piemonte risultava avere la percentuale più alta tra le regioni del Centro-Nord di nuovi residenti provenienti dalle tre regioni culla del potere mafioso[13];
  3. Ruolo del sindacato e del movimento operaio: laddove il sindacato e il movimento operaio era forte, vi è stato anche un più facile inserimento dei lavoratori provenienti dal Sud Italia, plasmando una nuova identità politica in antitesi a quella mafiosa (come per altro emerse nello stesso periodo in Lombardia[14]). La circostanza è confermata dal fatto che nelle aree segnate da un forte sviluppo edilizio (come la Val di Susa e il Canavese) dove erano pochi i controlli e deboli i sindacati vi sia stata una presenza più incisiva delle organizzazioni mafiose[15].

Secondo Nando dalla Chiesa, ai fattori casuali e di costrizione è possibile delineare una strategia intenzionale di espansione delle organizzazioni mafiose. Secondo il sociologo:

«Una strategia di espansione mafiosa al Nord esiste. Si tratta di una strategia adattiva, che si misura con le sollecitazioni e i condizionamenti ambientali. Che afferra le opportunità offerte dal caso. Ma ha una sua fortissima intenzionalità, in particolare nella 'ndrangheta. Non ci si trova più di fronte a un “trapianto” spinto dalla necessità o dalla logica dei movimenti demografici. Né ci si trova davanti a una variabile dipendente in balia di una complessità di fattori. L’organizzazione 'ndranghetista punta piuttosto a comportarsi da variabile indipendente, proattiva, che interagisce con le altre variabili di contesto cercando di conformarle ai propri obiettivi. Essa non ha la forza d’urto immediata che può essere dispiegata da un colosso economico legale impegnato in nuove strategie produttive o di mercato, ma esprime la capillarità, la pazienza, la assiduità e il basso profilo richiesti dalla natura illegale dell’organizzazione»[16].

Si tratta di una strategia:

  • di conquista, sia del territorio sia delle differenti branche della pubblica amministrazione;
  • fondata su una straordinaria capacità di accumulare capitale sociale, attraverso l’incremento indefinito del proprio patrimonio di relazioni legali utili;
  • fondata su una raffinata e insuperabile capacità di trasferire e fare trasferire personale “leale” dai paesi della madrepatria;
  • fondata sull’uso pervasivo delle proprie imprese;
  • fondata sulla massima valorizzazione sistemica del principio del basso profilo, dalla tipologia dei reati commessi a quella delle imprese e degli appalti, dalla tipologia dei favori richiesti a quella dei livelli gerarchici da cui parte la conquista delle amministrazioni.

La presenza mafiosa nelle province piemontesi

Le indagini degli anni '10 del Duemila hanno restituito uno scenario in cui non vi è provincia del Piemonte scevra dalla presenza mafiosa. L'organizzazione egemone, come in Lombardia e in Liguria, è la 'ndrangheta, che risulta essere tuttavia non l'unica forma di criminalità organizzata presente nelle varie province.

Mafie nella Città Metropolitana di Torino

La città metropolitana di Torino si caratterizza per essere un luogo chiave per il traffico internazionale di stupefacenti, al punto che il suo territorio è stato un importante punto di riferimento per le imponenti spedizioni di cocaina derivanti dal Sudamerica e per quelle destinate a Paesi come Brasile, Perù, Spagna e Portogallo, nonché all’Italia stessa. La droga che transitava nella città di Torino, infatti, veniva poi spartita tra le diverse ‘ndrine operanti in Piemonte, Lombardia e Calabria. La città di Torino sembrava, pertanto, essere la base operativa di gruppi criminali dediti al narcotraffico, operativi in tutta Italia, ma con importanti ramificazioni principalmente nella provincia di Milano e Reggio Calabria. Tali rotte hanno interessato numerosi Paesi quali Brasile, Perù, Spagna e Portogallo[17].

Mafie nella Provincia di Asti

La provincia di Asti è stata destinataria di alcune recenti indagini che hanno dimostrato la presenza di soggetti legati alla criminalità di tipo mafioso. Si tratta di criminalità organizzata per lo più di origine calabrese nonostante nella provincia convivano comunque diversi gruppi delinquenziali, anche di origine straniera[18].

Mafie nella Provincia di Alessandria

La provincia di Alessandria è stata particolarmente interessata dalle operazioni Albachiara del 2011 e Alchemia del 2016, le quali hanno sottolineato la presenza nella provincia di gruppi criminali afferenti alla ‘ndrangheta. In particolare, l’operazione Alchemia ha dimostrato la presenza di figure criminali contigue alla ‘ndrina Raso-Gullace-Albanese[19].

Mafie nella Provincia di Biella

Con riferimento alla provincia di Biella, grazie all’operazione “Alto Piemonte del 2016 è stata individuata la locale di Santhià che, oltre a operare in provincia di Vercelli, era attiva anche nel territorio di Biella. Nella provincia sarebbe stata riscontrata anche la presenza della criminalità straniera, seppur in maniera poco strutturata e piuttosto contenuta[20].

Mafie nella Provincia di Cuneo

Nella provincia di Cuneo operano gruppi criminali di diversa estrazione. Sul territorio risulta di assoluta rilevanza la presenza della Casa Circondariale di Cuneo, la quale ospita detenuti sottoposti a regime differenziato. Tale Casa Circondariale espone il territorio cuneese a gravi rischi di infiltrazione da parte dei familiari dei detenuti, i quali tendono ad avvicinarsi quanto più possibile ai propri cari. Per il cuneese, di particolare rilevanza fu l’inchiesta “Altan” che, oltre ad accertare l’operatività della locale di Bra, aveva mostrato l’esistenza di legami tra la malavita piemontese e alcune 'ndrine, come gli Alvaro e i Grande Aracri[21].

Va inoltre tenuto conto della vicinanza del cuneese con la Francia, territorio di particolare interesse per la 'ndrangheta: il cuneese, infatti, è stato spesso utilizzato come rotta per il transito di immigrati clandestini[22].

Mafie nella Provincia di Novara

La provincia di Novara si trova al confine tra il Piemonte e la Lombardia e presenta pertanto un forte rischio di permeabilità anche da parte dei gruppi criminali attivi nelle province lombarde. L’operazione “Alto Piemonte” aveva appurato come la locale di Santhià fosse operativa anche in alcune zone del novarese. Inoltre, è stata dimostrata l’operatività nella provincia della famiglia Di Giovanni, originaria di Camporeale in provincia di Palermo e stabilmente radicata nella zona della bassa Valsesia e lungo la fascia dell’Est Sesia. Alcune inchieste hanno dimostrato la collaborazione della famiglia Di Giovanni con alcuni gruppi ‘ndranghetisti. In aggiunta al fattore puramente geografico, il rischio di infiltrazione viene amplificato anche dalla presenza di condannati a regime detentivo differenziato presso la locale Casa Circondariale, come nel caso della provincia di Cuneo[23].

Mafie nella Provincia del Verbano Cusio Ossola

La provincia del Verbano Cusio Ossola costituisce l’estremità del Piemonte protesa verso la Svizzera. Tale conformazione geografica deve indurre a prestare molta attenzione dal punto di vista investigativo, sia a causa dei consolidati insediamenti ‘ndranghetisti in terra elvetica, sia perché tale Paese è da sempre fonte di interesse per le mafie di origine italiana[24].

Mafie in Provincia di Vercelli

Con riferimento al vercellese, si evidenzia la consolidata presenza della criminalità organizzata di stampo mafioso calabrese. Già dal 2012, infatti, con l’operazione “Colpo di coda, venne scoperta la locale di Livorno Ferrari, la prima struttura di ‘ndrangheta individuata al di fuori del territorio metropolitano di Torino. Nel 2016 venne individuata anche una seconda locale, quella di Santhià, a conclusione dell’operazione “Alto Piemonte”[25].

Casi emblematici

'ndrangheta a Bardonecchia

Un caso che testimonia la quasi trentennale presenza della criminalità organizzata in Piemonte è lo scioglimento dell’amministrazione di Bardonecchia nel 1995, a causa della presenza di soggetti riconducibili alle organizzazioni mafiose in Consiglio comunale[26].

Si tratta di un piccolo comune dell’alta Val di Susa che costituisce un famoso centro sciistico e rappresenta il primo Comune sciolto per infiltrazioni mafiose al di fuori delle tre storiche regioni di nascita del fenomeno mafioso.

Lo scioglimento del consiglio comunale, insieme all’arresto del sindaco, fu la conseguenza delle indagini della magistratura sui rapporti tra funzionari locali, imprese edili e alcuni pregiudicati di origine calabrese. In particolare, l’inchiesta ebbe come oggetto un caso di speculazione immobiliare chiamata "Campo Smith", in cui erano in corso i lavori di edificazione di un complesso residenziale e alberghiero. Al centro dell'indagine vi era il gruppo criminale guidato da Rocco Lo Presti, boss originario di Gioiosa Jonica in provincia di Reggio Calabria, il quale esercitava il controllo della manodopera meridionale e del mercato dell'edilizia in Val di Susa, dove era stato destinato al soggiorno obbligato nel 1952[27].

Il caso di Bardonecchia mise in luce come l'espansione del fenomeno mafioso nelle aree più periferiche del Piemonte fosse avvenuto attraverso il controllo della manodopera meridionale nel campo dell'edilizia. La presenza di un "racket delle braccia" tra gli immigrati meridionali era evidente già alla fine degli anni Sessanta nei cantieri edili della periferia di Torino e della Val di Susa. In quei luoghi si individuarono figure di imprenditori "venuti su dal nulla", tra i quali spiccarono alcuni pregiudicati calabresi come Rocco Lo Presti e suo cugino Francesco Mazzaferro.

Il loro potere nacque dal controllo del mercato del lavoro locale, poiché in quel modo diventarono imprenditori della protezione e si posero come garanti dell'ordine sociale: offrirono tutele e risolsero conflitti, fino a diventare i protettori degli immigrati meridionali contro l'ostilità dei piemontesi ma anche i protettori dei piemontesi stessi contro le "irruenze" di alcuni meridionali. Il racket della protezione prevedeva l’uso della violenza qualora fosse necessario, con l'eliminazione fisica di chi non si fosse adeguato al sistema criminale. In particolare, il primo omicidio di tipo mafioso che si registrò nella zona risale al 1969. A metà degli anni Novanta si tornò a parlare di Bardonecchia e venne posto l’accento anche sulla capacità di Lo Presti di esercitare un peso decisivo in occasione delle elezioni, grazie a un cospicuo pacchetto di voti dei compaesani calabresi[28].

'ndrangheta nel Canavese

Anche nella zona del Canavese, nell’aprile del 2012, si assistette allo scioglimento dell’amministrazione comunale di Rivarolo Canavese per infiltrazione mafiosa[29].

Con riferimento all’intera area del Canavese, a partire dagli anni Settanta, si scoprì l’esistenza di un racket della manodopera meridionale nel settore delle costruzioni. Numerosi pregiudicati, per la maggior parte di origine calabrese, si stabilirono nel Canavese e tentarono di controllare il settore edile. Tale tentativo fu segnalato da diversi incendi che colpirono le imprese che operavano nel settore: l'obiettivo era ottenere il pagamento della protezione o guadagnare fette di mercato. Si verificarono anche molti tentativi di infiltrazione nella politica locale, passando così dallo sfruttamento della manodopera al controllo dei voti.

A Cuorgnè, nell’alto Canavese, due modesti muratori come Giovanni Iaria e Luigi De Stefano, giunti in Piemonte tra gli anni Sessanta e Settanta, furono capaci in poco tempo di diventare imprenditori di successo nel settore edile, sfruttando a proprio vantaggio manodopera a basso costo, risoluzione delle controversie e la disponibilità immediata di capitali[30].

In quest’area del Piemonte, dagli anni Settanta, la ‘ndrangheta svolse diverse attività illegali: sequestri di persona, gestione di bische clandestine, usura, racket delle braccia, estorsioni e omicidi. In particolare, in un contesto di benessere diffuso come quello del Canavese di quel periodo, un ruolo di primo piano fu occupato dal traffico di stupefacenti di cui in quegli anni è protagonista la famiglia Agresta, insediatasi nel comune di Volpiano. In seguito gli Agresta vennero affiancati dai Marando, giunti nel Canavese negli anni Ottanta. Negli anni Novanta, le attività delle famiglie Agresta-Marando furono contrastate in modo significativo dall’azione delle forze dell’ordine ma ciononostante continuarono ad accumulare capitali dal narcotraffico, creando così una riserva di liquidi che venne reinvestita nell'economia legale o nell'acquisto di immobili in Piemonte e in altre regioni[31].

'ndrangheta in Val d’Ossola

Un altro caso significativo è quello della Val d’Ossola. In questa zona si scoprì negli anni Ottanta l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta che contava 40-50 affiliati. Qui l’organizzazione criminale riuscì a fare eleggere due propri esponenti nel consiglio comunale di Domodossola e a farli nominare assessori al Commercio e ai Lavori pubblici[32].

Nella zona si contarono molti attentati dinamitardi e incendi dolosi nei confronti di imprese commerciali e night club: si trattava di azioni volte ad applicare il meccanismo dell’estorsione-protezione. A queste si aggiungevano l’usura e il traffico di armi, reperite in Svizzera e poi trasferite al Sud in cambio di droga.

Oltre all’interesse per le attività economiche, la criminalità organizzata fu in grado anche di condizionare l’attività politica del canavese. In particolare, verso la metà degli anni Ottanta, i gruppi criminali riuscirono a condizionare la sezione locale del Partito Socialista Italiano attraverso l’inserimento di alcuni esponenti della ‘ndrangheta nel partito e il tesseramento di soggetti per lo più di origine calabrese. In questo modo, la ‘ndrangheta riuscì ad ottenere il predominio della sezione, controllando l'esercizio del voto nelle elezioni amministrative, come accadde in Val di Susa e in alcuni comuni del Canavese[33].

'ndrangheta a Leinì

A seguito dell’operazione Minotauro, nel marzo 2012 venne sciolta per infiltrazione mafiosa l’amministrazione locale di Leinì, piccolo centro a Nord di Torino[34]. Vennero accertati infatti rapporti strettissimi di complicità e di collusione tra politici, amministratori, professionisti, imprenditori e mafiosi.

Gli incontri tra mafiosi e soggetti non mafiosi avevano l’obiettivo di raggiungere accordi reciprocamente vantaggiosi, senza tuttavia ricorrere a forme di intimidazione o ricatto. Lo scambio prevedeva che la politica attribuisse permessi e concessioni per lavori di edilizia pubblica, assegnati attraverso procedure "pilotate" a determinate imprese; in cambio i mafiosi garantivano pacchetti di voti ai politici collusi.

La figura cardine di questo tipo di scambi era Nevio Coral, imprenditore e politico di origine veneta. Coral era stato sindaco di Leinì tra il 1994 e il 2005, per poi essere sostituito dal figlio Ivano, eletto sindaco per due mandati fino allo scioglimento del comune. Coral nel 1998 ha fondato la Provana S.p.A, una società controllata del Comune di Leinì e dedicata alla gestione dei servizi pubblici sul territorio. La società affidava incarichi e lavori a imprese scelte in maniera discrezionale e si sottraeva ai controlli previsti per gli enti pubblici, favorendo così i gruppi criminali. Ma non erano i soli mafiosi a beneficiare dell’esistenza della Provana S.p.A.: anche imprenditori e professionisti non legati alla criminalità organizzata riuscirono a trarre importanti vantaggi. Gli stessi Nevio e Ivano Coral dovevano le loro carriere politiche a questo reticolo di relazioni clientelari. Proprio a causa del modo spregiudicato in cui aveva gestito le finanze pubbliche, Nevio Coral si guadagnò il titolo di re di Leinì[35].

Le organizzazioni mafiose attive in Piemonte

La ‘ndrangheta in Piemonte

La 'ndrangheta in Piemonte riveste un ruolo di primissimo piano nel panorama criminale della regione, anzitutto grazie alla sua struttura che le permette di mettere radici ovunque e alla capacità di raggiungere accordi con le altre organizzazioni criminali presenti sul territorio.

Le diverse indagini compiute negli anni hanno permesso di individuare nel capoluogo piemontese e nella sua provincia l’operatività di diverse strutture criminali. Dalle prime cellule di ‘ndrangheta si è giunti con il tempo alla costituzione di vere e proprie locali. Le diverse inchieste ne hanno individuate ben 15[36].

Locali di 'ndrangheta in provincia di Torino

Complessivamente, nella città e nella provincia di Torino sono state individuate 10 locali di ‘ndrangheta[37].

  1. Locale di Natile di Careri (Torino città): nota anche come locale di San Francesco al Campo, è stata costituito dai Cua-Ietto-Pipicella di Natile di Careri unitamente a esponenti delle ‘ndrine Cataldo di Locri, Pelle di San Luca e Carrozza di Roccella Ionica;
  2. Locale di Siderno (Torino città): è stata fondata dai Commisso di Siderno e da alcuni elementi dei Cordì di Locri;
  3. Locale di Cuorgnè: creata da esponenti delle 'ndrine dei Bruzzese (originari di Grotteria), dei Callà (originari di Mammola), degli Ursino-Scali (originari di Gioiosa Jonica) e dei Casile-Rodà (originari di Condofuri;
  4. Locale di Volpiano: fondata dai Barbaro e da alcuni affiliati al cartello Trimboli-Marando-Agresta di Platì;
  5. Locale di Rivoli: espressione delle consorterie di Cirella di Platì e della ‘ndrina Romeo di San Luca;
  6. Locale di San Giusto Canavese: creata dagli Spagnolo-Varacalli di Ciminà e Cirella di Platì, con elementi delle ‘ndrine Ursino-Scali di Gioiosa Ionica e Raso-Albanese di San Giorgio Morgeto;
  7. Locale di Chivasso: costituita dai Gioffrè-Santaiti, dai Serraino di Reggio Calabria e Cardeto, dai Pesce-Bellocco di Rosarno e dai Tassone di Cassari di Nordipace;
  8. Locale di Moncalieri: creata dagli Ursino di Gioiosa Ionica, unitamente ad alcuni affiliati agli Ursino-Scali di Gioiosa Ionica e agli Aquino-Coluccio di Marina di Gioiosa Ionica;
  9. Locale di Giaveno: fondata dai Bellocco-Pisano e da esponenti della famiglia palermitana Magnis;
  10. Locale di San Mauro Torinese: espressione dei Crea-Simonetti, originari di Stilo, in provincia di Reggio Calabria.

Locali di ‘ndrangheta in provincia di Asti

Nell'astigiano è stata scoperta un’unica locale di ‘ndrangheta, quella di Asti[38], creata su impulso delle 'ndrine Emma, Stambè e Catarisano.

Locali di ‘ndrangheta in provincia di Vercelli

Nel vercellese sono state individuate due locali di ‘ndrangheta ma nessuna delle due nella città di Vercelli[39]:

  1. Locale di Santhià: espressione della ‘ndrina Raso-Gullace-Albanese;
  2. Locale di Livorno Ferraris: espressione dei Commisso e delle consorterie vibonesi di Sorianello e Nardodipace.

Locali di ‘ndrangheta in provincia di Cuneo

Anche in provincia di Cuneo sono state individuate due locali di cui nessuna è localizzata nella città di Cuneo[40]:

  1. Locale di Bra: riconducibile alla 'ndrina dei Luppino di Sant’Eufemia di Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria;
  2. Locale del basso Piemonte: insistente prevalentemente su Alba, Sommariva del Bosco e Novi Ligure ma presente anche sulla provincia di Asti.

Cosa Nostra in Piemonte

Nonostante la predominanza sul territorio dei sodalizi calabresi, la Regione è anche teatro di attività criminose di altri gruppi delinquenziali riconducibili a Cosa Nostra. Tra le due forme di crimine organizzato, tuttavia, sussiste un rapporto di condivisa e reciproca accettazione[41].

Note

  1. DIA (2022). Relazione I semestre 2021, p. XV
  2. DIA, Relazione I semestre 2019, p. 930 DNAA, (2016). Relazione annuale sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel periodo compreso tra 1° luglio 2014 e 30 giugno 2015, pp. 306-325.
  3. Sciarrone Rocco, Ciccarello Elena, Donatiello Davide (2019). Le Mafie in Piemonte. Impariamo a conoscerle, Università degli Studi di Torino, Larco, pp. 22-23
  4. Ibidem
  5. Ibidem
  6. Ibidem
  7. Ibidem
  8. Ibidem
  9. Archivio la Repubblica, Coca, Colombiani e 'ndrangheta, 23 marzo 1995[1].
  10. Sciarrone, Ciccarello, Donatiello, op.cit., pp. 22-23
  11. DNAA (2020). Relazione sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel periodo compreso tra 1° luglio 2018 e 31 dicembre 2019, p. 30
  12. Sciarrone et al., op.cit., p. 20
  13. Ibidem
  14. Si veda al riguardo Farina, Pierpaolo (2021). Le affinità elettive. Il rapporto tra mafia e capitalismo in Lombardia, Tesi di dottorato, XXXIII Ciclo, 13 luglio.
  15. Sciarrone et al., op.cit. pp. 20-21
  16. Dalla Chiesa, Nando (2016). Passaggio a Nord. La colonizzazione mafiosa, Torino, Edizioni Gruppo Abele, pp. 134-135
  17. DNAA, (2016). Relazione annuale sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel periodo compreso tra 1° luglio 2014 e 30 giugno 2015, p. 930
  18. DIA (2020), Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, I semestre 2019, p. 319
  19. Ibidem
  20. DIA (2022), Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, I semestre 2021, p. XXII
  21. Ibidem
  22. Ivi,p. XII
  23. Ivi,p. XIII
  24. Ibidem
  25. Ivi, p. XIII-IVX
  26. DIA (2020),Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, I semestre 2019, p. 309
  27. Sciarrone Rocco, Ciccarello Elena, Donatiello Davide (2019). Le Mafie in Piemonte. Impariamo a conoscerle, Università degli Studi di Torino, Larco, pp.21-27
  28. Ivi, pp.25-27
  29. DIA (2020),Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, I semestre 2019, p. 309
  30. Sciarrone Rocco, Ciccarello Elena, Donatiello Davide (2019). Le Mafie in Piemonte. Impariamo a conoscerle, Università degli Studi di Torino, Larco, pp.21-27
  31. Ibidem
  32. Ivi, pp. 28-29
  33. Ibidem
  34. DIA (2020),Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, I semestre 2019, p. 309
  35. Sciarrone Rocco, Ciccarello Elena, Donatiello Davide (2019). Le Mafie in Piemonte. Impariamo a conoscerle, Università degli Studi di Torino, Larco, pp. 32-34, pp. 52-55
  36. DIA (2022), Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, I semestre 2021, p. 264
  37. DIA (2022), Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, I semestre 2021, pp. 264-265
  38. Ivi, p.265
  39. Ibidem
  40. Ivi, pp.265-266
  41. Ibidem

Bibliografia

  • CROSS - Osservatorio sulla criminalità organizzata (2017). Quarto rapporto sulle aree settentrionali per la presidenza della commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso, Università degli Studi di Milano.
  • Dalla Chiesa, Nando (2016). Passaggio a Nord. La colonizzazione mafiosa, Torino, Edizioni Gruppo Abele.
  • DIA (2020). Relazione I semestre 2019, Roma.
  • DIA (2022). Relazione I semestre 2021, Roma.
  • DNAA (2016), Relazione annuale sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel periodo compreso tra 1° luglio 2014 e 30 giugno 2015, Roma.
  • DNAA (2020). Relazione sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafiosa nel periodo compreso tra 1° luglio 2018 e 31 dicembre 2019, Roma.
  • Sciarrone Rocco, Ciccarello Elena, Donatiello Davide (2019). Le Mafie in Piemonte. Impariamo a conoscerle, Università degli Studi di Torino, Larco, Fondazione Agnelli.