Voto di scambio politico-mafioso

Il voto di scambio politico-mafioso è un fenomeno criminale che si manifesta in occasione delle consultazioni elettorali quando un politico accetta il sostegno e i voti controllati da un'organizzazione mafiosa.

voto di scambio politico-mafioso

Rubricato all'art. 416-ter del Codice Penale italiano come "scambio elettorale politico-mafioso", fu introdotto come reato specifico nel 1992 all'indomani della strage di Capaci per tentare di colmare un vuoto normativo nella legislazione italiana e colpire in maniera più efficace il rapporto tra potere politico e potere mafioso che si struttura nella c.d. "zona grigia" in occasione delle consultazioni elettorali.

Fino a quel momento gli unici due reati in grado di sanzionare la contiguità tra politica e fenomeni criminali erano stati il «concorso esterno in associazione di tipo mafioso» e la «corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso». La prima forma della norma venne introdotta nel codice penale a seguito dell’art.11-ter del decreto legge 8 giugno 1992, n.306 (“Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”) e rimase in vigore fino alle successive modifiche rispettivamente del 2014 e 2019.

Storia e genesi della norma

L’impulso normativo dopo le stragi del 1992

 
La strage di Capaci

La norma nella sua originaria fattispecie contrastava e sanzionava, attraverso l’introduzione ex novo di una condotta penalmente rilevante, i collegamenti che si verificano in sede di competizione elettorale tra esponenti politici e affiliati in associazione di tipo mafioso. Il primo testo approvato statuiva:"La pena stabilita dal primo comma dell'articolo 416-bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416-bis in cambio della erogazione di denaro".

Come testimonia la data della pubblicazione del decreto legge con il quale la norma è entrata in vigore, la sua approvazione è avvenuta poco dopo la strage di Capaci del 23 maggio, nella quale persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, insieme agli uomini della scorta del primo; a seguito di quell’attentato lo Stato aggiornò il proprio ordinamento giuridico in tema di “legislazione antimafia”, creando maggiori istituti e strumenti nella lotta alla mafia, idonei a contrastarla anche in quelle tessiture politico-istituzionali che emersero in maniera sempre più evidente tra il 1992-1993.

Perché la necessità di un nuovo articolo?

L’idea di contrastare la contiguità politico-mafiosa con questa nuova disposizione nasceva in seguito alla presa di coscienza della necessità di separare la fattispecie dello scambio politico-mafioso da quelle precedentemente utilizzate per affrontare casi simili, quali il «concorso esterno in associazione mafiosa» e la «corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso»; la norma si concretizzò quindi nella possibilità di tracciare contorni ben definiti alle responsabilità penali derivanti dalle differenti modalità e dal livello di collusioni politico-mafiose.

La norma si rivolgeva esplicitamente a chi fosse candidato in competizioni elettorali, vale a dire a chiunque concorresse e contemporaneamente avesse ottenuto la promessa di voti mantenendo però sempre un legame di estraneità sotto ogni punto di vista con l’associazione mafiosa, così da differenziare la sua condotta e la relativa sanzione da quelle dei candidati affiliati all'organizzazione, oppure ai concorrenti esterni.

La prima modifica. La riforma del 2014

La riformulazione dell’art. 416-ter del Codice Penale venne recepita nel nostro ordinamento dall’art.1 della legge del 17 aprile 2014, n.62 (“Modifica dell'articolo 416-ter del codice penale, in materia di scambio elettorale politico-mafioso”). La necessità di una modifica si ravvisava a seguito delle contraddittorie interpretazioni fornite dalla giurisprudenza sull’applicabilità della norma, indirizzate a ridurre l’ambito di applicazione del “concorso esterno”, il cui utilizzo aveva subito un notevole incremento a causa della difficoltà di verifica in sede probatoria delle controprestazioni politiche in solo denaro come statuito dalla norma in esame, così da restituire quel carattere di “specificità” al reato di scambio elettorale politico-mafioso.

L’idea dominante che portò alla formulazione di questa modifica rilevava sul fatto che il politico che si fosse accordato con un'organizzazione mafiosa durante le campagne elettorali non andasse perseguito a titolo di “concorso esterno” ma piuttosto con il reato introdotto dall’art 416-ter c.p., osservando che se il primo fosse stato idoneo a disciplinare gli accordi politici-mafiosi, non sarebbe stata necessaria l’introduzione di una nuova fattispecie.

La dottrina aveva avanzato la proposta di fissare i termini di una disposizione che era stata applicata dalla giurisprudenza a volte in maniera restrittiva, altre in maniera estensiva, stabilendo se il comportamento mafioso da parte del promissario che garantiva i voti dovesse considerarsi passibile di sanzione solo conseguentemente ad un suo effettivo utilizzo oppure anche soltanto in sede di stipula del patto.

Estensione della fattispecie e riduzione delle pene

La nuova formulazione dell’articolo prevedeva quindi che:

«Chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell'articolo 416-bis in cambio dell'erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La stessa pena si applica a chi promette di procurare voti con le modalità di cui al primo comma».

La prima sostanziale modifica riguardava la presenza di un’autonoma cornice edittale rispetto alla versione precedente che rimandava invece al regime sanzionatorio previsto nell’art.416-bis. La modifica recepiva tutte le indicazioni e le critiche della giurisprudenza sulla difficoltà di applicazione della norma, tipizzandone meglio i contorni: con la riforma è stato ampliato l’oggetto della promessa, non riferendosi più unicamente al “denaro” ma comprendendo con essa “qualsiasi altra utilità”, essendo noto che negli accordi collusivi tra politici e mafiosi la contropartita offerta dai primi non consiste in genere nell’erogazione di denaro (circostanza, d’altronde, difficile da provare); si fissava inoltre la rilevanza penale del reato alla semplice “promessa dell’erogazione”, in quanto lo scambio di promesse era considerato il reale momento consumativo del reato stesso.

Le critiche alla riforma del 2014

La riforma del 2014 sollevò diverse polemiche e scontri ideologici che sono sconfinati anche al di fuori della discussione parlamentare.

L'allora Procuratore Aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri analizzò la norma con un’analisi ipotetica su un possibile imputato: “considerata la possibilità di essere giudicato con rito abbreviato (sconto di 1/3 di pena), la buona condotta in carcere (ogni anno 3 mesi in meno), dopo 2 anni, massimo 3 anni è fuori”. Inoltre, riducendo la cornice edittale inizialmente preventivata nelle precedenti discussioni parlamentari (min. 7, max 12 anni di carcere) al minimo di 4 anni e massimo 10 anni, ciò avrebbe comportato la possibilità per il reo di continuare l’attività nei pubblici uffici, una volta scontata la pena, anche a seguito di una condanna di 4 anni, dal momento che la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici consegue ad una condanna alla reclusione non inferiore nel minimo a 5 anni, producendo l’effetto di rendere maggiormente accettabile per il politico delinquere.

L'allora sostituto procuratore di Palermo Nino Di Matteo la definì invece un'occasione persa. Secondo il magistrato:

«Si sarebbe potuto e dovuto fare di meglio. Era molto più incisiva la prima versione uscita dal Senato che prevedeva una punibilità dell'accordo consapevole anche quando la parte politica si fosse limitata alla semplice promessa di una disponibilità futura. La diminuzione delle pene rispetto all'ipotesi originaria è un dato molto negativo, così com'è negativo che si verifichi una situazione per la quale lo scambio politico-elettorale e mafioso venga aprioristicamente considerato meno grave rispetto a qualsiasi altra condotta di appartenenza a Cosa Nostra [...]

Oggi l'ottantenne affiliato a un'organizzazione mafiosa ma magari non più operativo e completamente ai margini dell'attività criminale può essere condannato alla pena giustamente rigorosa al 416 bis. Un politico che consapevolmente stringe accordi con il mafioso in vista della sua elezione viene condannato con pena molto più lieve. Questo è frutto di un gravissimo pregiudizio culturale che avverte la pericolosità della mafia soltanto nell'ala militare, nel picciotto, nell'affiliato puro e ritiene invece meno grave i fenomeni di collusione tra mafia e politica che dovrebbero invece essere aggrediti. [...]

Evidentemente ancora non tutti hanno percepito, o vogliono percepire, che per fare un vero salto di qualità nella lotta contro le organizzazioni mafiose bisogna fare di tutto per reciderne i rapporti con la politica e le istituzioni in genere. Per questo considero la riforma del 416 ter un'ulteriore occasione persa per fare quel salto di qualità»[1].

Entrambi i magistrati sostenevano che fosse necessario aumentare anche la pena prevista per il reato di associazione mafiosa ex art. 416-bis, poiché il trattamento sanzionatorio così come configurato non sarebbe stato idoneo a perpetrare alcun effetto deterrente nei confronti della capacità a delinquere del mafioso. A differenza loro, Franco Roberti, all’epoca Procuratore Nazionale Antimafia, riteneva invece che la norma fosse «perfetta»[2].

La seconda riforma del 2019

I contorni del reato vennero ulteriormente riformato cinque anni dopo, con la legge n. 43 del 14 maggio 2019 ("Modifica all’articolo 416-ter del codice penale in materia di voto di scambio politico-mafioso"), entrata in vigore il successivo 11 giugno. La nuova formulazione statuisce che:

«Chiunque accetta, direttamente o a mezzo di intermediari, la promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all'articolo 416-bis o mediante le modalità di cui al terzo comma dell'articolo 416-bis in cambio dell'erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell'associazione mafiosa è punito con la pena stabilita nel primo comma dell'articolo 416-bis. La stessa pena si applica a chi promette, direttamente o a mezzo di intermediari, di procurare voti nei casi di cui al primo comma. Se colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell'accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale, si applica la pena prevista dal primo comma dell'articolo 416-bis aumentata della metà. In caso di condanna per i reati di cui al presente articolo, consegue sempre l'interdizione perpetua dai pubblici uffici».

La norma vigente introduce come soggetti incriminati nella fattispecie non più unicamente i rappresentanti politici che concorrono in competizioni elettorali, ma anche gli “intermediari” che assolvono la funzione di tramite tra l’esponente-candidato e le associazioni mafiose. La condotta sanzionata, in linea con la precedente formulazione, rimane quella della mera disponibilità a sottostare a dei patti di scambio per gli interessi e le esigenze degli affiliati mafiosi.

La pena prevista è la stessa proposta dall’art 416 bis c.p., parificando di fatto a livello di disvalore la condotta per meri fini elettorali e quella per fini associativi. L’elemento di novità riguarda l’aumento di pena della metà nel caso in cui la coartazione mafiosa abbia effetto al punto che il candidato politico venga poi effettivamente eletto. Tuttavia le difficoltà in sede probatoria di accertare l’influenza mafiosa sono molteplici poiché si scontrano con l’esigenza di segretezza del voto e la necessità di provare oltre ogni ragionevole dubbio l’incidenza del sostegno mafioso sul risultato elettorale. La pena aggravata supera nel massimo anche quella prevista dall’art. 416 bis.

Inoltre viene prevista un’ulteriore pena accessoria, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, mancante nelle prime due formulazioni: questa punisce l’asservimento delle pubbliche funzioni ad associazioni mafiose[3].

La giurisprudenza sulla norma

Origine della fattispecie "scambio elettorale politico-mafioso"

L’art. 416-ter venne inserito nel corpo normativo del codice penale in concomitanza con la modifica dell’art.416-bis sulle associazioni di tipo mafioso, introdotto dall’art.11-bis del decreto legge 8 giugno 1992, n.306 (“Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”), secondo cui il nuovo testo disponeva l’aggiunta delle seguenti parole al terzo comma: "ovvero al fine di impedire o ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali". Il reato di scambio politico-mafioso cita testualmente una “promessa di voti” contenuta nel terzo comma dell’art.416-bis, di cui però in quest’ultimo non viene fatta alcuna menzione.

Attraverso riscontri di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, per colmare le lacune di una formulazione non abbastanza precisa, è stata proposta la seguente distinzione: secondo il legislatore, la “promessa di voti prevista al terzo comma” dell’art.416-bis c.p. è quella che intercorre a seguito dell’accordo tra candidato estraneo e associati mafiosi, per cui voti interessati non sono unicamente quelli di questi ultimi ma si estendono anche alla promessa di voti altrui, procurati mediante le tecniche di coercizione del metodo mafioso; se tale promessa di voti è stata ottenuta tramite l’offerta di qualunque utilità differente dall’offerta di denaro, il candidato risponderà dei due reati previsti dagli artt. 96 e 97 del D.P.R. 361/1957, rispettivamente quello di corruzione e coercizione elettorale, ex art.416-bis c.p., se invece il patto con il sodalizio mafioso per il procacciamento del voto degli affiliati e la coercizione del voto altrui sia stato stipulato dando o offrendo un’erogazione di denaro, il candidato sarà punito dalla norma speciale dell’art. 416-ter, che si inquadra quindi come fattispecie monosoggettiva[4].

Inoltre, la funzionalità della norma è ravvisabile dal punto di vista dell’anticipazione dell’intervento penale, poiché per la sua applicazione è sufficiente provare che il politico abbia accettato dal mafioso la promessa di voti mentre non è necessario verificare che tale promessa si sia poi tramutata in un risultato concreto tale da aver influito sulla volontà degli elettori[5]

I beni giuridici tutelati

L’evidente obiettivo della norma posta in essere dal legislatore è quello di spezzare ed intercettare le collusioni politico-mafiose nel loro momento genetico, quello della formazione primaria. Nel corso dei decenni, parte della politica riservava alle associazioni criminali asservimento e favori in prossimità di tornate elettorali, in cui si stabiliva che ad un impegno delle organizzazioni mafiose nel procacciare voti con metodi e strumenti di pressione sarebbero corrisposti servigi da parte della politica.

Il reato viene definito plurioffensivo poiché il bene giuridico tutelato non si limita al solo ordine pubblico ma prevede che insieme ad essi siano tutelati il diritto di voto, la libertà di autodeterminazione e il principio democratico che regge la Repubblica, ossia la capacità di esercitare il voto liberamente ed autonomamente insieme al corretto ed imparziale funzionamento della Pubblica Amministrazione.

Obiettivo: replicare la specificità della legge “Rognoni-La Torre”

L’esigenza che il legislatore fin dalla prima introduzione di questa norma, e anche con le correzioni delle successive modifiche, è stata quella di riproporre lo stesso grado di specificità della legge “Rognoni-La Torre”, cercando di costruire una fattispecie il più possibile “determinata”, così da poter lasciare il minimo spazio di discrezionalità per i giudici in sede applicativa e adempiendo quella funzione di prevenzione necessaria in un settore, come quello politico, dove si era registrato un alto condizionamento criminale.

La Corte di Cassazione e i problemi applicativi della prima normativa

Come già riportato precedentemente, le sentenze della corte di Cassazione sono risultate utili per tracciare in maniera più precisa la differenza tra la fattispecie di reato prevista dall’art. 416-ter c.p. e i reati di corruzione e coercizione elettorale.

La sentenza Cassata del 2003

La sentenza Cassata, nel tentativo di fornire risposte più concrete all’applicabilità della norma, precisò che per la configurabilità del reato di cui all’art. 416-ter c.p. fosse necessario il sostegno di chi si serviva del metodo mafioso, ossia facendo ricorso all’intimidazione e alla prevaricazione mafiosa secondo le modalità dell’art 416-bis c.p., nel tentativo di procurarsi i voti promessi[6]; questo elemento sarebbe stato il vero discrimine tra l’introduzione della nuova fattispecie di reato e le due riportate precedentemente. Tuttavia, attraverso questo passaggio, la sentenza non esplicitava con sufficiente chiarezza se per “intimidazioni” si facesse riferimento ad esplicite manifestazioni criminose o se invece fosse sufficiente la “forza di intimidazione del vincolo associativo”, una carica intimidatoria immanente e alla base della struttura stessa del metodo mafioso.

La conclusione della sentenza sembrava propendere per la prima ipotesi dal momento che si affermava come:

«la sola qualità di mafioso rivestita da chi è stato interessato, previa consegna di denaro, da un candidato per appoggiare la campagna elettorale non è, di per sé sola, circostanza sufficiente per provare non solo la collusione tra il predetto candidato e l’organizzazione criminale di appartenenza, ma l’uso di metodi mafiosi per influenzare il corretto e libero svolgimento della competizione elettorale».

Questa iniziale tesi dottrinale alimentò ulteriormente le incertezze riguardanti il momento consumativo e gli elementi costitutivi del reato configurato dall’art. 416-ter c.p., lasciando che si affermasse in maniera mai troppo netta la previsione per cui per la configurabilità della fattispecie di reato fosse necessario un esplicito e manifesto ricorso alla coartazione sugli elettori da parte degli affiliati mafiosi.

Le critiche mosse a questa visione rilevavano in termini di ratio della norma: la finalità ultima si realizzava nel tentativo preventivo di sanzionare l’accordo politico-mafioso nel momento della formulazione delle reciproche promesse, escludendo l’effettiva realizzazione di queste, e punendo così la sola disponibilità dell’uomo politico a venire a patti con la consorteria mafiosa.

La sentenza Milella del 2004

La sentenza Milella, con cui la Corte di Cassazione annullò un’ordinanza del tribunale del riesame che aveva derubricato in corruzione elettorale l’originaria imputazione ex art. 416-ter c.p., ritenendo insufficiente la sola qualità di “mafioso” per la configurabilità del reato espresso dalla norma, tracciò una nuova direzione applicativa della disposizione:

«l’uso di modalità mafiose previsto dalla norma incriminatrice dell’art. 416-ter c.p. non richiede necessariamente, nello svolgimento della campagna elettorale, l’impiego di minacce, il ricorso a comportamenti violenti o comunque l’esternazione in forma cogente dell’indicazione di voto. Infatti, ciò che rileva è che la detta indicazione sia percepita all’esterno come proveniente dal “clan” e come tale sorretta dalla forza intimidatrice del vincolo associativo»[7].

Il contrasto della VI sezione penale sull'interpretazione della riforma del 2014

Nel 2014 in seno alla VI Sezione Penale della Cassazione erano emersi due distinti orientamenti: secondo la sentenza n. 36382 (Antinoro), depositata il 28 agosto 2014, la riforma del 17 aprile 2014 aveva ampliato l’ambito della controprestazione alle “altre utilità”, rendendo cosi punibile lo scambio anche quando la promessa andava ben oltre l’erogazione di una somma di denaro, e nel contempo apportò una modifica strutturale allo scambio delle promesse che, in virtù dell’espresso richiamo al III comma dell’art. 416 bis c.p., doveva necessariamente ricomprendere anche le modalità mafiose con cui i voti venivano procurati, non essendo più sufficiente provare l’esistenza di un accordo ma anche che esso prevedesse l’impegno del gruppo mafioso ad operare secondo le tipiche modalità previste dal richiamato III comma[8].

A distanza di poco più di 10 giorni dal deposito delle motivazioni della sentenza Antinoro, sempre la Sesta Sezione penale tornò sul tema con la sentenza n. 37374 (Polizzi), ribadendo in primo luogo la natura di reato di pericolo, fondata “sulla mera conclusione dell’accordo” ma soprattutto concentrò l’analisi su un elemento che la sentenza Antinoro aveva trascurato, ossia l'individuazione del protagonista qualificante dell’accordo: “la presenza di una associazione di stampo mafioso che si occupa anche del condizionamento del voto”, la cui “particolare qualità” va rigorosamente accertata e dimostrata.

Le due divergenti ricostruzioni della struttura della fattispecie ebbero inevitabili riflessi sul piano probatorio, in considerazione del fatto che, secondo l’orientamento accolto dalla sentenza Polizzi, le modalità esecutive dell’accordo non rientravano nella condotta tipica, quindi non occorreva provarle nella loro dimensione effettuale, potendo anzi costituire un post factum non punibile oppure integrare ulteriori autonome ipotesi di reato (dalla coartazione elettorale, passando per la violenza privata sino all’estorsione o all’associazione mafiosa): sarebbe stato sufficiente accertare che l’indicazione di voto fosse stata percepita all’esterno come proveniente dal gruppo mafioso che esercitava il suo condizionamento sul territorio, dato che la ricerca dei voti costituiva espressione della vita e dell’operato dell’organizzazione, della sua capacità di “assoggettamento di aree territoriali e corpi sociali alla forza del vincolo mafioso”.

La sentenza Annunziata

Ad alimentare ulteriormente il dibattito in merito al ruolo che occupava il metodo mafioso nell’art. 416-ter, dopo la riforma 2014, fu la sentenza Annunziata depositata, il 17 luglio 2015. L'interpretazione della Corte si concentrava in particolare su due elementi: l’espresso richiamo alle “modalità di cui al terzo comma dell’art. 416 bis” e l’ambito soggettivo di riferimento previsto dal secondo comma dell’art. 416-ter.

Riguardo il primo requisito, ad avviso della Corte, l’uso per fini elettorali del metodo mafioso doveva necessariamente formare oggetto dell’accordo. Secondo questa impostazione,

«il patto elettorale illecito, per assumere valenza mafiosa e distinguersi dalle altre ipotesi di corruzione elettorale previste dal sistema, deve prevedere l’utilizzo della sopraffazione e della forza di intimidazione quali modalità di reperimento dei voti, non essendo sufficiente in sé il mero scambio contemplante la promessa di voti contro l’erogazione di denaro, in alcuni arresti da questa Corte ritenuto utile al fine per integrare l’ipotesi di reato in disamina».

Nel corso del ragionamento la Corte evidenziò più volte come la riforma del 2014 si ponesse in piena coerenza con l’orientamento giurisprudenziale maggioritario formatosi negli anni. Ecco perché

«attraverso l’esplicito riferimento alle “modalità” di cui all’art. 416 bis c.p., comma 3, e dunque al metodo mafioso per l’acquisizione del consenso elettorale, è stata introdotta una novità linguistica nel tenore della norma di minimo contenuto, destinata a strutturare la fattispecie in termini ancora più compiuti e definiti, sempre coerenti, tuttavia, con la lettura più corretta che questa stessa Corte ha avuto modo di offrire già con riferimento al dato normativo previgente».

Tuttavia, la prova del metodo mafioso non richiedeva alcuna esplicita e specifica programmazione di atti di coartazione o intimidazione del libero esercizio del voto. Ciò che andava necessariamente accertato era la circostanza che l’organizzazione mafiosa promittente esistesse e fosse operativa sul territorio secondo le caratteristiche ontologiche descritte dall’art. 416 bis, e pertanto in grado di condizionare effettivamente la consultazione elettorale.

In secondo luogo, la sentenza in esame si soffermava sul profilo soggettivo dell’attuale art. 416-ter che al secondo comma incriminava chi “promette di procurare voti con le modalità indicate nel primo comma”. A differenza di quanto avveniva in passato, il legislatore del 2014 inserendo l’inedita disposizione volle creare uno stretto collegamento tra il profilo oggettivo e soggettivo della nuova fattispecie. Sulla base della locuzione contenuta al secondo comma era possibile operare una distinzione tra le ipotesi in cui la promessa di voti proviene dal soggetto appartenente all’organizzazione mafiosa da quella in cui il promittente sia un intermediario, estraneo alla cosca.

Nel caso dell'affiliato che agiva nell’interesse della associazione impegnandola a svolgere una campagna in favore del politico committente, la promessa di voti risultava intrinsecamente connotata da quella “mafiosità” richiesta dal primo comma dell’art. 416-ter; diversamente, nel caso in cui il patto fosse stato concluso con un estraneo all’organizzazione che si fosse impegnato per conto di questa “occorre una prova chiara ed immediata della pattuizione delle modalità del procacciamento cui risulta piegato l’illecito patto di scambio elettorale, non potendosene ricavare la presenza dal mero ruolo di interlocuzione riferito in precedenza esclusivamente all’organizzazione criminale".

Ad avviso della Corte, la mancata consapevolezza della “mafiosità” dell’organizzazione criminale invocata dal terzo promittente doveva essere compensata dall’accertamento rigoroso sulle specifiche modalità attraverso le quali si intendono raccogliere i voti in favore del candidato politico.

Ragionando in questo modo la sentenza Annunziata semrbò individuare un punto di convergenza tra gli orientamenti espressi nelle precedenti vicende Antinoro e Polizzi. Nondimeno però, la nuova impostazione aprì la strada ad ulteriori interrogativi in merito agli indici fattuali da utilizzare per accertare la matrice mafiosa dell’associazione per conto del quale l’accordo viene stipulato. Anche per questo motivo si rese necessaria la modifica del 2019.

Note

  1. Lorenzo Lamperti, Stato-mafia, parla Di Matteo: "Spero sia l'ultimo tentativo di spostare il processo", Affari Italiani, 18 aprile 2014.
  2. RaiNews24, Il procuratore antimafia Roberti: "Norma su voto di scambio perfetta", RaiNews.it, 3 aprile 2014[1].
  3. Per approfondire, si veda la Nota Breve del Servizio Studi del Senato della Repubblica[2].
  4. Giuliano Turone (2015). Il delitto di associazione mafiosa, Milano, Giuffré, cap. V, pp. 290-291.
  5. Giovanni Fiandaca (1993). "Riflessi penalistici del rapporto mafia-politica", in Foro Italiano, Vol. 116, No. 3 (marzo 1993), p.142
  6. Cass.,Sez. I, 25 marzo 2003 (dep. 26 giugno 2003), Cassata, CED-225864
  7. Cass.,Sez. I, 14 gennaio 2004 (dep. 30 gennaio 2004), Milella, CED-227476
  8. Calogero Gaetano Paci (2015). Il reato di voto di scambio politico mafioso alla prova di resistenza, Questione Giustizia, 22 ottobre[3].

Bibliografia

  • Fiandaca, Giovanni (1993). "Riflessi penalistici del rapporto mafia-politica", in Foro Italiano, Vol. 116, No. 3 (marzo 1993).
  • Passarelli, Tommaso (2021). La contiguità mafia-politica e l’art. 416-ter c.p., Cammino Diritto, 5 febbraio.
  • Turone, Giuliano (2015). Il delitto di associazione mafiosa. Milano, Giuffrè.