Gaetano Costa

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Gaetano Costa (Caltanissetta, 1° marzo 1916 – Palermo, 6 agosto 1980) è stato un magistrato italiano, ucciso da Cosa Nostra mentre ricopriva la carica di Procuratore Capo a Palermo.

Gaetano Costa

Biografia

Nato a Caltanissetta, dove studiò fino alla maturità, si laureò in Giurisprudenza all'Università di Palermo. Sin dal liceo aveva aderito al Partito Comunista d'Italia, ai tempi del fascismo clandestino. Nel 1940, a 26 anni, vinse il concorso in Magistratura, ma fu subito arruolato come Ufficiale dell'Aviazione durante la Seconda Guerra Mondiale, ottenendo due croci di guerra, per poi raggiungere la Val di Susa unendosi alla Resistenza Partigiana. Immesso in ruolo come giudice istruttore a Roma, chiese e ottenne il trasferimento a Caltanissetta nel 1944, dove rimase fino al 1978.

In quegli anni si occupò sistematicamente del fenomeno mafioso, con indagini sulla Banca Rurale di Mussomeli, la Banca Artigiana di San Cataldo, la filiale del Banco di Sicilia di Campofranco. Durante la visita a Caltanissetta della Commissione Parlamentare Antimafia, nel 1969, diede una lucida analisi della mafia che stava cambiando pelle e sugli appalti "solo formalmente regolari" nella pubblica amministrazione:

"Ormai non esiste più un certo tipo di attività mafiosa, quella tradizionale, quella che si concretizzava nei sequestri, nei danneggiamenti, negli incendi, nell'omicidio... Ora, quando dopo la riforma agraria è venuto meno il latifondo, c'è stata la suddivisione dei feudi, la campagna si è impoverita e non rende più; in queste condizioni è evidente che non c'è convenienza, non è più un affare andare a controllare una campagna per stabilire che un determinato ladruncolo si orienta verso un pascolo piuttosto che un altro. La mafia, quindi, ha abbandonato virtualmente la campagna, date queste mutate condizioni. Penso che il complesso dei problemi sia rappresentato dall'amministrazione e che esso vada esaminato più a fondo."[1]

La nomina a Procuratore Capo di Palermo

Nel gennaio 1978 fu nominato Procuratore capo di Palermo ma la reazione del “Palazzo” fu, in larga misura, negativa, tanto da far sì che si ritardasse la sua immissione in possesso sino al luglio di quell'anno perché il suo predecessore, Giovanni Pizzillo, si rifiutò di chiedere l’anticipato possesso. Insediatosi ad agosto, consapevole delle resistenze che avrebbe dovuto affrontare, dichiarò:

"Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d'inimicizia, d'interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite."

Come raccontato dal figlio, fino alla fine di Natale venne tenuto sotto controllo dal sostituto procuratore aggiunto Martorana, che filtrava tutto quello che arrivava sulla sua scrivania. Inizialmente cercò di evitare il filtro, poi si scontrò duramente con l'aggiunto e cominciarono gli attacchi contro di lui[2]. Per sapere quello su cui stavano lavorando i suoi sostituti, faceva quelle che lui chiamava "perquisizioni domiciliari": si alzava dalla sedia e si faceva un giro nelle loro stanze, sbirciando tra le carte.

L'indagine sul traffico di droga degli Spatola-Inzerillo

Nei primi mesi del suo lavoro, Costa strinse un forte sodalizio con il capo dell'Ufficio Istruzione Rocco Chinnici: i due si incontravano spesso nell'ascensore di servizio per discutere delle indagini lontani da occhi e orecchie indiscrete[3].

In quel periodo le indagini si stavano orientando sul filone della mafia italo-americana, il traffico di droga USA-Sicilia e le famiglie palermitane degli Spatola, dei Gambino e degli Inzerillo. Le indagini di Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio 1979, poi proseguite dal capitano Emanuele Basile di Monreale, lambirono anche gli affari del Clan dei Corleonesi. Nel marzo 1980 erano stati ritrovati a Milano 40 kg di eroina purissima nelle custodie dei dischi di Esmeralda Ferrara, una cantante pop di Bagheria, che andava avanti e indietro dagli USA proprio per conto della famiglia dei Gambino.

Costa voleva individuare gli assetti societari e bancari per risalire ai soci occulti delle famiglie mafiose e scoprire i meccanismi di riciclaggio dei narcodollari. Il 16 aprile Basile consegnò a Paolo Borsellino un rapporto, soprannominato "rapporto dei 55", che sarebbe stato alla base degli arresti del 5 maggio 1980, all'indomani dell'uccisione proprio del capitano Basile.

Il 9 maggio Costa convocò nel suo ufficio tutti i sostituti per convalidare gli arresti, ma alla fine fu costretto a rompere la consolidata prassi dell'unanimità e firmò da solo gli ordini di cattura. Gli avvocati dei mafiosi restarono di sasso e un paio di sostituti, per difendersi, scaricarono tutta la colpa su Costa, come disse poi la moglie Rita Bartoli in un'intervista al Corriere della Sera il 14 settembre 1983.

L'omicidio

Il 6 agosto Gaetano Costa fu sfigurato verso le 19:30 dai proiettili di un killer solitario che lo aveva seguito da casa fin davanti a un'edicola libreria nella centralissima via Cavour. Il giorno dopo sarebbe dovuto partire per le vacanze per le Isole Eolie con la famiglia. Proprio il giorno dopo avrebbe avuto la scorta, fino a quel momento mai concessa.

Ai suoi funerali parteciparono pochissimi magistrati, a riprova dell'isolamento in cui aveva vissuto fino al giorno della sua morte.

Indagini e Processi

La morte di Gaetano Costa resta senza colpevoli, benché la Corte d'Assise di Catania individuò l'origine nella zona grigia mafia-economia-appalti. Ufficialmente quindi l'omicidio Costa non ha ad oggi né mandanti né esecutori condannati.

Il 4 agosto, due giorni prima dell'omicidio, i poliziotti avevano fermato sotto l'abitazione di Costa Totuccio Inzerillo, giovane trentaduenne appartenente a una delle famiglie colpite dagli ordini di cattura firmati dal Procuratore Capo. Il giovane, che pure aveva insospettito gli agenti, venne subito rilasciato. Una settimana dopo l'omicidio Costa si presentò spontaneamente in Procura accompagnato dal suo avvocato, si sottopose all'esame del guanto di paraffina ma venne rilasciato prima dell'esito dell'esame. Tre anni dopo la magistratura catanese spiccò contro di lui un mandato di cattura per omicidio, senza però che potesse essere eseguito.

Ciononostante, negli anni diversi collaboratori di giustizia (da Tommaso Buscetta a Francesco Marino Mannoia, da Giovanni Brusca a Francesco DI Carlo) indicarono la matrice mafiosa del delitto, sostenendo che l'omicidio fosse stato ordinato da Salvatore Inzerillo per dimostrare all'interno di Cosa Nostra la supremazia delle famiglie palermitane rispetto ai Corleonesi, che agli albori della Seconda Guerra di Mafia uccidevano senza l'autorizzazione della Commissione.

Note

  1. Saverio Lodato, Quarant'anni di mafia, p. 41
  2. Giuseppe Alberto Falci, “Ostacolò mio padre nella lotta alla mafia, adesso lo premiano” - Intervista a Michele Costa, Linkiesta.it, 5 dicembre 2012
  3. Ivi, p. 43

Bibliografia

  • Archivio Storico de "la Repubblica"
  • Saverio Lodato, Quarant'anni di mafia, Milano, BUR, 2013