Rapporto Sangiorgi

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Le Relazioni del Questore Sangiorgi (generalmente note come "Rapporto Sangiorgi") rappresentano il primo rapporto di polizia sulla mafia siciliana. Scritte in un arco di tempo che va dall'8 novembre 1898 al 19 febbraio 1900, sono conservate all'Archivio di Stato, dove però ne mancano sette, dalla n.17 alla n.23. Pubblicate per la prima volta senza allegati da Salvatore Lupo ne "Il tenebroso sodalizio. Il primo rapporto di polizia sulla mafia siciliana", ora sono disponibili integralmente nel libro di Umberto Santino "La mafia dimenticata".

Il contenuto delle relazioni

Sangiorgi utilizzò le risultanze delle indagini precedenti, inserendole in un quadro più completo. Per il nuovo questore la mafia è un'associazione criminale organizzata in sezioni, divisa in gruppi e unificata da un comando centrale. I termini adoperati, assieme a «mafia», sono: «la criminosa associazione», «la tenebrosa congrega», «il tenebroso sodalizio»[1]. Le attività vennero ricostruite attraverso una minuziosa documentazione di eventi delittuosi: omicidi, estorsioni, furti e rapine, imposizione di guardiani, fabbricazione e spaccio di denaro falso.

Nella prima relazione, datata 8 novembre 1898, furono indicati otto gruppi mafiosi in un'area che andava dalla Piana dei Colli all'Olivella, cioè dalle campagne della periferia al centro della città di Palermo. Il quadro tracciato risultò valido fino al dicembre 1896, prima di alcuni eventi delittuosi che comportarono conflitti all'interno dell'organizzazione.

I gruppi, con i rispettivi capi, erano:

Gruppo Capo-rione Vice
Piana dei Colli Giuseppe Biondo (possidente) Gaetano Cinà (possidente)
Acquasanta Tommaso D'Aleo (giardiniere) Ignazio D'Aleo (giardiniere)
Falde Giuseppe Gandolfo (guardiano) Rosolino Gandolfo (trafficante)
Malaspina Francesco Siino (commerciante di agrumi) Giuseppe Lombardo (industrioso)
Uditore Alfonso Siino (capraio) Filippo Siino (guardiano)
Perpignano Salvatore Bonura Pietro Russo (bettoliere)
Olivuzza Francesco Noto (trafficante) Pietro Noto (guardiano)

L’organizzazione aveva regole formalmente democratiche: i capi-rione venivano eletti dagli affiliati, mentre il capo supremo dai capi-rione. Gli affiliati avevano l’obbligo di obbedire ciecamente ai capi e di prestarsi ad ogni comando, di rispettare il segreto e versare parte dei proventi da attività delittuose.

Lo scopo dell'associazione era quello imporre ai proprietari dei fondi "i castaldi, i guardiani, la mano d'opera, le gabelle, i prezzi per la vendita degli agrumi e degli altri prodotti del suolo"; chi non accettava le imposizioni, subiva ritorsioni. Le richieste pecuniarie venivano solitamente richieste con lettere minatorie. Si trattava dunque di un esercizio della «signoria territoriale», tendenzialmente o effettualmente totalitario.

Tra le principali fonti di accumulazione vi erano rapine e abigeati, ma anche furti minori. Le varie attività concorrevano a formare un fondo comune che serviva a soccorrere le famiglie di detenuti e latitanti, a pagare avvocati e testimoni compiacenti, a procurare un reddito ad affiliati senza lavoro o costretti a stare in casa per timore di vendette.

Il capo regionale o supremo dell'epoca era Francesco Siino, capo-rione del gruppo Malaspina e commerciante di agrumi, fratello di Alfonso, capo-rione del gruppo Uditore, di mestiere capraio.

In un rapporto datato 18 novembre 1898 dell'ufficiale di polizia Giovanni Longo, reggente la sezione Molo occidentale, e del gribadiere delle guardie di città Rosario Arilotta, si legge:

«[...] in seguito ad accuratissime investigazioni eseguite e per confidenze ricevute da persone degne di fede, le quali non intendono assolutamente essere nominate per tema di gravi danni nelle loro proprietà o nelle loro persone, ci è risultato che da parecchi anni nelle contrade Uditore, Passo di Rigano, Petrazzi, S. Lorenzo e dintorni esiste una vastissima associazione a scopo di lucro e con propositi di vendetta qualora le richieste dei componenti di essa non venissero subito soddisfatti [sic].

Tale associazione ha estese diramazioni non solo nelle borgate limitrofe a questa Città, ma anche in vari comuni di questa e di altre provincie, come Borgetto, Montelepre, S. Giuseppe Jato e Camporeale, in quelli cioè dove maggiormente si perpetrano i furti di abigio. Ed infatti ci è stato assicurato che allorquando si consumano nei succitati comuni furti del genere gli animali rubati vengono tosto spediti nelle borgate sopracitate e diretti ai componenti l’associazione, i quali curano tosto di venderli, rimettendo parte del ricavato agli esecutori materiali del furto e trattenendo l’altra parte per loro, come retribuzione del lavoro eseguito. Uguale sistema si tiene poi per gli animali rubati in questo territorio, si rimettono, cioè, agli amici dei comuni sopracennati per eseguire quanto sopra si è detto.

Secondo le risultanze delle indagini, e le confidenziali assicurazioni avute, il direttore generale della detta associazione si è al presente il troppo noto Giammona Antonino di Giuseppe di anni 70 circa, ora possidente, abitante in Passo di Rigano, il quale coadiuvato dai suoi due figli Giammona Giuseppe di anni 40 circa e Giammona Giovanni di anni 30 circa, dal proprio genero Cinà Gaetano fu Filippo, di anni 45 circa, abitante in S. Lorenzo nel fondo Manzo e da Bonura Salvatore di Giovanni, di anni 42 circa, abitante in via Perpignano, dirige le fila della criminosa associazione, dando istruzioni ai componenti della medesima sul modo come regolarsi nella preparazione dei reati, creando e stabilendo l’alibi onde assicurare l’impunità di coloro che consumano i reati stessi, qualora venissero indiziati dalle Autorità di P.S. e fossero arrestati, raccogliendo e somministrando alle famiglie degli arrestati i mezzi necessari al sostentamento di essi per il tempo in cui i medesimi sono privati della libertà, derimendo le questioni che possono sorgere fra i componenti l’associazione per divisione del bottino»[2].

Il quadro quindi non riguardava solo alcuni quartieri della città ma si estendeva oltre le mura urbane. La rappresentazione finale è quella di una mafia unitaria, frutto del collegamento sotto un'unica direzione delle associazioni presenti sul territorio, o almeno di quelle di cui si sono ricostruiti vicende, delitti, organigrammi. Si trattava quindi di qualcosa molto somigliante alla Cosa Nostra degli ultimi decenni, almeno per quanto riguarda la provincia di Palermo, dato che la struttura organizzativa era pressoché identica.

Gli allegati

Gli allegati alle relazioni rivestono un particolare interesse perché riportano le testimonianze di affiliati alle cosche che, ritenendosi in pericolo per i conflitti interni ai gruppi mafiosi, si rivolsero alla polizia, denunciando i loro nemici. Ancora più, però, interessanti sono le testimonianze di persone, in particolare alcune donne, che si rivolsero alla polizia per accusare quelli che ritenevano responsabili degli omicidi dei propri parenti, e che, malgrado le minacce, continuarono a testimoniare ai processi, ottenendo la condanna degli imputati.

Il processo

Il processo ai 51 imputati, di cui 6 latitanti, cominciò il 3 maggio 1901 e si svolse a Palermo nei locali della Corte d'assise straordinaria, dove si svolsero 24 udienze. Il processo si concluse il 1° giugno con 32 condanne e 19 assoluzioni. Ventisei condannati ricorsero in appello, ma il 15 ottobre 1901 la corte confermò le condanne, confermate successivamente anche in Cassazione.

Note

  1. Umberto Santino, La mafia dimenticata, Milano, Melampo editore, 2017, pagg. 297-301
  2. Sangiorgi, sesta relazione, 2 dicembre 1898, allegato 2

Bibliografia

  • Umberto Santino, La mafia dimenticata, Milano, Melampo, 2017