Operazione Aemilia

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Qui in Emilia l’associazione mafiosa si muove come imprenditoria, con modalità e tecniche diverse da come si muove in altri luoghi.
(Roberto Alfonso, ex Procuratore Capo di Bologna e della DDA dell'Emilia-Romagna)


L’operazione Aemilia è un’inchiesta coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna che ha portato all'arresto di 160 persone, di cui 117 in Emilia Romagna, accusate a vario titolo dei reati di associazione a delinquere di tipo mafioso, estorsione, usura, detenzione illegali di armi, reimpiego di capitali di illecita provenienza, emissione di fatture per operazioni inesistenti e altro. Al centro dell'inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta al Nord c’è la 'ndrina dei Grande Aracri di Cutro. A coordinare le indagini il Procuratore Capo di Bologna Roberto Alfonso e il Sostituto Procuratore Marco Mescolini, affiancato dal Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia Roberto Pennisi.

Antefatti

L'espansione della 'ndrangheta in Emilia

Antonio Dragone, capo della locale di Cutro, fu destinato al soggiorno obbligato a seguito di un decreto del tribunale di Catanzaro il 9 giugno 1982 a seguito di un decreto del tribunale di Catanzaro. Qui avviò un traffico di stupefacenti, un'attività di controllo di appalti edili e attività estorsive nei confronti di soggetti di origine crotonese, i quali, temendo ritorsioni sui familiari rimasti a Crotone si sottomettevano alle richieste del boss. In seguito all'arresto di Antonio Dragone, il comando dell’organizzazione passò al nipote Raffaele Dragone, arrestato poi nel 1993 per traffico di stupefacenti. Il vuoto di potere emerso a seguito degli arresti di Antonio Dragone e del nipote Raffaele portò all'ascesa di personaggi fino ad allora rimasti in secondo piano, tra cui Nicolino Grande Aracri detto “mano di gomma”, il quale riuscì a crearsi uno spazio autonomo nella gestione del traffico di stupefacenti e costituì cellule di 'ndrangheta a Piacenza e Cremona, dirette relativamente da Antonio Villirillo e Francesco Lamanna. L’arresto di Nicolino Grande Aracri nell'ambito dell’operazione Scacco Matto non ne compromise tuttavia l'ascesa. Il vuoto di potere venutosi a creare fu colmato da nuovi referenti con il compito di trasmettere agli affiliati le direttive di Nicolino dal carcere. Tra questi vi erano Nicolino Sarcone, Francesco Grande Aracri, fratello di Nicolino, e Giuseppina, moglie di Mauro Grande Aracri. Antonio Dragone una volta uscito dal carcere cercò, con l'aiuto degli Arena di Isola Capo Rizzuto, a quell'epoca contrapposti ai [1] alleati con i Grande Aracri, di riprendere il controllo della famiglia. La guerra tra i Dragone e Grande Aracri si concluse con l'uccisione di Antonio Dragone il 10 maggio 2004 a Cutro. «Da quel momento non ci fu più alcuna forma di contrapposizione ai Grande Aracri all’interno della cosca cutrese, sia in Calabria che in provincia di Reggio Emilia».[2]

Le attività di indagine sulla cellula emiliana

==== L’Indagine Grande Drago

L’indagine Grande Drago prese le mosse dall'operazione Scacco Matto condotta dalla DDA di Catanzaro. Nell'ambito di quest’ultima, che indagava le attività dei Grande Aracri, emersero le figure di Francesco Lamanna e Antonio Villirillo. L’indagine Grande Drago stabilì la presenza, nelle province di Piacenza, Cremona e Reggio, di unassociazione a delinquere di stampo mafioso costituente una ‘ndrina distaccata e dotata di propria autonomia, collegata con la cosca di Cutro facente capo a Nicolino Grande Aracri.[3]

L’Indagine Edilpiovra

L’indagine Edilpiovra dimostrò la presenza nella provincia di Reggio Emilia di un'autonoma organizzazione di stampo mafioso diretta dai fratelli Antonio e Francesco Grande Aracri, e alla quale avevano preso parte Nicolino Sarcone, Vincenzo Niutta e Marcello Muto. Il gruppo ‘ndranghetistico, sotto il controllo di Nicolino Grande Aracri, era volto a infiltrarsi nel tessuto economico della zona e raccogliere denaro tra gli imprenditori calabresi ivi trasferitisi, i quali in questo modo finanziarono la cosca.[4]

Il procedimento 15/2004 RNR (l'indagine Grande Drago tra Reggio Emilia e Catanzaro)

L’indagine fece emergere il rapporto intercorrente tra gli appartenenti alla cosca e gli imprenditori cutresi operanti nel reggiano. Il confine tra costrizione e compiacenza risultò sempre più labile. Emerse «la progressiva metamorfosi del rapporto tra organizzazione criminale da un lato e imprenditoria di derivazione cutrese che, muovendo da una posizione di contrapposizione, coessenziale al rapporto estorsivo, diventa di cointeressenza, declinandosi in termini di consapevole e volontaria sovvenzione economica della cosca in cambio di un utile (nel caso delle fatture per operazioni inesistenti) o di una protezione a tutto campo, anche nei confronti dei terzi[5]

L'indagine Pandora

Nell'ambito dell'indagine emerse il cd. sistema delle false fatturazioni. Le vittime, che erano imprenditori, tra cui Giuseppe e Antonio Giglio, Antonio Muto e Palmo Vertinelli, in nome della tranquillità e della sicurezza dei loro affari, versarono regolarmente somme alle famiglie, divenendo finanziatori delle ‘ndrine. Questo sistema consentì agli imprenditori di recuperare le somme estorte scaricando l’IVA, evitare il ricorso a indebitamenti bancari e crearsi una prova documentale del loro rapporto economico con gli affiliati. Le vittime divennero così complici. Secondo gli inquirenti gli imprenditori «sembravano talvolta assumere la veste di collaboratori o associati alle cosche, dalle quali non solo ricavano finanziamenti alle attività d’impresa ma, giovandosi del loro scudo protettivo, le coinvolgevano in nuovi rapporti di collaborazione imprenditoriale che si traducevano in opportunità di reinvestimento di proventi illeciti». [6]

I pentiti

Per gli inquirenti le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia diedero un contributo rilevante in tre direzioni[7]:

  • per la ricostruzione storica dell’affermarsi in Emilia del Corpo di società facente capo a Nicolino Grande Aracri
  • per le informazioni fornite riguardo ad alcuni affiliati alla cosca e in particolare nella descrizione delle vicende che hanno portato al passaggio dal clan Dragone al clan Grande Aracri
  • sui rapporti instauratosi tra la 'ndrina di Reggio Emilia e gli imprenditori che ragionano alla cutrese.

Le dichiarazioni dei collaboratori riconobbero il ruolo predominante acquisito nella realtà cutrese da Nicolino Grande Aracri, grazie a un'attenta politica di alleanze e all'alternanza di atteggiamenti criminosi e una sapiente equidistanza in altri momenti.[8]

Luigi Bonaventura

Luigi Bonaventura detto “Lucas” o “Gne gne” fu membro dell’organizzazione mafiosa Vrenna-Corigliano-Bonaventura fin dagli anni ’90. Dopo la morte dello zio Bonaventura Giovanni, noto boss crotonese, e del padre Salvatore divenne capo della ‘ndrina e concentrò le proprie attività nel traffico di stupefacenti. Luigi Bonaventura riferì che Nicolino Grande Aracri acquisì sempre più importanza dopo la morte di Dragone Raffaele e che durante la reclusione nel carcere di Catanzaro, nel quale si trovava anche Nicolino Grande Aracri, questi tentò invano di avvicinarlo con l’intenzione di convincerlo a fare un’alleanza. [9]

Vincenzo Marino

Vincenzo Marino detto “Nano” e “Vichs” fu luogotenente di Luigi Bonaventura. Tale ruolo gli consentì di mantenere i rapporti con le altre famiglie tra cui i Grande Aracri cui era legato da un rapporto di parentela. Egli riferì che Nicolino Grande Aracri tentò di ottenere il Crimine a Cutro sin dal 2004. Definì Nicolino un cervello criminale, molto capace e in grado di prendersi tutta Cutro. [10]

Angelo Salvatore Cortese

Affiliato prima della cosca Dragone, poi dei Grande Aracri, scalò le posizioni di vertice fino a divenire il braccio destro di Nicolino Grande Aracri. Riferì degli ottimi rapporti tra i Grande Aracri e la cosca di San Luca, e del fatto che Nicolino era l’unico insieme a Pasquale Nicoscia ad avere il “crimine internazionale” nel crotonese. [11]

Giuseppe Vrenna

Affiliato alla cosca Vrenna-Corigliano-Bonaventura sin dagli anni ’70 riferì le tappe che portarono alla spaccatura tra Antonio Dragone e Nicolino Grande Aracri, intenzionato a fondare un nuovo gruppo ‘ndranghetista, e individuò l’inizio della faida con l’uccisione di Raffaele Dragone, figlio di Antonio Dragone. [12]

Francesco Oliverio

Detto “o smarra” riferì di aver avuto poco a che fare con i Grande Aracri in quanto durante la guerra di mafia mantenne l’alleanza con i Dragone e gli Arena. Riferì inoltre che Nicolino Grande Aracri era considerato il capo indiscusso della locale di Cutro. [13]

Le dichiarazioni sull’affermazione in Emilia del Corpo di società facente capo a Nicolino Grande Aracri e al clan Nicoscia

Vincenzo Marino riferì che dopo l’uccisione di Antonio Dragone fu decisa, per il controllo del territorio, la formazione di un corpo di società dipendente da Nicolino Grande Aracri e Pasquale Nicoscia. Giuseppe Vrenna riferì di una ‘ndrina distaccata operante nel territorio tra Reggio Emilia e Parma. Notizia confermata anche da Angelo Salvatore Cortese. Quest’ultimo parlò dell’esistenza di due ‘ndrine cutresi: una attiva tra Piacenza e Cremona, facente capo a Francesco Lamanna e l’altra a Reggio Emilia. La ’ndrina distaccata non sarebbe stata altro che una costola della locale madre, alla dipendenza diretta del capo-società Nicolino Grande Aracri. Per gli inquirenti ciò che caratterizzava la vicenda emiliana era che la ‘ndrina piacentina e quella reggiana, sebbene fossero sotto la direzione di Nicolino Grande Aracri, godevano di autonomia. La ‘ndrina di Reggio Emilia era gestita dai Nicoscia e dai Grande Aracri, mentre quella tra Piacenza e Cremona esclusivamente da Nicolino Grande Aracri. L’intera Emilia si trovò così sotto il controllo delle due cosche. I loro capi potevano autodeterminarsi, gestire autonomamente gli affari, con il solo dovere di riconoscere una percentuale dei profitti illeciti a Nicolino Grande Aracri. Un altro limite era rappresentato dalla determinazione degli omicidi e delle nuove affiliazioni, decisioni che competevano esclusivamente ai vertici. [14]

Le dichiarazioni sulle figure di alcuni affiliati alla ‘ndrina e sul passaggio dal clan Dragone al clan Grande Aracri

I collaboratori fecero dichiarazioni circa alcuni affiliati al clan Grande Aracri tra cui Nicolino Sarcone, Giuseppe Colacino, Gaetano Blasco e Francesco Frontera, soggetti prima legati ad Antonio Dragone e che in seguito alla morte di questo se ne allontanarono e infine gli imprenditori che ragionano alla cutrese, ossia imprenditori inizialmente assoggettati alla ‘ndrina emiliana che finiscono poi con il condividerne gli obiettivi criminali. Tra questi ultimi Giuseppe Giglio, Antonio Muto e Cesare Muto, Palmo Vertinelli, ed i Floro Vito, definiti da Marino e da Cortese “dei bancomat”, ai quali le cosche si rivolsero per ottenere denaro. Questi imprenditori, arricchitisi grazie agli investimenti di somme di denaro provenienti dai clan, si misero a disposizione delle cosche, riciclando denaro, e ricevendo in cambio protezione. Furono allo stesso tempo vittime, perché pagarono i clan, e riciclatori perché rinvestirono il capitale del clan. Cortese parla, a riguardo, di affiliazione impropria tra l’imprenditore e la famiglia. [15]

Il processo

Fase dibattimentale

La maggior parte degli arresti, eseguiti sulla base di misura cautelare richiesta dal sostituto procuratore della Dda di Bologna Marco Mescolini e firmata dal gip Alberto Ziroldi, sono stati effettuati nel Reggiano, dove è radicata la 'ndrina dei Grande Aracri. Tra gli arrestati figuravano anche diversi imprenditori, molti dei quali cutresi, ed esponenti della politica locale. Tra questi Giuseppe Pagliani, consigliere comunale e provinciale di Forza Italia a Reggio Emilia, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa[16], il giornalista reggiano Marco Gibertini[17] e l'imprenditore Giuseppe Iaquinta, padre del calciatore[18]. Tra le persone coinvolte anche ex appartenenti alle forze dell’ordine, tra cui Domenico Mesiano[19], Mario Cannizzo, e Alessandro Lupezza[20].

A processo furono rinviati a giudizio 218 imputati, 71 dei quali optarono per il rito abbreviato, mentre 147 scelsero il rito ordinario.

Rito abbreviato

Il rito abbreviato si aprì lunedì 11 gennaio 2016. Tra gli imputati figuravano: Amato Domenico, Bernini Giovanni Paolo, Blasco Antonio, Caccia Salvatore, Calesse Mario, Caputo Gaetano, Cianflone Antonio, Crugliano Gianluca, Curcio Domenico, Diletto Jessica, Elezaj Bilbil, Ferraro Vincenzo, Detto Salvatore, Foggia Domenico, Frizzale Antonio, Gerace Gennaro, Gerrini Giulio, Gibertini Marco, Grande Aracri Nicolino, Grande Aracri Domenico, Gullà Francesco, Gullà Antonio, Manica Giuseppe, Marzano Antonio, Mercadante Luigi, Migale Vincenzo, Minelli Konstantinos, Morini Emanuela, Mormile Vittorio, Muto Antonio, Muto Giulio, Nigro Barbara, Oppedisano Giuseppe Domenico, Oppido Raffaele, Pagliani Giuseppe, Palermo Alessandro, Patricelli Alfonso, Patricelli Patrizia, Pelaggi Paolo, Pellegri Francesco, Pezzatti Sergio, Procopio Giovanni, "Andrea", Salwach Michael Stanley, Sicilia Giovanni, Silipo Francesco, Spagnolo Francesco, Spagnolo Vincenzo Salvatore, Stefanelli Fulvio, Summo Giovanni, Tattini Roberta, Vecchi Giovanni, Verrazzo Giuseppina.

Tra questi i principali imputati per associazione di stampo mafioso erano Francesco Lamanna, Romolo Villirillo, Domenico Mesiano, Nicolino Sarcone.

Venerdì 22 aprile 2016 il processo di rito abbreviato di primo grado si concluse con 58 condanne, 12 assoluzioni, un non luogo a procedere, per un totale di 305 anni di carcere. Le motivazioni della sentenza vennero depositate nell'ottobre successivo.[21]

La condanna più alta è stata quella inflitta a Nicolino Sarcone, condannato a 15 anni in quanto ritenuto colpevole di essere il capo dell'organizzazione ‘ndranghetista emiliana legata ai Grande Aracri. Tra le condanne per associazione mafiosa si ritrovano anche:

  • Alfonso Diletto: 14 anni e 2 mesi;
  • Pino Giglio: 12 anni e 6 mesi;
  • Francesco Lamanna: 12 anni;
  • Antonio Gualtieri: 12 anni;
  • Antonio Silipo: 14 anni;
  • Romolo Villirillo: 12 anni e due mesi;
  • Giuseppe Richichi: 10 anni;
  • Donato Agostino Clausi: 10 anni e 4 mesi;
  • Salvatore Cappa: 9 anni e 4 mesi;
  • Roberto Turrà: 9 anni e 6 mesi;
  • Pasquale Battaglia: 8 anni e 4 mesi;
  • Francesco Frontera: 8 anni e 10 mesi;
  • Alfonso Martino: 9 anni.

Nicolino Grande Aracri, considerato dagli inquirenti punto di riferimento della ‘ndrina emiliana, venne condannato a 6 anni e 8 mesi per diversi reati tra i quali però non risultava l'associazione mafiosa. E' stato condannato per associazione mafiosa in primo grado in un altro processo, il Processo Pesci, il 20 settembre 2017, mentre è stato condannato all'ergastolo dalla Corte d'Appello di Catanzaro nell'ambito dell'Operazione Kyterion[22].

Si legge nel testo della sentenza: «Il dato caratterizzante l’indagine Aemilia: la fuoriuscita dai confini di una microsocietà calabrese insediata in Emilia, all’interno della quale si giocava quasi del tutto la partita, sia quanto agli oppressori sia alle vittime, queste ultime prescelte in quanto in grado di meglio comprendere la carica intimidatoria dell’agire mafioso e di mantenere l’omertà. Nell'indagine Aemilia si assiste alla rottura degli argini e la congrega è vista entrare in contatto con il ceto artigianale e imprenditoriale reggiano, secondo una strategia di infiltrazione che muove spesso dall’attività di recupero crediti inesigibili per arrivare a vere e proprie attività predatorie di complessi produttivi fino a cercare punti di contatto e di rappresentanza mediatico-istituzionale.»[23].


Rito ordinario

Il rito ordinario a carico di 147 imputati iniziò mercoledì 23 marzo 2016 nell'Aula bunker di Reggio Emilia, costruita per l'occasione. La Corte era composta da Cristina Beretti Francesco Maria Caruso e Andrea Rat.

Gli imputati erano: Abbruzzese Palmina, Achilli Simona, Adamo Rosario, Aiello Giuseppe, Alleluia Lauro, Ameglio Rosaria, Amato Alfredo, Amato Francesco, Arcuri Rosario, Arena Carmine, Baachaoui Karima, Baachaoui Moncef, Barnat Ewa Boguslawa, Belfiore Carmine, Belfiore Francesco, Belfiore Giuseppe, Bianchini Alessandra, Bianchini Alessandro,Bianchini Augusto, Bianchini Nicola, Bidin Corrado, Bighignoli Andrea, Blasco Gaetano, Bolognino Catianna, Bolognino Domenico (1946), Bolognino Domenico (1990), Bolognino Michele, Bolognino Sergio, Braga Bruna, Bramante Antonietta, Brescia Pasquale, Brugnano Giuseppe, Brugnano Luigi, Busia Marco, Buttiglieri Salvatore, Cagossi Luigi, Cannizzo Mario, Cavedo Maurizio, Codamo Giuseppe, Colacino Salvatore, Costi Omar, Crivaro Antonio, Croci Deborah, Curcio Giuseppe, Curcio Maria, Debbi Giuliano, Di Via Francesco, El Fatachi Abdellatif, Falsetti Rosario, Ferrari Aldo Pietro, Ferri Bernardini Gabriele, Florio Francesco, Floro Vito Antonio, Floro Vito Gianni, Floro Vito Giuseppina, Formentini Francesco, Frontera Alfonso, Gallo Alfonso, Gentile Domenico, Gerace Salvatore, Gibertini Gino, Giglio Antonio, Giglio Francesco, Giorgione Antonio, Grimaldi Luigi, Iaquinta Giuseppe, Iaquinta Vincenzo, Laera Stefano, Lerose Salvatore, Lomonaco Francesco, Lonetti Sergio, Loprete Giuseppe, Lupezza Alessandro, Macrì Francesco, Macrì Giuseppe, Mancuso Vincenzo, Manfreda Francesco, Manzoni Giuseppe, Martino Paolo, Martino Rosario, Matacera Francesco, Mendicino Alfonso, Meziati Abderrahim, Milazzo Bruno, Molinari Antonio, Muratori Massimo, Muto Antonio (1971), Muto Antonio (1978), Muto Antonio (1955), Muto Francesco, Muto Luigi, Muto Salvatore, Nicastro Antonio, Oliverio Salvatore, Olivo Salvatore, Paolini Alfonso, Passiatore Francesco Pio, Pelaggi Francesco, Petrone Antonio, Pichierri Giuseppe, Pieron Anna, Poggioli Simone, Rillo Pasquale, Rocca Antonio, Ruggiero Giuseppe, Salsi Mirco, Salvati Luigi,Sarcone Gianluigi, Schettini Giovanna, Schirone Graziano, Scida Domenico, Scida Francesco, Scordo Giuseppe, Scozzafava Antonio, Sergio Eugenio, Serio Luigi, Sestito Salvatore, Silipo Floriana, Silipo Luigi, Silipo Salvatore, Tang Jianyao, Tedesco Rocco, Tostoni Michele, Tripoli Rosa, Ursini Mario, Vaccari Olmes, Valerio Antonio, Valerio Gaetano, Valerioti Gabriele, Vecchi Daniela, Vecchi Silvano, Vecchiattini Mario Stefano, Vertinelli Antonio, Vertinelli Giuseppe (1962), Vertinelli Giuseppe (1986), Vertinelli Palmo, Vetere Pierino, Villirillo Giuseppe, Viscome Luigi, Viti Francesco, Vrabie Carmen, Vrabie Mihai, Vulcano Mario, Zangari Valter, Zhang Jianyong.

Mercoledì 31 ottobre 2018 la Corte ha emesso la sentenza di 1° grado.

Ulteriori gradi di giudizio

Appello del rito abbreviato

Al processo d'appello del rito abbreviato l'accusa era rappresentata dai due sostituti procuratori generali Umberto Palma e Nicola Proto, affiancati dai PM Beatrice Ronchi e Marco Mescolini. Alle impugnazioni dei difensori dei condannati si aggiunsero 17 impugnazioni della DDA di Bologna, tra queste quelle relative all'assoluzione dei due politici Giovanni Paolo Bernini e Giuseppe Pagliani.

Furono confermate le condanne per: Marco Gibertini, Domenico Mesiano, Nicolino Sarcone, Alfonso Diletto, Nicolino Grande Aracri, Giuseppe Pallone, Alfonso Martino, Domenico Amato, Gaetano Caputo, Antonio Marzano, Antonio Gualtieri, Francesco Lamanna, Romolo Villirillo, Pasquale Battaglia, Salvatore Cappa, Antonio Cianflone, Francesco Frontera, Giulio Gerrini, i coniugi Patrizia Patricelli e Giovanni Vecchi, Roberta Tattini, Antonio Blasco, Mario Calesse, Vincenzo Ferraro, Antonio Frizzale, Gennro Gerace, Antonio Gullà, Sergio Pezzatti, Giulio Giglio, Bilbil Elezaj, Giovanni Procopio, Giuseppe Domenico Oppedisano, Vittorio Mormile, Giuseppe Manica, Francesco Gullá, Domenico Foggia, Domenico Curcio, Barbara Nigro.

  • Il politico Giuseppe Pagliani, assolto in primo grado, venne condannato in appello a 4 anni, mentre il politico Giovanni Paolo Bernini, prosciolto in primo grado, anche in appello venne prosciolto per prescrizione.
  • L’imprenditore Michele Colacino, assolto in primo grado, fu condannato in appello a 4 anni e 8 mesi.
  • Giuseppe Giglio, condannato in primo grado a 12 anni, è condannato in appello a 6 anni, gli venne riconosciuta l’attenuante per aver collaborato con la giustizia.
  • Francesco Lepera, assolto in primo grado dall’accusa di associazione mafiosa, fu nuovamente assolto in appello.
  • Giuseppe Richichi, condannato in primo grado a 10 anni, fu condannato in appello a 9 anni e 8 mesi.
  • Agostino Antonio Claudio, condannato in primo grado a 10 anni e 4 mesi, fu condannato in appello a 10 anni e 2 mesi.
  • Paolo Pelaggi, condannato in primo grado a 1 anno e 6 mesi, fu condannato in appello a 1 anno e 8 mesi.
  • Raffaele Oppido, condannato in primo grado a 2 anni e 9 mesi, fu condannato in appello a 2 anni e 8 mesi.
  • Gianluca Crugliano, condannato in primo grado a 1 anno e 8 mesi, fu condannato in appello a 1 anno e 6 mesi.

Nella sentenza si parla di «borghesia mafiosa esistente al nord, composta da imprenditori, liberi professionisti e politici, che fa affari con le cosche ricercandone addirittura il contatto in ragione delle ampie opportunità offerte dall’appoggio dell’organizzazione; il pagamento del fiore, della mazzetta o dell’estorsione, sono il mezzo con il quale l’imprenditore o il politico ottengono la protezione ed il vantaggio che la cosca può offrire».[24]

È una «mafia silente, che si avvale di quella forma di intimidazione – per certi aspetti ancora più temibile - che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere.»[25]


Note

  1. Nicoscia ('ndrina)
  2. Alberto Ziroldi, Ordinanza di applicazione di misure cautelari coercitive – Procedimento Penale n. 20604-10 RNR, Tribunale di Bologna, 15 gennaio 2015, p. 186
  3. Ivi, p.201
  4. Ivi, p.205
  5. Ivi, p.208
  6. Ivi, p. 210 ss.
  7. Ivi, p. 214
  8. Ibidem
  9. Ivi, p. 203
  10. Ivi, p. 204
  11. Ivi, p. 207 ss.
  12. Ivi, p. 205 ss.
  13. Ivi, p. 210 ss.
  14. Ivi, p. 222 ss.
  15. Ivi, p. 229
  16. Ivi, p.863
  17. Ivi, p.1261
  18. Ivi, p.1173
  19. Ivi, p.969
  20. Ivi, p.966
  21. Francesca Zavaglia, Sentenza n.797 contro “Amato+70”, Tribunale di Bologna-Sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari, 22 aprile 2016
  22. ‘Ndrangheta, boss Nicolino Grande Aracri condannato all’ergastolo in appello, il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2018
  23. Francesca Zavaglia, Sentenza n.797 contro “Amato+70”, Tribunale di Bologna-Sezione dei Giudici per le Indagini Pleliminari, 22 aprile 2016, p.1226 ss.
  24. Ivi, p.266
  25. Ivi, pag 267

Bibliografia

  • Cecilia Calandra (Presidente), Terza Sezione Penale, Corte d’Appello di Bologna, 12 settembre 2017
  • Zavaglia Francesca, Sentenza n.797 contro “Amato+70”, Tribunale di Bologna-Sezione dei Giudici per le Indagini Pleliminari, 22 aprile 2016
  • Ziroldi Alberto, Ordinanza di applicazione di misure cautelari coercitive – Procedimento Penale n. 20604-10 RNR, Tribunale di Bologna, 15 gennaio 2015.