Processo Andreotti

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“Chi vuole sapere sa, chi non vuole sapere, chi rifiuta la verità, non lo si può assolutamente convincere.”
(Gian Carlo Caselli)
processo Andreotti

Con l'espressione Processo Andreotti si intende generalmente il procedimento penale a carico di Giulio Andreotti nel quale il sette volte Presidente del Consiglio, ventuno volte Ministro, nonché Senatore a vita, venne chiamato a rispondere dei reati di associazione a delinquere "semplice" (art. 416 c.p.) e di associazione di stampo mafioso (art. 416 bis c.p.). Il processo si celebrò dal 1993 al 2004 a Palermo e Roma ed entrò nel vocabolario collettivo italiano come "il processo del secolo", proprio per via dell'eccezionalità dell'imputato, per la prima volta chiamato a rispondere in una sede giudiziaria dei suoi rapporti, personali e di corrente, con Cosa Nostra.

Antefatti

L’attività di indagine nei confronti di Giulio Andreotti aveva preso le mosse dagli accertamenti avviati in seguito all’omicidio dell’eurodeputato democristiano Salvo Lima, leader della corrente andreottiana in Sicilia, avvenuto a Mondello il 12 marzo 1992. Il "processo Andreotti" nacque quindi come filone investigativo connesso alle verifiche riconducibili a tale delitto: diversi collaboratori di giustizia, nel corso delle indagini relative all’omicidio di Lima, riferirono, davanti agli inquirenti, del legame fra Salvo Lima, Giulio Andreotti e Cosa Nostra.

I collaboratori di giustizia che accusavano Andreotti

In totale furono 41 i collaboratori di giustizia le cui dichiarazioni vennero acquisite in dibattimento, fra cui alcuni dei più importanti: Leonardo Messina; Gaspare Mutolo; Francesco Marino Mannoia; Angelo Siino; Tullio Cannella; Antonino Mammoliti; Gioacchino La Barbera; Tommaso Buscetta; Antonino Calderone; Baldassarre Di Maggio; Gaetano Costa; Salvatore Cancemi; Vincenzo Sinacori; Salvatore Cucuzza; Marino Pulito; Alfonso Pichierri; Paolo Severino; Antonio Calvaruso; Salvatore Annacondia; Enzo Salvatore Brusca; Giovanni Brusca; Emanuele Brusca; Benedetto D’Agostino; Federico Corniglia; Bartolomeo Addolorato.

Leonardo Messina

Leonardo Messina fu il primo collaboratore di giustizia a riferire, nell’interrogatorio del 13 agosto 1992, sui legami fra Giulio Andreotti, Salvo Lima e Cosa Nostra. Nel corso di questo interrogatorio Messina dichiarò di aver appreso dall’avvocato Raffaele Bevilacqua, esponente democristiano della corrente andreottiana, che Salvo Lima «era stato molto vicino a uomini di Cosa nostra per i quali aveva costituito il tramite presso l’on. Andreotti per le necessità della mafia siciliana»[1]. Successivamente, Messina precisò che «l’onorevole Lima era il contatto con l’onorevole Andreotti per le cose che interessavano Cosa nostra, specialmente per gli interessamenti concernenti processi giudiziari a carico di esponenti dell’organizzazione»[2].

Il collaboratore riferì poi sulle strategie di manipolazione del Maxiprocesso da parte di Cosa Nostra, e in specie sull’iniziale clima di fiducia rispetto al suo esito conclusivo, perché «se le cose fossero andate male, sarebbe intervenuta la Cassazione ad annullare il tutto» dove il processo «sarebbe stato assegnato alla I Sezione Penale […] e quindi al presidente Carnevale»[3] il quale «costituiva una garanzia […] perché si diceva che era manovrabile»[4].

Gaspare Mutolo

Gaspare Mutolo dichiarò invece che: «Il sen. Andreotti è esattamente la persona alla quale l’on. Salvo Lima si rivolgeva costantemente per le decisioni da adottare a Roma, che coinvolgevano gli interessi di Cosa Nostra»[5]. Fu proprio in seguito alle dichiarazioni di Mutolo che Giulio Andreotti venne formalmente iscritto nel registro delle notizie di reato.

A proposito del movente dell’omicidio di Salvo Lima, Mutolo affermò che in tal modo Totò Riina voleva sia sanzionare l'eurodeputato che non aveva mantenuto le promesso sull’esito negativo del maxiprocesso, sia un avvertimento a quel mondo politico che «dopo aver attuato per moltissimi anni un rapporto di pacifica convivenza e di scambio di favori con Cosa Nostra […] non aveva più tutelato gli interessi dell’associazione proprio in occasione del processo più importante»[6].

Francesco Marino Mannoia e Angelo Siino

Francesco Marino Mannoia, nel corso dell'interrogatorio reso in una località protetta negli USA il 3 aprile 1993 in qualità di testimone di giustizia sotto la protezione del Federal Bureau of Investigation (FBI), rese alcune importanti dichiarazioni relative al rapporto fra Giulio Andreotti e Cosa Nostra.

Mannoia fornì in particolare una spiegazione sull’omicidio del Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, affermando che il politico democristiano aveva manifestato l’intenzione di far pulizia nell’ambiente politico dell’Isola, volendo interrompere ogni legame interno a certi apparati della Democrazia Cristiana siciliana con Cosa Nostra. Secondo il collaboratore, con l'obiettivo anche di cercare un personale riscatto, dato che Mattarella «dopo aver intrattenuto rapporti amichevoli con i cugini Salvo e Bontate Stefano, ai quali non lesinava favori, successivamente aveva mutato la propria linea di condotta»[7].

Di fronte alle posizioni politiche assunte dal Presidente Mattarella, Mannoia dichiarò che fra la primavera e l’estate del 1979 si svolse un incontro, in una riserva di caccia, tra Giulio Andreotti, i cugini Antonino e Ignazio Salvo, Salvo Lima, Rosario Nicoletti, Stefano Bontate, Gaetano Fiore e altri; Bontate ne riferì a propria volta a Mannoia, facendogli presente che «tutti quanti si erano lamentati con Andreotti del comportamento di Mattarella, e aggiunse poi: "Staremo a vedere"»[8].

Alcuni mesi dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella, avvenuto il 6 gennaio 1980, sempre a detta di Mannoia vi fu un altro vertice mafioso che aveva per oggetto proprio l'omicidio del politico democristiano, cui Giulio Andreotti partecipò per chiedere spiegazioni. La riunione si tenne in una villetta di proprietà di un familiare del boss Salvatore Inzerillo e vi presero parte anche Salvo Lima, i cugini Antonino e Ignazio Salvo, oltre a numerosi mafiosi (Michelangelo La Barbera, Girolamo Teresi, Giuseppe Albanese, Salvatore Federico), nonché Stefano Bontate; Andreotti vi giunse per mezzo di una autovettura dei cugini Salvo, provenendo da Trapani, dove era atterrato grazie a un aereo privato messo a disposizione sempre dai due cugini.

Mannoia asserì di non aver partecipato al vertice, perché rimasto all’esterno della villa, ma di aver visto Giulio Andreotti, di cui descrisse l’abbigliamento, entrare ed uscire dalla stessa. Inoltre, durante il vertice sentì delle grida. A detta di Bontate, il boss aveva risposto alle lamentele di Andreotti circa l'omicidio che:

«In Sicilia comandiamo noi, e se non volete cancellare completamente la D.C. dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia Meridionale. Potete contare solo sui voti del nord, dove votano tutti comunista, accettatevi questi»[9].

A dimostrazione delle relazioni fra Giulio Andreotti e Stefano Bontate, Mannoia affermò inoltre di aver saputo che Bontate e Pippo Calò si fossero prodigati per procurare, tramite un antiquario romano, un quadro di cui Andreotti «impazziva»[10].

Mannoia riferì, quindi, sui legami fra le attività finanziarie di Michele Sindona e l’opera di riciclaggio da parte di alcuni capimafia di Cosa Nostra, specificando che da alcune conversazioni intervenute con Bontate aveva appreso che «John Gambino e Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, hanno effettuato dei grossi investimenti su hotel, terreni e anche su delle finanziarie, sia nell’isola di Aruba sia anche in Florida»[11].

Il collaboratore dichiarò di seguito che, dopo l’uccisione di Stefano Bontate (23 aprile 1981), Salvatore Riina e i Corleonesi cercarono, senza riuscirvi, di rinsaldare, tramite Salvo Lima, i rapporti con Giulio Andreotti, ma questi dal 1987 in poi favorì scelte politiche di contrasto con gli interessi di Cosa nostra.

A riferire dei rapporti fra le attività finanziarie di Michele Sindona e l’opera di riciclaggio di Cosa Nostra, oltre che dell’incontro fra Stefano Bontate e Giulio Andreotti della primavera-estate del 1979 fu un altro collaboratore di giustizia, Angelo Siino, il quale dichiarò di aver accompagnato in auto Bontate al vertice tenutosi a Catania nel 1979 nella riserva di caccia di proprietà degli imprenditori catanesi Costanzo, e di averne atteso la conclusione senza parteciparvi formalmente. Chiacchierando, fra l’altro, con il guardiano del posto (soprannominato ‘U cchiù, la civetta): stando a Siino, il guardiano gli riferì di aver visto Giulio Andreotti entrare nel luogo dell’incontro.

Tommaso Buscetta

L'uomo che inaugurò la stagione del pentitismo in Italia parlò dei rapporti tra Andreotti e la mafia siciliana in un interrogatorio avvenuto a Washington, l'11 settembre 1992. Buscetta riferì che i cugini Antonino e Ignazio Salvo insieme a Salvo Lima, da lui indicato come «figlio di un uomo d’onore […] l’uomo politico a cui principalmente Cosa Nostra si rivolgeva per le questioni di interesse dell’organizzazione, che dovevano trovare una soluzione a Roma»[12], avevano mediato con alcuni politici a Roma nell’interesse di Cosa Nostra.

In successivi interrogatori «il boss dei due mondi» dichiarò che «il referente politico nazionale cui Lima Salvatore si rivolgeva per le questioni di interesse di Cosa Nostra, che dovevano trovare una soluzione a Roma, era l’onorevole Giulio Andreotti»[13], affermando di averlo appreso da moltissimi uomini d’onore nel periodo in cui fu detenuto in carcere dal 1972 al 1980 oltreché dai cugini Salvo, una volta uscito dal carcere.

Questi ultimi due costituivano, secondo Buscetta, un tramite diretto tra Cosa Nostra e Giulio Andreotti, alternativo a quello costituito da Salvo Lima, specificando che «i cugini Salvo avevano con l’onorevole Andreotti un rapporto, a mio avviso, addirittura più intenso di quello dell’onorevole Lima. […] I cugini Salvo chiamavano Giulio Andreotti lo ‘zio’, quanto meno quando ne parlavano con me»[14].

Tanto da dichiarare di aver appreso tra il 1982 e il 1983 da Gaetano Badalamenti in Brasile di un incontro tra Badalamenti e Giulio Andreotti, avvenuto a Roma nell’ufficio di quest’ultimo, in presenza di uno dei cugini Salvo e Filippo Rimi (figlio di Vincenzo Rimi[15] e cognato di Badalamenti). Nel corso dell’incontro, si discusse della manipolazione[16] del processo a carico di Filippo Rimi, imputato per l’omicidio di Lupo Leale in un processo celebratosi, nei vari gradi di giudizio, a Perugia e a Roma tra il 1968 e il 1979. Anche altri collaboratori di giustizia (Salvatore Cancemi, Vincenzo Sinacori, Antonino Calderone, Salvatore Cucuzza) riferirono, sebbene con versioni non coincidenti con quella di Buscetta, del tentativo di manipolazione relativo al processo a carico dei Rimi. Effettivamente, Rimi, condannato all'ergastolo in appello, fu poi assolto in Cassazione, grazie anche, secondo i collaboratori, all’interessamento di Giulio Andreotti dopo il presunto incontro a Roma.

Inoltre Buscetta affermò di aver appreso da Stefano Bontate e da Gaetano Badalamenti (separatamente ma con versioni coincidenti) che il giornalista Carmine Pecorelli era stato ucciso da Cosa nostra, il 20 marzo 1979, su richiesta dei cugini Salvo, «veri mandanti dell’omicidio», e di aver dedotto che tale richiesta fosse stata formulata da Giulio Andreotti, allarmato da conoscenze del giornalista relative al sequestro e all’omicidio di Aldo Moro[17].

Di seguito, Buscetta dichiarò anche che, con riferimento all’omicidio del Prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, Giulio Andreotti era stato l’entità che aveva avuto interesse, convergente con quello di Cosa Nostra, all’eliminazione del Generale dei Carabinieri, anch’egli a conoscenza di particolari ignoti sulla vicenda del sequestro Moro. «Pecorelli e dalla Chiesa sono infatti cose che si intrecciano fra di loro»[18].

Baldassarre Di Maggio

Baldassarre Di Maggio parlò a proposito del tentativo di manipolazione del maxiprocesso da parte di Cosa Nostra, nella cornice del quale riferì di un incontro fra Andreotti e Salvatore Riina. Nel corso dell’interrogatorio del 18 gennaio 1993, davanti agli Uffici della Procura di Palermo, dichiarò:

«relativamente all’interessamento di Riina Salvatore per l’andamento del cd. maxiprocesso, devo dire che in un’occasione io fui incaricato personalmente dal Riina di andare da Salvo Ignazio e dirgli di contattare l’on. Lima Salvo e di incaricare il parlamentare di contattare il nostro comune amico, al quale dovevano essere altresì portati i saluti di Riina, perché si interessasse dell’andamento del maxiprocesso. […] Il Salvo disse che avrebbe provveduto, ma io non ne seppi più nulla»[19].

Successivamente, il 16 aprile, precisò:

«Quando Riina Salvatore mi mandò da Salvo Ignazio perché dicessi al Salvo di dire a Lima Salvatore di "contattare il nostro comune amico" per risolvere i problemi del maxiprocesso, in realtà mi indicò il nome della persona da contattare in quella del senatore Giulio Andreotti; preciso meglio che mi fu detto "l’onorevole Andreotti". […] Devo però aggiungere che il Riina mi dette un altro messaggio da riferire al Salvo, e cioè che egli voleva un appuntamento per incontrare l’on. Andreotti. […] A precisazione di quello che ho detto in altra occasione, devo quindi ora aggiungere che rividi Salvo Ignazio circa 15 giorni dopo. […] Invero, il Riina mi fece sapere tramite La Barbera Angelo di farmi trovare, alle 14:30 di un certo giorno che non ricordo, nel magazzino vicino al ‘pollaio’ dietro la Casa del Sole. […] Penso che l’incontro si situi nel tempo, all’incirca nello stesso periodo, e forse poco prima, dell’omicidio di certo Dragotta»[20].

I P.M. collocarono, di seguito, l’incontro nella giornata del 20 settembre 1987: a Palermo, si celebrò, in quei giorni (19-27 settembre 1987), una tradizionale festa della Democrazia Cristiana, la Festa dell’Amicizia. Ma non fu questo l’unico dato di contesto. Diversi collaboratori di giustizia (tra cui lo stesso Di Maggio e poi Francesco Marino Mannoia e Salvatore Cancemi) riferirono che la Commissione di Cosa Nostra, riunita per l’occasione, aveva deciso di approfittare delle elezioni nazionali del 16 giugno 1987 per lanciare un segnale ai propri referenti politici, così da costringerli a ridiscutere il proprio sostegno elettorale in cambio del loro supporto in vista della manipolazione del maxiprocesso. I medesimi collaboratori riferirono poi che la Commissione aveva deciso, in quella occasione, di virare parte dei propri voti sul Partito Socialista Italiano anziché sulla Democrazia Cristiana[21].

Di Maggio affermò che all’incontro presero parte Giulio Andreotti, Salvo Lima e Ignazio Salvo, che, benché agli arresti domiciliari, mise a disposizione una propria abitazione a Palermo. Il collaboratore accompagnò Riina in qualità di autista-sodale e vide Riina salutare Andreotti, Lima e Ignazio Salvo baciandoli sulle guance. Lo stesso aggiunse di aver atteso, in compagnia di Paolo Rabito, mafioso della famiglia di Salemi, che l’incontro si concludesse per poi riaccompagnare Riina nel punto in cui l’aveva prelevato, precisando di non aver parlato con Riina dell’oggetto dell’incontro, ma di averlo dedotto dal contenuto del messaggio da lui precedentemente consegnato a Ignazio Salvo.

A riferire sull’incontro fra Giulio Andreotti e Salvatore Riina, sebbene con versioni non del tutto coincidenti a quelle rappresentate da Di Maggio, furono poi anche altri ex membri di Cosa Nostra, e in particolare: Emanuele ed Enzo Salvatore Brusca, Antonio Calvaruso, Tullio Cannella e Gioacchino La Barbera.

Federico Corniglia

Federico Corniglia dichiarò di aver accompagnato, fra la fine di settembre e i primi d’ottobre del 1970, il boss mafioso Frank Coppola ad un incontro con Giulio Andreotti a Roma. Il capomafia gli riferì che oggetto dell’incontro fu «una questione di voti»[22] che coinvolgeva il sindaco di Roma Amerigo Petrucci (importante esponente delle corrente andreottiana nella Capitale).

Antonino Calderone

Antonino Calderone riferì invece del sostegno elettorale di Cosa Nostra catanese a favore di Salvatore Urso, esponente regionale della Democrazia Cristiana, parlando anche dell’inserimento organico dei cugini Salvo nell'organizzazione mafiosa. I pubblici ministeri ricollegarono la testimonianza di Calderone a quanto detto dall'operatore turistico Vito Di Maggio, che parò di un incontro avvenuto nel giugno 1979 tra Andreotti, Lima, Urso e il boss Benedetto Santapaola.

Benedetto D'Agostino

Benedetto D’Agostino dichiarò che il boss mafioso Michele Greco, da lui conosciuto perché legato al padre Sebastiano, gli aveva rivelato di essere un referente di Giulio Andreotti avendolo incontrato «qualche volta»[23] nella sala-proiezioni allestita da Italo Gemini, presidente dell’A.G.I.S. (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo), nel seminterrato dell'Hotel Nazionale di Roma, in piazza Montecitorio.

Marino Pulito, Salvatore Annacondia, Alfonso Picchieri

Marino Pulito riferì di essersi attivato per ottenere la manipolazione di un processo nei confronti dei fratelli Gianfranco e Riccardo Modeo, accusati dell’omicidio di tale Matteo Marotta. Stando al collaboratore, nel corso delle sue manovre incontrò per due volte Licio Gelli, a capo della Loggia massonica P2 (Propaganda 2), grazie ad un suo personale contatto, il boss della 'ndrangheta Vincenzo Serraino, «esponente della Lega Meridionale»[24].

Da Gelli, Pulito ottenne, in cambio della promessa di procurargli 4000 voti nel territorio calabrese «in quanto aveva intenzione di candidarsi in Calabria per la Lega Meridionale nelle elezioni politiche»[25], l’impegno ad attivarsi in vista dell’«aggiustamento» del processo a carico dei Modeo. In occasione del secondo incontro a Roma, alla presenza anche di Serraino, Gelli assicurò la sua disponibilità a Pulito con una telefonata a Giulio Andreotti, a detta del collaboratore deus ex machina della manipolazione. Questo il contenuto della conversazione fra Gelli e Andreotti: «Giulio, allora tutto a posto…mi hanno confermato, non ci sono problemi, ci garantiscono i 4000 voti»[26].

A riferire sui tentativi di manipolazione del processo a carico dei fratelli Modeo furono poi altri collaboratori di giustizia, e in particolare: Salvatore Annacondia, Alfonso Pichierri, Gaetano Costa, come si vedrà in seguito.

Bartolomeo Addolorato

Bartolomeo Addolorato riferì che nelle elezioni regionali del 1991 diversi esponenti mafiosi di Mazara Del Vallo si attivarono per procurare voti a Giuseppe Giammarinaro, candidato della corrente andreottiana legato ad Ignazio Salvo.

Paolo Severino

Paolo Severino parlò invece del supporto della famiglia mafiosa di Enna all’andreottiano Raffaele Bevilacqua, affiliato alla famiglia mafiosa di Barrafranca anche secondo i collaboratori Leonardo Messina ed Angelo Siino, in occasione delle elezioni regionali del giugno 1991, pur non risultando eletto.

Giovanni Brusca

Giovanni Brusca parlò delle relazioni tra Salvo Lima, Vito Ciancimino e i cugini Salvo con Cosa Nostra, e del loro rapporto con Giulio Andreotti, specificando che poco dopo lo scoppio della cd. Seconda Guerra di Mafia, Antonino Salvo gli aveva recapitato un messaggio da Andreotti in persona: «fai sapere agli amici che se non si danno una calmata sono costretto […] a prendere provvedimenti per la Sicilia, con qualche legge speciale, con qualche cosa di speciale»[27]. Brusca riportò di aver appreso da suo padre Bernardo, capo mandamento della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, e da Totò Riina dell’esistenza di relazioni fra Giulio Andreotti e il gruppo di Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti.

Gaetano Costa

Gaetano Costa raccontò di aver appreso da Leoluca Bagarella, nei giorni della co-detenzione nel carcere di Pianosa, di un interessamento di Andreotti e di Salvo Lima per consentire il trasferimento di un gruppo di detenuti siciliani da Pianosa a Novara, poi verificatosi nei fatti a ridosso delle festività natalizie del 1983.

Antonino Mammoliti

Antonino Mammoliti riferì infine che Andreotti chiese e ottenne che Stefano Bontate convincesse il boss di ‘ndrangheta Girolamo Piromalli a far cessare un’estorsione da parte di alcune 'ndrine di Palmi a danno di Bruno Nardini, imprenditore petrolifero vicino alla corrente andreottiana nel Lazio e proprietario di numerosi impianti di distribuzione di carburante, molti dei quali situati nella provincia di Reggio Calabria.

Prima del processo

Andreotti venne quindi iscritto nel registro degli indagati il 4 marzo 1993. In considerazione dell’immunità prevista per dall’art. 68 della Costituzione per i parlamentari (nella versione antecedente a quella modificata dalla legge costituzionale n. 3 del 29 ottobre successivo), il 27 marzo la Procura della Repubblica di Palermo guidata da Gian Carlo Caselli inoltrò all'Ufficio di Presidenza del Senato della Repubblica la richiesta di autorizzazione a procedere per i reati di cui agli artt. 110 e 416 c.p. (concorso ‘esterno’ in associazione per delinquere "semplice") e agli artt. 110 e 416 bis c.p. (concorso esterno in associazione di tipo mafioso).

Il 6 maggio la Giunta della autorizzazioni e delle immunità del Senato della Repubblica diede parere positivo sulla richiesta di autorizzazione a procedere, escludendo la sussistenza di fumus persecutionis oggettivo e soggettivo nei confronti di Giulio Andreotti. Una settimana dopo, il 13 maggio, il Senato della Repubblica diede il via libera, su richiesta dello stesso Giulio Andreotti, all’autorizzazione a procedere parlamentare.

Il 21 maggio 1994 i pubblici ministeri Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato formularono, in modifica delle precedenti ipotesi di reato, richiesta di rinvio a giudizio nei confronti del sette volte Presidente del Consiglio per i reati di:

  • partecipazione ad associazione a delinquere "semplice" (art. 416 c.p.), con le aggravanti di cui all’art. 416 comma 4[28] e comma 5[29] del codice penale;
  • partecipazione ad associazione di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.), con le aggravanti di cui all’art. 416 bis comma 4[30], 5[31], 6[32] del codice penale.

A tale richiesta seguì la celebrazione dell’udienza preliminare, all’esito della quale, il 2 marzo 1995, il G.I.P. Agostino Gristina dispose il decreto di rinvio a giudizio nei confronti di Giulio Andreotti per le due imputazioni. Malgrado infatti le condotte contestate si riferissero ad un perdurante coinvolgimento di Giulio Andreotti con Cosa Nostra la scelta della doppia contestazione scontò, in via di prima approssimazione, il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli all’agente. La legge istitutiva dell’art. 416 bis (la 646 del 13 settembre 1982) aveva disposto infatti l’entrata in vigore del nuovo delitto associativo solo a partire dal 29 settembre dello stesso anno.

Il processo

Il processo di primo grado si aprì il 26 settembre 1995 nell’aula bunker dell’Ucciardone, di fronte alla V Sezione Penale del Tribunale di Palermo, presieduta dal dott. Francesco Ingargiola con giudici a latere il dott. Salvatore Barresi (co-estensore della sentenza) e la dott.ssa Vincenzina Massa. La dott.ssa Massa fu di seguito sostituita, per ragioni di salute, dal dott. Antonio Balsamo (co-estensore della sentenza) con necessaria rinnovazione della citazione a giudizio disposta per l’udienza del 15 maggio 1996.

A sostenere la pubblica accusa furono i pubblici ministeri Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato. Il collegio difensivo dell’imputato era composto invece dagli avvocati Franco Coppi e Gioacchino Sbacchi (con Giulia Bongiorno in riserva). Il Comune di Palermo, all’epoca guidato da Leoluca Orlando, chiese di costituirsi parte civile per tramite del legale rappresentante, l’avvocato Salvatore Mollica.

Sintesi dell'impianto accusatorio del Processo Andreotti

L’impianto accusatorio del processo Andreotti risultò qualitativamente complesso e temporalmente imponente. I pubblici ministeri contestarono al sette volte Presidente del Consiglio di aver stipulato un patto con Cosa Nostra con il quale aveva offerto la propria disponibilità alle richieste, di varia natura, provenienti dall'organizzazione mafiosa, in cambio del sostegno (elettorale ma non solo) che quella alleanza di potere poteva garantire alla sua carriera politica.

Secondo l'accusa, l’apriporta del pactum sceleris di Andreotti con Cosa Nostra fu Salvo Lima, che portò all’interno della corrente andreottiana siciliana, a partire dal giugno 1968, non solo l'insieme delle sue relazioni politiche costruite nel corso della sua pregressa militanza nella DC, ma anche, e soprattutto, il corredo delle sue organiche e risalenti relazioni con alcuni dei più importanti esponenti di Cosa Nostra, tra i quali Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e i cugini Nino e Ignazio Salvo[33].

La massima espressione della disponibilità di Andreotti a prodigarsi per Cosa Nostra risiedeva per i pubblici ministeri nella messa a disposizione della propria corrente politica capitanata in Sicilia da Salvo Lima quale struttura di servizio per Cosa Nostra, alla quale venne data la possibilità in questo modo di inserire via via, all’interno della corrente, uomini espressione del sodalizio che potevano così tutelare gli interessi mafiosi[34].

Andreotti non venne chiamato a rispondere dell'accusa quindi di aver favorito Cosa Nostra attraverso l’attività legislativa o di Governo in qualità di uomo delle Istituzioni (circostanza, che avrebbe attivato la competenza del Tribunale dei Ministri), bensì quale uomo politico leader di una corrente della Democrazia Cristiana in grado di distribuire favori al sodalizio mafioso fuori dal suo agire istituzionale.

A partire da questo architrave accusatorio, vennero contesti al senatore a vita fatti e vicende diverse, in grado di dimostrare la sua personale volontà ad intrattenere rapporti con Cosa Nostra. Tali contestazioni apparvero riconducibili a due macro-categorie di fatti, rapportabili ad un orizzonte storico ventennale (anni ’70 - primi anni ’90): da una parte i cd. rapporti indiretti che Andreotti era riuscito ad intrattenere con i vertici dell’associazione mafiosa anche grazie ai suoi fedelissimi in Sicilia; dall’altra parte, invece, i cd. rapporti diretti, extrema ratio che in alcuni casi eccezionali avrebbero richiesto l’intervento personale di Giulio Andreotti a veri e propri incontri con i capimafia.

I rapporti indiretti con Cosa Nostra

Tra i rapporti indiretti confluirono:

  • la ricostruzione dei rapporti di Andreotti con Salvo Lima e con i cugini Antonino e Ignazio Salvo – quest'ultimo già condannato per mafia nel maxiprocesso – di cui furono specificatamente evidenziati i numerosi punti di contatto con Cosa Nostra;
  • la ricostruzione dei rapporti con Vito Ciancimino – già riconosciuto come affiliato il 17 gennaio 1992 – indicato dagli inquirenti come il punto di riferimento delle relazioni di Andreotti con i Corleonesi di Salvatore Riina;
  • la ricostruzione del ruolo esplicato da Andreotti nel 1977 nell’ambito dell'estorsione dei Piromalli, subita dall’imprenditore laziale Bruno Nardini;
  • la ricostruzione dell’interessamento, tra il 1978 e il 1979, dei problemi finanziari di Michele Sindona, riciclatore per conto di alcuni esponenti di Cosa Nostra;
  • la ricostruzione del coinvolgimento di Andreotti rispetto ai delitti del giornalista Carmine Pecorelli (20 marzo 1979) e del Prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982), in riferimento al rapimento di Aldo Moro;
  • la ricostruzione dell’interessamento nel 1984 in ordine al trasferimento di alcuni detenuti siciliani, fra cui Leoluca Bagarella, dal carcere di Pianosa a quello di Novara;
  • la ricostruzione del coinvolgimento di Andreotti, tramite Licio Gelli, nel tentativo di manipolazione di un processo a carico di Riccardo e Gianfranco Modeo;
  • la ricostruzione del supporto prestato dal senatore a vita alla candidatura di Giuseppe Giammarinaro e Raffaele Bevilacqua nelle elezioni regionale del giugno 1991.

I rapporti diretti con Cosa Nostra

Nei rapporti diretti furono inclusi:

  • la ricostruzione dell’incontro a Roma nel 1970 fra Giulio Andreotti e il boss Frank Coppola;
  • la ricostruzione dell’incontro, sempre a Roma, di Andreotti col boss Gaetano Badalamenti nel 1978 nell’ambito della richiesta di "aggiustamento" del processo a carico di Filippo Rimi;
  • la ricostruzione dell’incontro a Catania nel 1979 fra Andreotti e il boss mafioso Benedetto Santapaola;
  • la ricostruzione dei rapporti fra Andreotti e Stefano Bontate, con particolare riferimento ai due pretesi incontri (1979-1980) in Sicilia nell’ambito delle vicende connesse all’omicidio del Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella e al regalo da parte del boss di un quadro al sette volte Presidente del Consiglio;
  • la ricostruzione dell’incontro a Mazara del Vallo nel 1985 col mafioso Andrea Manciaracina;
  • la ricostruzione dell’incontro a Palermo nel 1987 con Salvatore Riina nell’ambito dei tentativi di manipolazione, da parte di Cosa Nostra, del maxiprocesso di Palermo, tentativi connessi, secondo l’Accusa, al coinvolgimento di soggetti esterni al sodalizio tra cui, nell’ipotesi degli inquirenti, Andreotti e Corrado Carnevale, il giudice che era stato per lungo tempo in predicato di presiederne il giudizio di Cassazione e a cui i pubblici ministeri contestarono un particolare legame con Andreotti.

La sentenza di 1° grado: il fatto non sussiste

Il dibattimento di primo grado, protrattosi per circa 250 sedute, venne dichiarato formalmente chiuso nel corso dell’udienza del 19 gennaio 1999. Nella medesima udienza la Pubblica Accusa cominciò ad esporre la propria requisitoria che si concluse, dopo 23 sedute, l’8 aprile dello stesso anno. In tale data Roberto Scarpinato chiese 15 anni di reclusione.

Nella stessa udienza il difensore di parte civile concluse chiedendo la condanna per i reati contestati, nonché il risarcimento dei danni patrimoniali e non (oltre alle spese processuali), per offesa all’immagine della città.

La Difesa iniziò l’illustrazione delle proprie conclusioni all’udienza del 18 maggio, proseguendo per 24 sedute e concludendo il 5 ottobre, con la richiesta di assoluzione dell’imputato da tutte le imputazioni ascrittegli «perché il fatto non sussiste».

Dopo una camera di consiglio durata 11 giorni, Il 23 ottobre la V Sezione Penale del Tribunale di Palermo assolse Andreotti da entrambe le imputazioni ascritte perché «il fatto non sussiste», ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p.[35].

Malgrado la formula assolutoria, la sentenza di primo grado riconobbe:

  • l’esistenza di «diretti rapporti personali»[36] fra Giulio Andreotti e i cugini Antonino e Ignazio Salvo, «profondamente inseriti in Cosa Nostra», i quali «offrirono un sostegno aperto ed efficace (seppure non esclusivo) a diversi esponenti della corrente andreottiana»[37];
  • il «forte legame sviluppatosi sul piano politico» e lo «stretto rapporto fiduciario»[38] fra Andreotti e Salvo Lima, di cui fu appurata la «stabile collaborazione con Cosa Nostra», addirittura antecedente alla sua adesione alla corrente andreottiana nel 1968;
  • numerose manifestazioni di «cointeressenza» fra Vito Ciancimino e il suo gruppo politico e la corrente andreottiana di Lima, le quali ricevettero l’«assenso del sen. Andreotti»[39], «in un periodo in cui (Ciancimino n.d.r.) era stato raggiunto da pesanti accuse in sede politica e in cui era ampiamente nota la sua vicinanza con ambienti mafiosi»[40].

Secondo i giudicanti non era stato dimostrato che l’imputato, nell’ambito di tali rapporti, avesse «espresso una stabile disponibilità ad attivarsi per il perseguimento dei fini propri dell’organizzazione mafiosa, ovvero abbia compiuto concreti interventi funzionali al rafforzamento di Cosa Nostra»[41].

Il Tribunale, però, escluse che fosse stato dimostrato che Andreotti avesse realizzato, per mezzo dei cugini Salvo, di Lima e di Ciancimino, delle concrete condotte in favore di Cosa Nostra, giungendo quindi a riqualificare i rapporti con l’imputato come esclusivamente politici (nel caso del legame con Lima e Ciancimino) o personali (nel caso del legame coi due cugini Salvo). I giudici non riconobbero inoltre che Andreotti avesse consapevolmente determinato, d’accordo con Lima, la trasformazione della corrente andreottiana in Sicilia in una struttura di servizio di Cosa Nostra, sia pure riconoscendo i numerosi contatti fra questa e l’organizzazione mafiosa[42].

Relativamente ai rapporti col finanziere siciliano Michele Sindona e «alcuni autorevoli esponenti dell’associazione mafiosa»[43], i giudici riconobbero che Sindona «svolgeva attività di riciclaggio»[44] per alcuni di loro, nonché il continuativo interessamento di Andreotti[45] per i guai finanziari della Banca Privata Italiana e della Franklin National Bank di Sindona in un periodo in cui il primo ricopriva importantissime cariche governative ed erano già state emanate misure giudiziarie nei confronti del secondo[46].

Tuttavia, malgrado «il significato essenziale dell’intervento spiegato dal sen. Andreotti […] era conosciuto dai referenti mafiosi del Sindona»[47], non era stato sufficientemente dimostrato che nel momento in cui aveva realizzato quei comportamenti suscettibili di agevolare Sindona, Andreotti fosse consapevole della natura dei legami che univano il finanziere siciliano ad alcuni esponenti autorevoli di Cosa Nostra. Alla luce di ciò i giudici rilessero questi rapporti o come legati a «ragioni politiche (connesse ad esempio, a finanziamenti erogati dal Sindona a vantaggio della Democrazia Cristiana), ovvero da pressioni esercitate sul sen. Andreotti da ambienti massonici facenti capo al Gelli»[48].

Circa invece il colloquio riservato avvenuto il 19 agosto 1985, presso l’Hotel Hopps di Mazara del Vallo[49], tra Giulio Andreotti e Andrea Manciaracina, pescatore trapanese di appena 23 anni indicato da Vincenzo Sinacori come capo-mandamento di Mazara del Vallo e tra i fedelissimi di Totò Riina, il collegio ne escluse la fondatezza sulla base di ravvisate genericità, contraddizioni, incongruenze, inattendibilità, incompletezze e mancanze dei necessari riscontri oggettivi nelle prove fornite dagli inquirenti, arrivando in un caso (l’incontro fra Giulio Andreotti e Benedetto Santapaola) a riconoscere che la contestazione si riferisse ad un evento mai verificatosi.

Il Tribunale riconobbe, in aggiunta, un deciso impegno istituzionale di Giulio Andreotti contro Cosa Nostra «nell’esercizio dei poteri inerenti alla carica di Presidente del Consiglio dei Ministri negli anni 1989-1992»[50] .

Ulteriori gradi di giudizio

Il processo di Appello

Contro la sentenza di primo grado fecero ricorso sia i rappresentanti della pubblica accusa, sia la Procura Generale presso la Corte d’Appello di Palermo.

Il processo di secondo grado si aprì il 19 aprile 2001 di fronte alla Prima Sezione Penale della Corte d’Appello di Palermo, presieduta dal dott. Salvatore Scaduti con giudici consiglieri il dott. Mario Fontana (estensore della sentenza) e il dott. Gioacchino Mitra[51].

La pubblica accusa fu sostenuta dai Procuratori Generali Anna Maria Leone e Daniela Giglio, mentre rimase invariato rimaneva il collegio difensivo di Giulio Andreotti e l'avvocato di parte civile del Comune di Palermo.

Il 14 marzo 2002, concludendo la requisitoria iniziata il 25 ottobre 2001, la sostituta P.G. Anna Maria Leone chiese l’affermazione della responsabilità penale di Giulio Andreotti in ordine ai reati e alle circostanze aggravanti ascrittegli, in riforma della sentenza di primo grado, con condanna alla pena di 10 anni di reclusione. Alla stessa udienza il difensore della parte civile concluse richiedendo l’affermarsi della responsabilità penale di Giulio Andreotti in ordine ai reati e alle circostanza di pena ascrittegli, con condanna dello stesso al risarcimento dei danni patrimoniali e non (oltre alle spese processuali), per offesa all’immagine della città.

All’udienza del 18 aprile 2002 la Difesa diede inizio alla formulazione delle proprie conclusioni.

Nelle udienze del 16 gennaio 2003 e del successivo 14 marzo fu disposta la riapertura della fase dibattimentale per permettere l’esame di Antonino Giuffrè e di Giuseppe Lipari, due affiliati di Cosa Nostra arrestati tra l’inverno (Lipari) e la primavera (Giuffrè) del 2002 che avevano espresso la loro volontà di collaborare con la giustizia.

Nel corso del proprio esame [52] Giuffrè riferì di aver appreso dal boss Michele Greco di incontri avvenuti tra Giulio Andreotti e Stefano Bontate, nonché di contrasti che sarebbero intervenuti fra i due nel contesto dei quali il secondo aveva ammonito il primo ricordandogli la predominanza mafiosa sul suolo siciliano. Lo stesso parlò della declinante attenzione di Salvo Lima nei confronti dei Corleonesi nel corso degli anni ’80. Lipari negò, in buona sostanza, qualsiasi interazione di Andreotti con i Corleonesi[53].

La Difesa concluse l’esposizione delle proprie conclusioni nell’udienza del 4 aprile 2003, con la richiesta del rigetto dei due appelli e la conferma della sentenza impugnata.

L'esito: colpevole fino al 1980, ma prescritto

Dopo una camera di consiglio durata otto ore, la Corte il 2 maggio dichiarò, in parziale riforma della sentenza di grado precedente, il non doversi procedere nei confronti di Giulio Andreotti in ordine al reato di associazione per delinquere a lui ascritto (capo A), commesso fino alla primavera del 1980, per essere lo stesso reato estinto per prescrizione, e confermò, nel resto (capo B), la sentenza appellata[54].

In parziale riforma della sentenza di grado precedente, i giudici affermarono che Giulio Andreotti era stato, fino alla primavera del 1980, colluso con Cosa Nostra, alla stregua di un vero e proprio partecipe secondo la formula contestata dai pubblici ministeri, decidendo, solo dopo il tragico epilogo della vicenda Mattarella, di allontanarsi dal sodalizio mafioso.

In buona sostanza i giudici di Appello ricollocarono le condotte contestate a Giulio Andreotti in due differenti epoche, corrispondenti ad una prima stagione antecedente (fino al 1980) e ad una seconda stagione successiva (dal 1981) all’avvento dell’egemonia dei Corleonesi all’interno di Cosa Nostra dopo la Seconda Guerra di Mafia, per poi arrivare a riconoscere che Giulio Andreotti era stato colluso con l'organizzazione mafiosa fino all’ascesa dei Corleonesi, quando cioè i suoi referenti mafiosi erano stati eliminati (Stefano Bontate) o messi da parte (Gaetano Badalamenti).

Alla base del giudizio colpevolezza, ritenuto prescritto, il collegio giudicante pose i seguenti fatti, ritenuti proficuamente riscontrati[55]:

  • l’intervento nel 1977 del capomafia Stefano Bontate, evocato da Giulio Andreotti, per porre fine alle pratiche estorsive provenienti da esponenti della ‘ndrangheta calabrese nei confronti di Nardini;
  • l’incontro di Giulio Andreotti con Gaetano Badalamenti a Roma, in relazione al "processo Rimi", rispetto al quali i giudici ritennero non dimostrato l’intervento manipolatorio di Andreotti;
  • l’incontro svoltosi fra la primavera e l’estate del 1979 con Stefano Bontate e altri mafiosi, per discutere della condotta assunta dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. La Corte, pur senza ragionare di una data di univoca certezza cronologica da attribuire all’incontro, definì degna di attenzione la giornata del 26 luglio 1979, pur ritenendo possibili date diverse;
  • l’incontro tra Giulio Andreotti e Stefano Bontate, nella primavera del 1980, connesso all’assassinio di Piersanti Mattarella, e il conseguente litigio fra Andreotti e Bontate;
  • l’esistenza di rapporti fra Giulio Andreotti, Salvo Lima e i cugini Antonino e Ignazio Salvo coltivati nella piena contezza della loro collusione con Cosa Nostra. Nondimeno il collegio ravvisò non sufficientemente dimostrata la perpetrazione dei rapporti di Lima e dei Salvo con Cosa Nostra all’esito dell’avvento dei Corleonesi.

Il collegio giudicante riconobbe quindi:

«(la sussistenza n.d.r.) di amichevoli ed anche dirette relazioni del sen. Andreotti con gli esponenti di spicco della […] ala […] di Cosa Nostra, Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, propiziate dal legame del predetto con l’on. Salvo Lima ma anche con i cugini Antonino e Ignazio Salvo, essi pure, peraltro, organicamente inseriti in Cosa Nostra;

(la sussistenza n.d.r.) di rapporti di scambio che dette amichevoli relazioni hanno determinato: il generico appoggio elettorale alla corrente andreottiana, peraltro non esclusivo e non esattamente riconducibile ad una esplicita negoziazione e, comunque, non riferibile precisamente alla persona dell’imputato;

il solerte attivarsi dei mafiosi per soddisfare, ricorrendo ai loro metodi, talora anche cruenti, possibili esigenze – di per sé, non sempre di contenuto illecito – dell’imputato o di amici del medesimo;

la palesata disponibilità ed il manifestato buon apprezzamento del ruolo dei mafiosi da parte dell’imputato, frutto non solo di un autentico interesse personale a mantenere buone relazioni con essi […];

la travagliata […] interazione dell’imputato con i mafiosi nella vicenda Mattarella, risoltasi, peraltro, nel drammatico fallimento del disegno del predetto di mettere sotto il suo autorevole controllo la azione dei suoi interlocutori ovvero, dopo la scelta sanguinaria di costoro, di tentare di recuperarne il controllo, promuovendo un definitivo, duro chiarimento, rimasto infruttuoso per l’atteggiamento arrogante assunto dal Bontate»[56].

Il reato di partecipazione ad associazione a delinquere (capo A) fu ritenuto prescritto, con formula di non doversi procedere ex art. 531 c.p.p., essendosi esaurito, alla data del giudizio e a parere dei giudici, il termine prescrittivo previsto per il suddetto reato. Al di là del risultato sanzionatorio concreto, la prescrizione del reato non può, giuridicamente parlando ma non solo, intendersi quale sinonimo di assoluzione dallo stesso.

L'insufficienza delle prove per il periodo successivo al 1980

Rispetto alla seconda epoca, quella relativa alla egemonia dei Corleonesi in Cosa Nostra, a parere dei giudicanti, pur in presenza di un quadro istruttorio in grado di rappresentare effettivamente i tentativi dei nuovi reggenti di instaurare dei nuovi rapporti con Giulio Andreotti (il collegio ritenne comprovato l’incontro tra Giulio Andreotti e Andrea Manciaracina del 19 agosto del 1985), non furono portate prove sufficienti per affermare la perpetuata collusione di Andreotti.

Così, la Corte rispetto agli altri capitoli di prova, riconobbe:

  • l’oggettiva incertezza nella ricostruzione del regalo del dipinto da parte di Stefano Bontate nei confronti di Giulio Andreotti, benché “nel contesto di comprovati, amichevoli rapporti coltivati fino ad un certo punto dall’imputato con alcuni capimafia e, massimamente con Stefano Bontate […] la vicenda in sé poco aggiunge quanto già evidenziato, cosicché la stessa potrebbe essere accantonata”[57];
  • l’interessamento (già ravvisato dal Tribunale) di Giulio Andreotti rispetto ai guai finanziari della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, sebbene rispondente ad una sua forma di benevola attenzione verso il finanziere, pur non accompagnata al momento decisivo da forme di un suo intervento anche solo indiretto, anzichè all’esaurimento di una richiesta da parte dei suoi referenti mafiosi;
  • l’insussistenza, nelle vicende riguardanti gli omicidi del giornalista Carmine Pecorelli e del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, di elementi a dimostrazione del rapporto esistente fra Giulio Andreotti e Cosa Nostra, e quindi di loro riflessi sul reato associativo;
  • l’assenza di riscontri specifici quanto all’attività di Vito Ciancimino quale intermediario tra Giulio Andreotti e la frangia ‘corleonese’ di Cosa Nostra, a tal stregua riducendo il rapporto fra i due a frequentazione di natura politica;
  • l’assenza di riscontri specifici riferibili all’attività di Giulio Andreotti nel trasferimento di alcuni detenuti siciliani dal carcere di Pianosa a quello di Novara, pur giudicando il provvedimento raro e in ipotesi riconducibile ad una sollecitazione di Salvo Lima;
  • l’assenza di prove di convincimento quanto all’intervento di Giulio Andreotti nella manipolazione del processo a carico dei fratelli Gianfranco e Riccardo Modeo;
  • l’assenza di riscontri sufficienti a dimostrare l’incontro fra Andreotti e Salvatore Riina, a partire dalla «incerta attendibilità delle indicazioni di Di Maggio»[58] e dalla incongruenze fra le sue dichiarazioni e quelle delle altre parti esaminate sul fatto;
  • l’assenza di riscontri a dimostrazione dell’intervento manipolatorio di Andreotti nel maxiprocesso, non essendo state portate prove a sufficienza per dimostrare la possibilità, per il politico democristiano, di intervenire su Corrado Carnevale, quale magistrato candidato a presiederne il giudizio di legittimità, oltre che l’esistenza di un grado di rapporti tra Andreotti e Carnevale così intimo da consentire all’uno di intraprendere un’azione efficace presso l’altro;
  • l’insussistenza nel supporto da parte di Giulio Andreotti alla candidatura a Trapani di Giuseppe Giammarinaro, e da parte di Salvo Lima a quella dell’andreottiano Raffaele Bevilacqua a Enna, in vista delle elezioni regionali del giugno 1991, di elementi dimostrativi delle perduranti relazioni di Giulio Andreotti con Cosa Nostra;
  • un deciso impegno istituzionale di Giulio Andreotti contro Cosa Nostra a partire dalla seconda metà degli anni ‘80, espressosi nella sua attività svolta per ottenere l’estradizione nel 1984 di Tommaso Buscetta dal Brasile, nell’impegno profuso per la approvazione del d.l. 12 settembre 1989 n. 317 onde impedire la scarcerazione, nel corso del giudizio di appello, di numerosi imputati del maxiprocesso, e nell’adozione di altri provvedimenti normativi nel corso della sua ultima Presidenza del Consiglio dei Ministri (1989-1992)[59].

La Corte concluse le motivazioni della sentenza d'appello in questo modo:

«L’oggettivo e già evidenziato deficit probatorio in ordine a specifici e concreti interventi agevolativi degli interessi della associazione mafiosa posti in essere dall’imputato, che possono, in termini plausibili, soltanto immaginarsi, non assume, pertanto, valenza determinante, posto che, comunque, con la sua condotta (si ribadisce, non meramente fittizia), l’imputato ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi.

In definitiva, la Corte ritiene che sia ravvisabile il reato di partecipazione alla associazione per delinquere nella condotta di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all’ambiente siciliano, il quale, nell’arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di una esplicitata negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di una organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell’Isola:

a) chieda ed ottenga, per conto di suoi sodali, ad esponenti di spicco della associazione interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli;

b) incontri ripetutamente esponenti di vertice della stessa associazione;

c) intrattenga con gli stessi relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti;

d) appalesi autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso;

e) indichi ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati;

f) ometta di denunciare elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi;

g) dia, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici – e non meramente fittizi – di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale»[60].

La conferma della sentenza d'Appello in Cassazione

Contro la sentenza della Corte di Appello di Palermo vennero proposti due ricorsi per Cassazione: uno da parte da parte della Difesa dell’imputato e uno da parte della Procura Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Il processo di terzo grado si aprì e si concluse nelle udienze del 14 e 15 ottobre 2004, a Roma, davanti alla Seconda Sezione Penale di Cassazione presieduta dal dott. Giuseppe Maria Cosentino, con giudici consiglieri dott. Maurizio Massera (estensore della sentenza), dott. Antonio Morgigni, dott. Francesco De Chiara e dott. Carlo Podo.

Nell’udienza del 14 ottobre si procedette dapprima alla relazione della causa svolta dal dott. Maurizio Massera; di seguito, il sostituto Procuratore Generale Francesco Iacoviello pronunciò la sua requisitoria, che si concluse con la richiesta di rigetto dei ricorsi intervenuti.

Successivamente il difensore della parte civile, l’avv. Salvatore Modica, formulò le proprie conclusioni richiedendo, in principalità, l’accoglimento del ricorso della Procura Generale e il rigetto del ricorso dell’imputato, con condanna del medesimo al risarcimento dei danni patrimoniali e non, per offesa all’immagine della città, oltre alle spese processuali, e, in subordine, l’applicazione della prescrizione con rinvio del processo al giudice civile[61].

Da ultimo, la Difesa (avv. Giulia Bongiorno e avv. Franco Coppi) concluse con la richiesta del rigetto del ricorso della Procura Generale e l’accoglimento del ricorso dell’imputato con annullamento senza rinvio della sentenza di secondo grado[62].

Il 15 ottobre, dopo una camera di consiglio durata due ore, la Corte dispose il rigetto dei ricorsi presentati, con condanna di Giulio Andreotti al pagamento delle spese processuali e con conseguente conferma del giudizio di secondo grado.

Il 28 dicembre successivo furono depositate le motivazioni della sentenza. Anche secondo i supremi giudici, in conclusione, Giulio Andreotti è stato un associato di Cosa Nostra fino alla primavera del 1980, quando deciso di dissociarsi dal sodalizio, arrivando financo a promuovere tra il 1989 e il 1992, all’interno degli ultimi Governi presieduti in qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri, provvedimenti normativi di contrasto alla criminalità mafiosa.

La mistificazione della sentenza della Cassazione: Andreotti assolto

Assolto! Assolto! Assolto!”, urlò Giulia Bongiorno davanti a una folla di microfoni e telecamere, nell’atto di comunicare al suo cliente l’esito di un processo. Questa scena, finita negli annali della storia giudiziaria d'Italia, è alla base della più grande mistificazione di un esito di una sentenza di Cassazione. Quel triplice "assolto!" riguardava solo una parte della sentenza d'appello che veniva confermata dalla Cassazione. Eppure da quel momento, per anni, Giulio Andreotti venne unanimemente considerato assolto nel processo che lo aveva visto imputato dal 1993 al 2004.

Lo hanno ricordato Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte, costretti nel 2018 a sfornare l'ennesimo libro sulla vicenda, intitolato "La verità sul processo Andreotti"[63].

Lo stesso Caselli, reo di aver retto la Procura di Palermo ai tempi di quel processo, fu vittima nel marzo 2005 di una «legge contra personam», introdotta nella riforma della giustizia sotto forma di emendamento dal senatore di Alleanza Nazionale Luigi Bobbio: per impedirgli di concorrere alla carica di Procuratore Nazionale Antimafia, veniva stabilito che i magistrati che avessero compiuto i 66 anni d'età non potevano concorrere per incarichi direttivi. Al momento dell'entrata in vigore della modifica, la Commissione Uffici direttivi, composta da 6 membri, si era divisa a metà tra l'ex-procuratore capo di Palermo e il suo successore Pietro Grasso. La norma successivamente fu dichiarata incostituzionale, ma oramai il concorso si era già chiuso[64].

La relazione conclusiva della Commissione antimafia Centaro

La mistificazione entrò addirittura nelle carte istituzionali della Commissione parlamentare antimafia presieduta dal senatore siciliano di Forza Italia Roberto Centaro. Nel gennaio 2006 venne infatti licenziata una relazione, approvata soltanto dalla maggioranza di centrodestra, contenente «severe quanto fantasiose censure sulle presunte anomalie del processo Andreotti»[65]. A questo tema venivano dedicate ben 380 pagine, benché dell'argomento la Commissione non si fosse mai occupata e oggetto della relazione sarebbe dovuto essere quello di illustrare lo stato generale della mafia in Italia.

Tanto che nella relazione di minoranza il fatto viene spiegato in questo modo:

«L’unica ragionevole motivazione che può avere indotto [...] alla stravagante scelta di dedicare un quarto della relazione sui cinque anni di attività della Commissione parlamentare antimafia ad un argomento al quale non è mai stato dedicato neppure un minuto del lavoro della Commissione», porta a Marcello Dell’Utri. Rafforzano questa ipotesi «i legami politici e l’approssimarsi della campagna elettorale, nella quale il sen. Dell’Utri avrà un ruolo centrale per Forza Italia, lo stesso partito del presidente della Commissione ed estensore della relazione». Il tentativo è infatti quello di «accreditare l’ipotesi» che Dell’Utri, «condannato in primo grado» per concorso esterno in associazione mafiosa, «si dimostrerà domani con alta probabilità vittima di una persecuzione politica»[66].

Il Processo Andreotti è ancora usato nei talk show televisivi e sulla carta stampata (oramai non più solo di centrodestra) come esempio dell'inaffidabilità della magistratura e in generale delle inchieste mafia-politica, di cui si escludono legami nazionali.

Note

  1. Memoria depositata dai P.M. nel procedimento penale instaurato nei confronti di Giulio Andreotti, 1995, p. 12.
  2. Ivi, p. 13.
  3. Corrado Carnevale fu dal 1 dicembre 1985 al 26 dicembre 1992 Presidente della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione – quella addetta ai processi per i reati associativi, di terrorismo e di criminalità organizzata.
  4. Memoria depositata dai P.M. nel procedimento penale instaurato nei confronti di Giulio Andreotti, 1995, p. 12.
  5. Ivi, p. 24.
  6. Ivi, p. 21.
  7. Ivi, p. 105.
  8. Ivi, p. 106.
  9. Ivi, p. 107.
  10. Ivi, p. 110.
  11. Salvatore Barresi-Antonio Balsamo, Trib. Palermo, V Sez. Pen., 23 ottobre 1999, p. 592.
  12. Memoria depositata dai P.M. nel procedimento penale instaurato nei confronti di Giulio Andreotti, 1995, pp. 55-56.
  13. Ivi, p. 111.
  14. Ivi, p. 114.
  15. Sul tema, si rinvia a Pino Arlacchi (1995). Il processo. Giulio Andreotti sotto accusa a Palermo, Milano, Rizzoli, p. 73, ove si apprende che Tommaso Buscetta si riferiva a Vincenzo Rimi come «al leader morale di tutta Cosa nostra siciliana degli anni ‘50 e ‘60» il cui carisma, per quanto si trattasse di un ‘semplice soldato’ della famiglia d’Alcamo, «era tale che essergli amico veniva considerato, nei circoli mafiosi, come uno degli onori più alti». Al riguardo, si veda anche Giovanni Falcone, Cose di Cosa nostra, p. 101.
  16. Memoria depositata dai P.M. nel procedimento penale instaurato nei confronti di Giulio Andreotti, 1995, p. 667.
  17. Salvatore Barresi-Antonio Balsamo, Trib. Palermo, V Sez. Pen., 23 ottobre 1999, p. 1451.
  18. Memoria depositata dai P.M. nel procedimento penale instaurato nei confronti di Giulio Andreotti, 1995, p. 113.
  19. Salvatore Barresi-Antonio Balsamo, Trib. Palermo, V Sez. Pen., 23 ottobre 1999, p. 1126.
  20. Ivi, p. 1248.
  21. Cfr. Memoria depositata dai P.M. nel procedimento penale instaurato nei confronti di Giulio Andreotti, 1995, p. 694.
  22. Ingargiola Francesco (1999). Sentenza n. 881/99 contro Andreotti Giulio, Tribunale di Palermo - V Sezione Penale, 23 ottobre, p. 575.
  23. Ivi, p. 965.
  24. Ivi, p. 660.
  25. Ibidem.
  26. Ivi, p. 1397.
  27. Ivi, p. 474.
  28. «Se gli associati scorrono in armi le campagne o le pubbliche vie, si applica la reclusione da cinque a quindici anni»
  29. «La pena è aumentata se il numero degli associati è di dieci o più».
  30. «Se l'associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei anni nei casi previsti dal secondo comma. L'associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell'associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito».
  31. «L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento delle finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito»
  32. «Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà».
  33. Memoria depositata dai P.M. nel procedimento penale instaurato nei confronti di Giulio Andreotti, 1995, p. 884
  34. Ivi, p. 885.
  35. «Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile».
  36. Ingargiola Francesco (1999). Sentenza n. 881/99 contro Andreotti Giulio, Tribunale di Palermo - V Sezione Penale, 23 ottobre, p. 342.
  37. Ivi, p. 1439.
  38. Ivi, p. 463.
  39. Ivi, p. 521, ove si legge: «Il sen. Andreotti incontrò a Roma tre volte (rispettivamente intorno al 1976, il 20 settembre 1978 e nel 1983) Vito Ciancimino, esponente della Democrazia Cristiana di Palermo il quale aveva instaurato da lungo tempo un rapporto di stabile collaborazione con lo schieramento ‘corleonese’ di Cosa Nostra».
  40. Ivi, pp. 568-570.
  41. Ivi, p. 569.
  42. Ivi, p. 1442.
  43. Ivi, p. 720.
  44. Ivi, p. 721.
  45. L’impegno effettivo di Giulio Andreotti fu ritenuto dimostrato: da una fitta serie di incontri con l’avvocato di Sindona Rodolfo Guzzi (almeno nove); da un incontro con Michele Sindona celebratosi personalmente in America, fra il 1976 e il 1977, a Washington, quando Sindona era latitante; da un incontro (il 23 agosto 1976) con due componenti della comunità italo-americana, Philip Guarino e Paul Rao; da un carteggio fra Andreotti e Sindona.
  46. La magistratura di Milano, in esito all’apertura della procedura di liquidazione coatta amministrativa della Banca Privata Italiana – nata nell’agosto del 1974 dalla fusione tra Banca Finanziaria Italiana e Banca Unione – aveva emesso, nel settembre del 1974, due mandati di cattura per Michele Sindona per i reati di bancarotta fraudolenta e false comunicazioni sociali.
  47. Sentenza 1° grado, p. 720
  48. Ivi, p. 1446.
  49. Stando ad una relazione del Commissario di Pubblica Sicurezza di Mazara del Vallo, secondo quanto notato dal Sovrintendente Capo della Polizia di Stato Francesco Stramandino in servizio presso il luogo del fatto, il 19 agosto 1985 Giulio Andreotti incontrò, nel corso di un suo intervento presso l’Hotel Hopps, il mafioso Andrea Manciaracina  appartandosi in una saletta privata dell’albergo grazie ai servigi del sindaco di Mazara, Gasperino Zaccaria.
  50. Sentenza di 1° grado, p. 1442.
  51. Scaduti Salvatore (2003). Sentenza n. 1564 contro Andreotti Giulio, Corte di Appello di Palermo - I Sezione Penale, 2 maggio, p. 2.
  52. Ivi, pp. 1081-1085.
  53. Ivi, pp. 1086-1088.
  54. Ivi, p. 1521.
  55. Ivi, pp. 1095 – 1271.
  56. Ivi, p. 1508.
  57. Ivi, p. 1206.
  58. Ivi, p. 1382.
  59. Si veda al riguardo all’imponente attività normativa indicata da Andreotti, in sede di sommarie dichiarazioni, il 28 ottobre 1998, durante il dibattimento del primo grado di giudizio, indicata alle pagine 490-492 della sentenza di 1° grado. A pagina 492 si legge tuttavia che «alcuni tra i risultati più rilevanti di questa produzione normativa furono, però conseguenza di iniziative assunte dall’on. Claudio Martelli (Ministro di Grazia e Giustizia dal 4 febbraio 1991 al 10 febbraio 1993) e dall’on. Vincenzo Scotti (Ministro dell’Interno nel VI e nel VII governo Andreotti), come si evince dalle deposizioni testimoniali rese rispettivamente dall’on. Martelli nel presente dibattimento e dall’on. Scotti nel processo n. 29/97 svoltosi davanti alla Corte di Assise di Caltanissetta a carico di Mariano Agate ed altri 26 imputati per la Strage di Via D’Amelio».
  60. Ivi, p. 1517-1518. Grassetto nostro.
  61. Maurizio Massera, Cass. Pen., Sez. II, 15 ottobre 2004, n. 49691, p. 1.
  62. Ibidem.
  63. Caselli Gian Carlo, Lo Forte Guido (2018). La verità sul processo Andreotti, Roma, Laterza, p. 1.
  64. La vicenda è raccontata nel libro Caselli Gian Carlo (2005). Un magistrato fuori legge, Milano, Melampo editore.
  65. Ivi, p. 12.
  66. Ibidem

Bibliografia

Atti giudiziari

  • Cosentino Giuseppe (2004). Sentenza n. 49691/04 contro Andreotti Giulio, Suprema Corte di Cassazione - II sezione penale, 15 ottobre.
  • Ingargiola Francesco (1999). Sentenza n. 881/99 contro Andreotti Giulio, Tribunale di Palermo - V Sezione Penale, 23 ottobre.
  • Scaduti Salvatore (2003). Sentenza n. 1564 contro Andreotti Giulio, Corte di Appello di Palermo - I Sezione Penale, 2 maggio.
  • Memoria depositata dai P.M. nel procedimento penale instaurato nei confronti di Giulio Andreotti, 1995.

Libri

  • Arlacchi Pino (1995). Il processo. Giulio Andreotti sotto accusa a Palermo, Milano, Rizzoli.
  • Caselli Gian Carlo, Lo Forte Guido (2018). La verità sul processo Andreotti, Roma, Laterza.
  • Cavalli Giulio (2012). L'innocenza di Giulio. Andreotti e la mafia, Milano, Chiarelettere.
  • Falcone Giovanni, in collaborazione con Marcelle Padovani, Cose di Cosa nostra, Milano, Fabbri Editore, 1995.
  • Januzzi Lino (2001). Il processo del secolo. Come e perché è stato assolto Giulio Andreotti, Milano, Mondadori.